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Connessioni/network e movimenti sociali

Per una genealogia dell’attivismo digitale


Computer generated Chaos Structure


In questo articolo si cercherà di ricostruire – a partire dalle trasformazioni che hanno investito la società capitalistica dall’inizio della globalizzazione – la genealogia, per dirla in termini foucaltiani, delle strategie comunicative dei movimenti sociali sia a livello nazionale che transnazionale. L’obiettivo non è soltanto quello di evidenziare la centralità che la comunicazione assume per i movimenti – in un’ottica di uscita da una condizione di marginalità e di criminalizzazione cui le narrazioni del mainstream hanno da sempre cercato di relegarli, in un’arena politica sempre più mediatizzata – ma una riflessione ad ampio raggio che tenti di fornire elementi di criticità e spunti per un dibattito quanto mai attuale. Le piattaforme di social networking, infatti, stanno ridefinendo alcuni assetti della società capitalistica per i livelli di plusvalore che sono in grado di produrre, e gli effetti sia di disciplinamento sia di controllo sociale che praticano sugli utenti. Vengono incasellati gusti e preferenze secondo una logica di mercificazione; vengono attuate pratiche di sorveglianza sociale ad un punto tale da apporre al capitalismo l’attributo di «surveillance capitalism» come sostiene S. Zuboff (2019). Contestualmente all’ascesa del networking commerciale, si è aperta anche una «fase di crisi» che ha investito i radical media, cui è conseguito un progressivo «de-potenziamento» del loro uso da parte degli stessi attivisti, in un milieu mediale sempre più frammentato. Dopo neanche un decennio di dominio delle piattaforme commerciali, infatti, techie e hacker hanno iniziato una riflessione su questi temi, che ha messo in luce tutte le criticità derivanti dall’utilizzo dei social network commerciali, riattualizzando il dibattito sull’uso delle infrastrutture tecnologiche alternative da parte dei movimenti sociali.


Dall’avvento della New Economy all’ascesa della Network Society

Con la fine della Guerra fredda e la caduta del muro di Berlino nel 1989, si è aperto un nuovo «ciclo» storico che per gli sconvolgimenti e le trasformazioni economico-politiche e sociali, può essere paragonato solo all’avvento della Modernità. L’era della globalizzazione si è infatti caratterizzata per il neoliberismo economico su scala internazionale, la finanziarizzazione dell’economia e (grazie all’utilizzo di nuove tecnologie computerizzate) l’eccesso di flussi comunicativi che viaggiano sui canali della Rete. La rivoluzione nell’ambito della comunicazione apportata dalla diffusione di Internet, ha consentito un abbattimento dei confini geografici utile alle transazioni di capitali a livello globale e, al contempo, ha fornito la possibilità di accumulare una quantità di dati pressoché illimitata in tempo reale, costruendo quelli che, sia all’expertise di settore sia al grande pubblico, sono ormai noti come Big Data. Lo stesso sistema capitalista, che fino a quel momento realizzava il proprio profitto dal lavoro operaio e salariato, si è dovuto in qualche maniera «rigenerare» iniziando, già dalla fine degli anni Settanta, a estrarre plusvalore anche (e in maniera sempre più capillare) dal lavoro immateriale o cognitivo. Il termine net economy designa il nuovo paradigma economico che, sfruttando i vantaggi di un mercato globale che viaggia sulle reti informatiche, estrae il proprio plus valore non solo dalla produzione dell’operaio massa, ma dalla ricchezza prodotta dal knowledge worker ovvero il lavoratore della conoscenza. L’elemento centrale della produzione immateriale e del lavoro cognitivo nella nuova società in rete risiede proprio nella conoscenza come insieme delle capacità, dalla cultura e della creatività del soggetto. Tutti fattori questi ultimi permeati dalla cultura hacker e dai movimenti sociali, soprattutto quelli di matrice libertaria, nonché da quelli contro culturali sorti in seno alle università europee e statunitensi che il capitalismo è riuscito a sussumere – nonostante resistenze – nell’arco di due decenni. Nella società dell’informazione, la merce più preziosa è proprio la conoscenza che deriva dallo scambio di know how e informazioni che viaggiano attraverso la Rete. Il lavoro cognitivo tende infatti a singolarizzare il bagaglio di conoscenze nell’atto del lavoro: ciò che crea plus valore sono le relazioni sociali, la cooperazione, la comunicazione, ovvero il sapere prodotto collettivamente che Marx definiva come general intellect. A proposito del lavoro cognitivo e delle sue caratteristiche, Pasquinelli (2014, p. 83) sottolinea come nei Grundrisse, Marx facesse riferimento «a un’autonoma dimensione della conoscenza, una sorta di sapere vivo colto prima della sua cristallizzazione nelle macchine». Con il lavoro cognitivo si dilata il tempo della produzione; messo a valore non è solo il lavoro legato alla produzione materiale ma anche quello legato alla produzione immateriale. Il lavoro cognitivo si caratterizza, dunque, per l’utilizzo delle nuove tecnologie, e in particolare delle Information Technologies, e a un uso sempre più consistente dei social network e dei media digitali.

Il sociologo M. Castells (2007), proprio per indicare le trasformazioni sociali che hanno caratterizzato le società occidentali a partire dagli anni Novanta, ha coniato la definizione di «network society» ovvero «una società che si sposta dall’impostazione sostanzialmente verticale delle burocrazie che hanno governato l’umanità per millenni-eserciti, Stati, grandi aziende, per andare invece verso un’organizzazione a rete». L’autore chiarisce come la società in rete «sia una società in cui la struttura sociale ruota intorno alle reti attivate da tecnologie dell’informazione e della comunicazione elaborate digitalmente e basate sulla microelettronica. […] Considero le strutture sociali come gli assetti organizzativi degli esseri umani che entrano in relazione di produzione, consumo, riproduzione, esperienza e potere, espresse in una comunicazione dotata di senso codificata dalla cultura» (Castells 2009, p. 19). Lo studioso ribadisce come queste reti digitali si configurino come globali di per sé stesse poiché strutturalmente predisposte dai loro programmatori per varcare i confini territoriali e istituzionali, per usare le parole del sociologo, «essendo capaci di sfruttare le reti di computer in telecomunicazione» (ivi). Castells non manca di sottolineare, però, come sia l’organizzazione reticolare sia le tecnologie della rete costituiscano soltanto dei mezzi entro cui si configura la struttura sociale nell’era della globalizzazione e che proprio per queste sue caratteristiche di networking, tale processo si differenzia sensibilmente da quelli di altre epoche storiche, in cui vi era stata un’apertura dei mercati a livello globale. All’origine della struttura sociale della network society, vi sono i processi di produzione e di distribuzione del valore laddove, analogamente a quanto accade in altre strutture sociali precedenti la sua diffusione, questo è determinato «da ciò che le istituzioni dominanti in quella data società decidano che sia valore» (ivi).

La questione da porre, dunque, è cosa si intenda per «valore» nella network society. In un tale sistema economico, l’accumulazione del capitale passa attraverso i canali della rete estraendo plusvalore, per dirla sempre con Castells, dalla «valutazione degli attivi finanziari sui mercati globali»; «il valore supremo sarà valore in ogni circostanza, in quanto sotto il capitalismo, l’estrazione del profitto e la sua materializzazione in termini monetari possono, in ultima analisi, acquisire tutto il resto» (ivi). Il rendimento dato dall’accumulazione del capitale si realizza proprio sui mercati finanziari globali, che a loro volta assegneranno «valore a ogni transazione in ogni paese», essendo l’economia internazionale caratterizzata da un meccanismo d’interdipendenza. Come si accennava prima, però, il capitalismo cognitivo tende a estrarre plusvalore, oltre che dalle transazioni finanziarie, anche dalla dimensione comunicativa e interrelazionale degli utenti attivi in rete. Questo processo ha conosciuto una crescita esponenziale con l’avvento del web 2.0 e dei social media. Ciò che caratterizza la network society è il fatto che ogni aspetto che regola le attività della vita umana (produzione, arte, cultura, mercati finanziari, ridistribuzione di beni e servizi, ivi compresi movimenti sociali, religione ecc.) si configura attraverso l’uso di reti informatiche.


Indymedia e il net activism: «Join the Media Revolution!»

Per evidenziare l’impatto che le nuove tecnologie hanno avuto sui movimenti sociali, la studiosa L. Langman (2006, p. 11) ha elaborato l’espressione «Internet worked», che è possibile tradurre come «movimenti nati con Internet», proprio per sottolineare la capacità che i media digitali hanno avuto di modificarne gli assetti organizzativi. Grazie all’abbattimento dei costi di connessione e alla struttura decentralizzata della rete, attori collettivi come i movimenti sociali, che scarseggiano sotto il profilo delle risorse materiali, sono stati in grado di sfidare il monopolio rappresentato dai media tradizionali, sortendo l’effetto di modificare sensibilmente la sfera dell’arena mediale pubblica, riuscendo ad aprire nuovi spazi di comunicazione e di agibilità politica, arrivando al «grande pubblico». La comunicazione «antagonista» e alternativa, com’è ben noto, non nasce certo con la diffusione della Rete, e prima dell’avvento di Internet le strategie comunicative dei movimenti sociali erano orientate sia all’opinione pubblica, spesso con scarsi risultati, sia verso i movimenti stessi (con maggiore successo!) mediante strumenti di controinformazione legati alla produzione di contenuti alternativi, come opuscoli, pamphlet, volantini ciclostilati, manifesti, «zines», realizzate in larga parte dai gruppi più radicali come gli autonomi e gli anarchici.

È proprio in questi contesti di movimento che sono nate le radio libere sparse su tutto il territorio nazionale alla fine gli anni Settanta. È ancora impresso nella memoria collettiva lo sgombero di Radio Alice a Bologna avvenuto il 12 marzo 1977, con gli speaker che hanno continuato a trasmettere fino all’irruzione violenta della polizia. Se le radio libere hanno caratterizzato il movimento del ’77, le zine prodotte dai punk dei centri sociali come il Virus di Milano e degli squat, hanno contraddistinto quello degli anni Ottanta. Queste produzioni mediali si caratterizzavano per una spiccata vocazione controculturale e libertaria, trattando di concerti di musica alternativa e underground, letteratura cyberpunk, tematiche come l’autogestione degli spazi sociali occupati e contro il nucleare, tematiche queer e di genere, all’indomani dell’ondata repressiva che aveva colpito il «Movimento» e la conseguente situazione di riflusso che i movimenti si erano trovati a vivere a seguito dell’operazione 7 aprile. Il movimento della «Pantera», tra l’autunno del 1989 e l’inizio degli anni Novanta, invece, si è caratterizzato per l’uso dei fax che gli occupanti utilizzavano per inviarsi documenti, confrontarsi sui temi della contestazione e organizzare manifestazioni di protesta coordinandosi a livello nazionale.

Ma l’impatto maggiormente incisivo sotto il profilo dell’utilizzo delle nuove tecnologie, (in particolare di Internet) da parte dei movimenti sociali, lo ha avuto il movimento no global nato a Seattle nel 1999 contro il vertice del Wto. In occasione del contro-summit, i media attivisti crearono una «rete d’informazione collettiva» composta da nodi redazionali autogestiti e diffusi a livello globale. Indymedia è nata dall’unione di varie organizzazioni e «media attivisti» operanti nell’ambito dell'informazione indipendente e alternativa, ma anche da tutti quei manifestanti attivi nelle piazze che forniti di telecamere e macchine fotografiche digitali documentavano quello che accadeva in quelle giornate, fornendo copertura mediatica direttamente in loco e dal basso alle proteste contro il Wto. Scrive Pasquinelli (2002, p. 17) in proposito: «il media attivista è una figura sociale, una nuova figura di operatore, militante, artista, cittadino, impegnato a sperimentare, spesso nel proprio tessuto urbano, forme di autogestione della comunicazione».

Il media attivista, dunque, è una figura ibrida, capace di «maneggiare» le nuove tecnologie con una nuova consapevolezza. Rappresenta quella soggettività in grado di costruire un’informazione totalmente autogestita e di rompere con la narrazione dominante, e in grado di produrre non soltanto nuove pratiche comunicative, ma anche nuovi linguaggi politicamente situati. Questa figura innovativa rompeva il monopolio dell’informazione, documentava e sperimentava i linguaggi dei conflitti urbani e metropolitani; diventava parte di quei conflitti che sapeva raccontare attraverso l’uso delle nuove tecnologie, ponendosi da una prospettiva dal basso, autogestita e capace di costruire nuovi immaginari collettivi. «Don’t hate the media became the media!» era il famoso slogan che ben sintetizzava il nuovo approccio verso un contro uso delle nuove tecnologie, in cui i movimenti sperimentavano tutto il potenziale della Rete, aprendo nuovi spazi di agibilità politica tanto nelle piazze reali quanto in quella virtuale. Questi media radicali e partecipativi hanno avuto non soltanto la capacità di rompere il muro dell’informazione veicolata dal mainstream, da sempre collaterale alle classi dominanti, ma anche di riuscire a decostruire le narrazioni ufficiali sugli eventi di protesta, portando direttamente all'attenzione dell'opinione pubblica il punto di vista degli stessi movimenti in merito agli eventi dei controvertici.

Emblematico, in tal senso, è stato il caso dell’irruzione della polizia alla scuola Diaz e la contro-inchiesta sulla morte di Carlo Giuliani, durante e dopo le giornate del G8 a Genova nel 2001, in cui Indymedia documentò attraverso i video prodotti dai media attivisti presenti in loco, la «macelleria messicana» operata dalle forze dell’ordine sui manifestanti. Il Italia la storia del mediattivismo è intrinsecamente legata a quella dell’hacktivism e della comunità hacker, che nei centri sociali realizzava hacklab [1] e si adoperava per farli «mettere in rete» attraverso l’implementazione di infrastrutture tecnologiche indipendenti d alternative e l’uso di reti telematiche, le famose Bbs [2], come Ecn e P-Net, da cui sarebbe nato il progetto Isole nella Rete. Dall’incontro tra «techie e media attivisti» è nato, successivamente, il progetto Autistici/Inventati, e l’evento di Hackmeeting [3] che si svolge annualmente dal 1998 rappresenta, ancora, il punto di raccordo di tutta le comunità.


Dalla piazza reale alla piazza virtuale: contro usi della Rete e «tecnopolitica»

Con l’avvento della crisi globale, iniziata negli Stati Uniti con la bolla speculativa dei subprime del 2007 e poi diffusasi nel resto d’Europa, si è aperto un nuovo capitolo in termini di ripresa dei cicli di mobilitazioni da parte dei movimenti sociali a livello transnazionale. Parallelamente al diffondersi della crisi, si è assistito a una ripresa di quelle che F. Berardi (2015, p. 9) definisce «insorgenze soggettive», che dai riot londinesi e dalle primavere arabe del 2011, dal movimento di Occupy Wall Street, di Puerta del Sol e degli indignados in Spagna, ai movimenti contro le riforme del mondo dell’istruzione in Italia, contro le politiche di gentrification in Turchia, hanno toccato anche la Francia, con le mobilitazioni contro la Loi Travail del 2016. Se si analizza la composizione sociale di questi movimenti, pur essendo intergenerazionale, si nota come una larga fascia si sia caratterizzata per una componente giovanile e di nativi digitali, ovvero generazioni connesse in Rete e alla Rete, attraverso l’uso di dispositivi come smartphone e tablet. «Generazione scomparsa» per dirla G. Roggero (2014), poiché esposta alla precarietà esistenziale dovuta all’assenza di diritti e di tutele sul piano sociale e alla mancanza di prospettive di vita solide e concrete.

Se è vero, come sostiene Morozov (2011, p. 7), che «ogni rivoluzione ha i suoi media», è altrettanto vero quanto sostiene Castells, che sottolinea come questi attori sociali e politici abbiano praticato «l’auto-comunicazione di massa», riuscendo a costruire una dimensione autonoma nell’ambito della comunicazione. Utilizzando hashtag come #direngezi #15M #GlobalDebout #occupywallstreet, #14dicembre, e attraverso pratiche di uso alternativo dei media, nonché implementando infrastrutture tecnologiche alternative a quelle dominanti, i movimenti hanno lanciato le mobilitazioni diffondendo contenuti auto prodotti in tempo reale, sortendo l’effetto sia di produrre un’auto-narrazione delle proteste, sia di decostruire le narrazioni ufficiali dei media mainstream con l’obiettivo di raggiungere l’opinione pubblica. Costruire campagne mediatiche mirate e crossmediali, postare video e foto dai cortei, condividere notizie sui social media, fare dirette radio in streaming, lanciare le piazze attraverso twitter storm, fare cronache degli eventi di protesta dalle pagine e dei profili social dei siti di controinformazione, costruire media center indipendenti nelle piazze occupate, sono alcuni esempi di controuso delle Rete e di pratiche comunicative attuate dai movimenti.

La comunicazione, infatti, rappresenta un terreno di scontro che non si può ascrivere a una dimensione puramente virtuale e immateriale, ma uno spazio politico entro cui far pesare rapporti di forza reali. Quel famoso #occupy ha dimostrato come i movimenti sociali contro l’austerity hanno agito tanto le piazze virtuali quanto quelle reali, in una dimensione di contaminazione continua, laddove ormai non ha più senso scindere i due piani. Per definire il rapporto tra l’uso delle nuove tecnologie e i movimenti sociali, alcuni media attivisti del movimento degli indignados hanno coniato l’espressione di «tecnopolitica». Questa definizione rimette in discussione il paradigma tecnologico come «neutro», in grado di trascendere i contesti sociali, politici, economici e culturali entro cui è originato, secondo la visione tipica del determinismo tecnologico di stampo neopositivista. Se il concetto di «tecnopolitica» non è di certo originale, assume però in questi contesti di mobilitazione una nuova connotazione a partire dall’analisi elaborata da J. T. Medina (2018, p. 334), che la definisce «come «l’articolazione dell’uso tattico e strategico delle nuove tecnologie digitali per l’organizzazione, la comunicazione e l’azione collettiva, la capacità delle moltitudine connesse, dei cervelli e dei corpi in rete per creare e auto modulare l’azione collettiva». Inoltre è importante sottolineare, come quegli stessi attivisti siano riusciti a creare delle infrastrutture tecnologiche, tra cui social media indipendenti come Lorea.org e N-1, utili al movimento non soltanto come strumenti di comunicazione interna agli attivisti, in grado di tutelarne la privacy, ma come alternative concrete alle piattaforme commerciali.

L’avvento dei social network porta con sé elementi d’innovazione nel campo delle mobilitazioni collettive, al punto di modificarne profondamente gli assetti di tipo organizzativo. In una fase di crisi della rappresentanza si è assistito, infatti, a un progressivo allontanamento della cittadinanza attiva politicamente dai partiti tradizionali, per aderire «a organizzazioni che trovano nei media digitali degli strumenti per prendere forma» (Raffini, 2009, p. 175). Il caso emblematico è rappresentato dai movimenti delle famose Twitter Revolution, dove le piattaforme sono state strumento di organizzazione sociale. Questi movimenti sono riusciti ad avviare una «comunicazione distribuita» attraverso la creazione di meme, virus e narrazioni autoprodotte dove ogni singolo hub, con i propri feedback, contagi e autoregolazioni, si attiva per generare un effetto d’ insieme. I media digitali hanno, inoltre, riattualizzato alcune forme di partecipazione collettiva, quali ad esempio le petizioni online, il netstrike, il mail bombing, o come nel caso di gruppi più radicali e organizzati di hacker come Anonymous, anche la diffusione in rete di documenti riservati dei governi, i cui contenuti sono rilevanti per l’opinione pubblica internazionale, oppure l’oscuramento di siti governativi secondo la logica del danno materiale.


Limiti e problemi aperti

A distanza di quasi un decennio, e in una fase politica radicalmente mutata rispetto a quella dei movimenti contro l’austerity, per lo più discendente in termini di mobilitazioni, è possibile porre in evidenza alcuni limiti relativi all’uso delle nuove tecnologie da parte dei movimenti. In primo luogo, questi repertori d’azione digitale sono stati oggetto di critica da parte di autori come Morozov (2009), che sostengono come la loro diffusione capillare sia dovuta alla riduzione dei costi di connessione, e che in definitiva producano soltanto azioni estemporanee che non sortiscono un reale effetto politico. Il riferimento va al famoso clickctivism. Il rischio che si corre con questo tipo d’azioni è quello di attivare forme di partecipazione politica che rappresentano un surrogato della partecipazione effettiva, non in grado quindi di innescare processi di soggettivazione reale che trascendano la dimensione puramente virtuale per concretizzarsi in quella reale. In questo senso la vicenda Assange è paradigmatica; i datagate e la diffusione di «documenti governativi compromettenti» per le stesse élite al potere non ha provocato di fatto «una sollevazione popolare» e una participazione politica attiva, ma soltanto un senso di «indignazione diffuso», che si è tradotto in qualche post su i social media da parte di supporter.

In secondo luogo, le piattaforme commerciali rappresentano dei potentissimi strumenti di controllo in mano a corporation private in grado di sorvegliare, monitorare e profilare le identità e le preferenze di milioni di utenti registrati (Sorci 2015). Le tecnologie del dominio rappresentano quindi gli strumenti privilegiati di un capitalismo tecnocratico che ha per obiettivo quello dell’accumulazione dei dati (Gambetta 2018). All’interno delle piattaforme commerciali, infatti, vengono misurate e quantificate le interazioni degli utenti a scopi di profitto. Una volta immagazzinati i dati ottenuti dai profili personalizzati, questi saranno analizzati e valutati al fine di orientare le scelte degli utenti, monitorandone e studiandone i comportamenti (Ippolita 2017, p. 158). I social network commerciali, infatti, sono programmati per far svolgere procedure che obbligano l’utente a ripetere determinati tipi di azioni, condizionandone le interazioni sociali. Queste piattaforme sono strutturate, infatti, in modo tale da valorizzare contenuti ritenuti «spettacolari», ovvero in grado di ricevere più like e ottenere maggiori interazioni. Il linguaggio prediletto è simile a quello pubblicitario, in cui i post inviati devono essere brevi e usare concetti e una terminologia dal forte impatto mediatico. Questo modo di produrre e veicolare contenuti sortisce l’effetto di semplificare la visione generale e gli schemi interpretativi della realtà da parte degli utenti. In altre parole, invece di equalizzare quei gap in termini culturali e di risorse tra gli utenti, li rafforzano producendo una tale disinformazione che gli utenti non sono in grado di rielaborare criticamente. Le procedure di utilizzo sono preordinate da una piattaforma centralizzata, e il valore dei post dipende solo dal grado di rumor che genera tra gli utenti, e non dal dialogo e dal confronto libero che vertono sulla conoscenza degli argomenti trattati. Capita spesso che un utente che posta un contenuto ritenuto scomodo finisca per essere oggetto di critiche e d’insulti da parte degli haters.

Un altro aspetto rilevante è rappresentato dal processo di gamification (ludicizzazione) che il collettivo Ippolita (2017, p. 17) definisce come «un insieme di pratiche applicato agli ambiti più diversi per aumentare i livelli di prestazione degli utenti di un sistema in base a parametri espliciti (punteggi e altro) e impliciti (il comportamento da implementare)». Si tratta di un processo che ormai investe tantissimi campi della sfera sociale, e che consiste nella trasformazione degli ambiti della vita in una specie di gioco a cui attribuire premi, punteggi, ricompense virtuali e non, e livelli di difficoltà differenziati. Il rischio maggiore quando si fa un uso «quasi esclusivo» delle piattaforme commerciali per diffondere punti di vista e organizzare mobilitazioni, è quello di essere «sussunti» dal capitale in termini tanto di strategie comunicative quanto di creazione e diffusione d’immaginari proposti, che finiscono per essere depotenziati sotto il profilo della conflittualità e rimaneggiati per le strategie di marketing. Se questo rischio è calcolato, con lo scopo di raggiungere un’utenza altrimenti «inarrivabile», secondo una visione strumentale e di controuso del networking capitalistico, si corre il rischio, in assenza di «movimenti di massa» come quelli delle piazze del 2011, di rimanere confinati nella propria «bolla» di Facebook e di non sfondare il muro della piattaforma. Il che significa rimanere in una zona di autoreferenzialità e legati alle sole reti sociali di movimento; in altre parole, i contenuti veicolati tramite le piattaforme, essendo determinati da interazioni gestite da algoritmi, ne rendono possibile la visualizzazione solo a quegli utenti con il quale questi interagiscono quotidianamente e che l’algoritmo riconosce come omogenei in termini di «condivisione» di contenuti e preferenze.

La «viralità» dello sharing e dei like che si traduceva nella potenza tecnopolitica delle piazze #antiausterity era data dal rapporto di forza reale e dalle logiche dei «numeri» che quelle piazze sono state in grado di costruire convergendo su hashatag e parole d’ordine di cambiamento reale, ponendo «anche» – e non «soltanto» – la propria attrattività in termini di «immaginario collettivo» da postare e ritwittare sui canali della Rete. In altre parole, la comunicazione deve rimanere un mezzo e non un fine, inteso come «fine ultimo». Il rischio è quello di incorrere nell’inconsistenza e nella vacuità della sola dimensione virtuale come dimensione dell’essere movimento e dell’agire connettivo, che si smorza rapidamente, e alla stessa stregua, di come spariscono le storie su Instagram o i video su Tik Tok.

Che fare, quindi? Ridare centralità all’azione collettiva, in primis, alla partecipazione reale, alla militanza quotidiana. Proporre anche strategie comunicative diversificate e complementari calibrate sui segmenti di utenza che si intende raggiungere, e che non contemplino un uso «esclusivo» delle piattaforme commerciali ma utilizzino anche e contemporaneamente quelle infrastrutture tecnologiche implementate «dai» movimenti e per i «movimenti». La riappropriazione di una «sovranità tecnologica» da parte dei movimenti sembra essere un dato irrinunciabile, in un milieu mediale come quello attuale di Internet, quasi totalmente privatizzato e dominato dalle grandi corporation. L’azione connettiva e il potere mediatico a esso connessa devono fungere da megafono e da supporto all’azione collettiva, ovvero di quella necessità tutta «materiale» di un cambiamento reale dello stato di cose presente, e non il contrario.



Riferimenti bibliografici:

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L. Langman, From virtual sphere to global justice: a critical theory of internet worked social movement, «Social Movement for Global Democracy», 2005, pp. 42-54.

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S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma 2019.


Note [1] Un hacklab o hackerspace è un sito fisico in cui le persone con interessi nella scienza, nelle nuove tecnologie e nelle arti digitali o elettroniche possono incontrarsi, socializzare e collaborare. Può essere visto come un laboratorio comunitario aperto, uno spazio in cui persone di diversa estrazione possono incontrarsi. Mette a disposizione di amatori e studenti di diversi livelli le infrastrutture e l'ambiente necessari per sviluppare i loro progetti tecnologici. Lo scopo di un hackspace è concentrare risorse e conoscenze per incoraggiare la ricerca e lo sviluppo [2] Acronimo che sta ad indicare le Bolletin Board System. [3] L’Hackmeeting è un incontro annuale sul tema delle nuove tecnologie. Vi prendono parte appassionati di informatica, hacker, media attivisti, techie e in particolar modo attivisti delle libertà digitali. Nato a Firenze nel 1998, a partire del 2000 si svolge regolarmente anche in Spagna. Gli hackmeeting d’Italia e Spagna, pur condividendo nome e principi, sono eventi organizzati indipendentemente l’uno dall’altro. In questo tipo d'incontri gli hacklab locali si uniscono per realizzare attività relazionate con l’uso della rete e delle nuove tecnologie da un punto di vista politico e sociale, come conferenze, tavole rotonde, workshops ecc. Il motivo principale dello svolgersi di queste attività è la diffusione di un tipo di cultura relazionata all'uso del software libero (https://www.hackmeeting.org).

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