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Chi salvò il liberalismo da se stesso

Una lettura di Ordoliberalismo di Adelino Zanini (Prima parte)







Ordoliberalismo ed economia sociale di mercato sono concetti politici ed economici che tendono a essere sovrapposti, oppure relegati a una fase specifica del Novecento. In realtà, come ci spiega Adelino Zanini nel suo Ordoliberalismo. Costituzione e critica dei concetti (1933-1973) (Il Mulino, 2022), si tratta di sviluppi teorici e pratici distinti che arrivano fino alla crisi degli anni Settanta e continuano a essere importanti per comprendere e dunque poter analizzare criticamente – anche ponendo nella giusta luce taluni passaggi politico/giuridici rilevanti – quel processo di costruzione europea, avviluppato oggi in una crisi profonda. In questa attenta e approfondita lettura del volume, Lauso Zagato ci consente di analizzare genealogia e attualità di questi concetti, prima di Foucault e oltre Foucault. Pubblichiamo oggi la prima parte del saggio.


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La nuova avventura scientifica di Adelino Zanini, cui l’Autore lavorava da tempo, pone prima facie problemi di non facile soluzione al lettore, quand’anche di formazione operaista, che non risulti sufficientemente qualificato sotto il profilo disciplinare di riferimento (la teoria economica). Forse, cresciuto nel solco dell’incontro/scontro con Keynes, egli avrà ignorato l’esistenza di un neoliberismo diverso da quello classico; ciò, almeno, fino al drammatico impatto con l’anarco-liberismo americano trionfante degli ultimi decenni. Esempio tra i tanti, chi scrive è tra costoro, e confessa di aver letto la parola ordoliberalismo per la prima volta in relazione alla formazione teorica (seconda formazione, provenendo l’interessata dalla ex Germania dell’Est e quindi essendosi inizialmente formata nel delirio del diamat) della allora cancelliera Merkel. Il riferimento costituiva una apparente giustificazione della riluttanza di costei nell’assumersi i compiti «interventisti» in materia economica che la crisi del 2008 richiedeva alla Ue e in primis al suo Stato-guida. A ben vedere, era dunque un richiamo irridente: l’ordoliberalismo è stato raccontato in via incidentale, quale teoria di nicchia, insieme stranezza da archivi storici e oggetto legittimo di disprezzo, anche alla luce dell’ambiguo rapporto dei protagonisti con il nazismo trionfante. Il punto è che la vicenda intellettuale/politica di costoro risulta ben più attuale di quanto si creda, anche da parte della dottrina qualificata. Già nel guidarci per mano a questa, inattesa per più versi, conclusione, il volume e il suo Autore acquistano solidi titoli di merito (Adelino Zanini, Ordoliberalismo. Costituzione e critica dei concetti (1933-1973), Il Mulino, Studi e Ricerche, Bologna 2022).

È evidente peraltro come lo scrivente, studioso certo di formazione operaista ma cimentatosi nei decenni con e su altri rami disciplinari, fosse (e sia) il meno indicato a intervenire sul volume, ciò per il motivo, in ipotesi decisivo, che gliene mancano i riferimenti scientifici adeguati. Quando ha spiegato all’Autore questo semplice dato di fatto, è purtroppo andato troppo in là, accennando in via aneddotica a un singolare effetto della lettura. Invero, completato il primo capitolo, si è reso conto di avere finalmente la chiave per comprendere il ciclo di lezioni della primavera del ’79 di Foucault [1]. Confessava allora di essersi messo di buona lena a ri-leggere quei capitoli centrali del filosofo francese, dedicati agli ordoliberalisti e massimamente a Eucken, che alla prima lettura gli erano risultati inintelligibili, nel mentre proseguiva e portava a termine la lettura del volume di cui qui si parla. Ciò parve divertire l’Autore, che non volle più accettare ragioni di rifiuto. Nel frattempo, la situazione si era evoluta: completata la lettura del lavoro di Zanini, emergeva come l’ordoliberalismo si proietti con forza nell’attualità politica, facendo per giunta irrituale irruzione nello specifico campo di saperi (anche disciplinari) dello scrivente. Era dunque giocoforza rimanere sul pezzo. Come a dire: l’uomo sbagliato, capitato nella postazione sbagliata, nel momento sbagliato.


Una nuova costituzione economica

Il volume è strutturato in tre capitoli, i primi due dedicati ai maestri/fondatori del filone (Eucken e, rispettivamente, Böhm), operanti nel periodo tra la tarda Weimar, l’ascesa e la fine del nazismo, l’immediato dopoguerra. Si tratta di personaggi non particolarmente gradevoli di proprio, anche per le ambiguità accennate e su cui si tornerà. L’Autore sembra talora latitare, assentarsi; quasi scegliesse di farli parlare liberamente per portarli a invischiarsi nelle proprie contraddizioni insanabili; talora invece riappare, quasi a gettar loro una provvisoria ancora di salvataggio. È una tecnica che non prevede complicità «piaciona» con chi legge. Zanini ci va duro, e l’insistito ricorso a termini tedeschi non agevola. E tuttavia, è innegabile come la lettura, comunque mai banale, acquisti in itinere vieppiù interesse, e anche fascino.

Subito all’inizio incontriamo una questione metodologica posta da Eucken che lascia perplesso l’internazionalista, che in certe situazioni ha a disposizione e si avvale di strumenti di lavoro ben più saldi quale il principio di effettività (ma di ciò un’altra volta). Per Eucken le costruzioni evoluzionistico-storicistiche riferite alla realtà economica sono prive di valore. Egli rifiuta l’approccio concettualistico così come quello empirico, ricorrendo piuttosto alla costruzione di alcuni «tipi ideali». La sua ricerca è volta ad astrarre «forme economiche pure, elementari» – astrazioni isolatrici, le chiama – dalle cui molteplici combinazioni diventerebbe possibile trarre un incalcolabile numero di sistemi economici possibili (p. 36). Le forme pure sarebbero per un verso l’economia centralmente regolata, per l’altro verso quella fondata sullo scambio. La prima comprenderebbe a sua volta tre varianti: la totalitaria, senza scambio, quella con libertà di scambio dei beni di consumo; la terza, comprendente una certa libertà di scelta dei consumi stessi. L’economia di scambio vedrebbe invece contrapposte una forma aperta, comprendente monopolio, monopolio parziale, concorrenza, oligopolio parziale, monopolio collettivo, e una forma chiusa (in particolare a causa di disposizioni di diritto pubblico). Eucken, va da sé, non riscontra in nessun caso l’esistenza nella realtà di tali forme pure, ma sostiene che le molte varianti delle situazioni reali richiedono da parte dello scienziato il ricorso ad astrazioni isolatrici per funzionare, consentendo il rapporto tra realtà economica individuale (fattuale) e teoria economica generale. Cacciata dalla porta, la storia economica rientra così dalla finestra, perché solo essa, in questo schema di ragionamento, consente di stabilire verità e attualità di una teoria. Ciò porta l’Autore, richiamando svariate critiche formulate in dottrina, a chiedersi se alla fine non sia proprio l’economista tedesco a «doversi riparare sotto l’ala protettiva dello storico economico».

Questo singolare personaggio appare terrorizzato dall’idea che l’industrializzazione si sia spinta troppo avanti. Lo sviluppo di una economia tecnicizzata, industrializzata e basata sulla divisione del lavoro avrebbe creato una situazione che l’uomo non è più in grado di controllare. In un mondo che non assomiglia più a quello in cui operavano Sismondi e Marx (l’accostamento insensato meriterebbe di per sé un commento irridente), un mondo caratterizzato dalla sproporzione tra prestazioni offerte da scienza e tecnica da un lato, insufficienza degli ordinamenti (economici e giuridici) dall’altro lato, si genera una domanda sociale che pare legittimare il prevalere di forme di economia centralizzata come unico mezzo per dare lavoro a tutti. Tali politiche economiche, in realtà, sarebbero portatrici «di un impossibile compromesso tra sicurezza e libertà» (p. 65). L’insicurezza provocata dalla disoccupazione di massa provoca – Eucken scrive dopo la grande crisi, e l’ascesa del nazismo, ma rifiuta caparbiamente di vedere in questo altro che una variante del sistema economico centralmente regolato – la creazione di una società piramidale. Non, quindi, l’utopica società senza classi edificata dal basso, sognata dai teorici rivoluzionari dell’Ottocento, ma una società controllata invece oculatamente dall’alto. Lo Stato cade progressivamente nelle mani di gruppi di potere che ne influenzano in modo decisivo le manifestazioni di volontà, e al tempo stesso gli sottraggono settori importanti di attività precedentemente controllate dallo Stato stesso (p. 67).

E qui Zanini ci accompagna al cuore del ragionamento teorico di Eucken. Questi sviluppa una sequenza elementare (binaria) di fasi storiche: all’epoca del laissez-faire avrebbe fatto seguito l’«epoca degli esperimenti economici», caratterizzata per un verso dalle diverse forme di centralizzazione economica anticipate, per l’altro verso da una mediazione tra conduzione centralizzata e rispetto delle libertà individuali: Weimar, e poi tutto ciò che si richiama al keynesismo. A proposito del laissez-faire, Eucken, e tutti gli ordoliberalisti dopo di lui, ne denunciano gli errori: monopoli e lotte monopolistiche (tra settori industriali, tra imprenditori all’interno dei settori, tra gruppi di imprenditori e sindacati) nel corso in particolare della seconda parte del Diciannovesimo secolo avrebbero impedito la piena realizzazione dello Stato di diritto. Semplificando, avremmo una situazione di «pubblicizzazione impropria di contratti tra privati» (p. 74). Lungi dal difendere una autonomia totale dell’ordinamento economico dunque, Eucken, conscio della debolezza di fondo del laissez-faire, sostiene che il diritto dello Stato debba costituire sempre e comunque il punto di riferimento fondamentale. Ciò non significa però l’intervento diretto dello Stato nella gestione dell’economia, quanto la «garanzia giuridica che le condizioni stabilite dalla legislazione statale al fine di assicurare un attento equilibrio di interessi non mutassero a seconda delle mutate circostanze economiche», se non per impellenti ragioni. Sarebbe proprio l’esistenza di corpi di interesse economico privato (cartelli industriali e unioni sindacali) ad aver impedito l’instaurarsi di quello Stato di diritto che avrebbe dovuto accompagnare il liberalismo economico. L’età del laissez-faire precedente ha dimostrato come l’ordinamento economico, lasciato a se stesso, non può combattere l’indebolirsi e quindi il venir meno della libera concorrenza, unico autentico fondamento dello Stato liberale. In altre parole, la libertà economica pura e semplice (il laissez-faire) non può realizzare il giusto ordinamento economico. Come osserverà acutamente, parecchi anni dopo (1973), il sodale Böhm, se l’economia di una nazione è retta non dal governo ma dal sistema dei prezzi di mercato (frutto di un saldo regime di concorrenza), non saremmo in presenza di una capitolazione della politica a favore della natura, quanto di una «eminente decisione politica».

In termini foucaultiani, chiosa Zanini, si potrebbe dire che è la libertà di mercato a essere posta quale principio fondatore dello Stato (p. 84). Donde l’originalità del momento fondante del pensiero euckeniano: non vi sono da un lato il libero mercato e dall’altro lo Stato interventista, perché il regime di concorrenza ha bisogno, per non essere travolto dal potere dei gruppi di potere economici, di una protezione giuridica forte (governamentalità attiva, dice Eucken). Insomma, è necessaria una sovrapponibilità totale tra meccanismi di mercato (regolati dalla concorrenza) e politica economica governativa. Confrontandosi con le varie forme di centralizzazione dell’economia, Eucken tralascia l’esempio sovietico: proprietà collettiva con un organo esecutivo in veste di pianificatore centralizzato, significa per lui sovrapposizione puntuale di totale assenza di libertà e di inefficienza economica. Diverso sarebbe il caso del regime nazista, in quanto – continuando a vigere la proprietà privata – sarebbe rimasto presente il salvifico sistema dei prezzi. Peraltro, il controllo del processo economico essendo nelle mani delle strutture pubbliche, fortemente influenzate da gruppi privati di potere economico; ne sarebbero inevitabilmente conseguiti lo stravolgimento dello Stato di diritto e la perdita delle libertà individuali, di pensiero e di formazione. Una progressiva atrofizzazione dello Stato di diritto Eucken vedrà anche, in termini non molto diversi, nelle misure prese dalla Gran Bretagna dopo l’ascesa dei laboristi nel 1945 per sostenere l’occupazione [2]. L’oggetto privilegiato della sua polemica è, apertamente, Keynes: l’espansione creditizia a sostegno della piena occupazione, sostenuta da questi, sosterrà Eucken nelle lezioni alla London School of Economics nel 1950, distruggeva «la funzione guida esercitata dai prezzi e agevolava il formarsi di monopoli» (p. 96) La disoccupazione di massa non era inevitabile risultato dello sviluppo del capitalismo, ma conseguenza dell’esistenza di forme di mercato intrinsecamente instabili; il laissez-faire del vecchio liberalismo così come la politica di piena occupazione sarebbero egualmente incapaci di raggiungere l’equilibrio del mercato. Eucken, puntualizza Zanini (p. 97), è decisamente oltre l’ortodossia neo-classica, il punto di vista ordoliberalista richiede un impianto giuridico funzionante che è altro dalle mitizzate «leggi del mercato» autoriproducentisi. Resta da vedere come lo studioso tedesco risponda alle due domande: cosa è la Wettbewerbsordnung, il sistema di regole di concorrenza (competitive order), espressione di una azione creatrice di diritto da parte dello Stato? E chi ne può essere il custode?

Egli individua una serie di principi costitutivi e, rispettivamente, regolativi. Tra i primi: sistema di prezzi efficiente (che assurge a vero e proprio principio fondamentale di ordine economico-giuridico-costituzionale), politica finanziaria stabilizzatrice (critica radicale della espansione creditizia con finalità di piena occupazione, anticamera della pianificazione economica e generatrice di effetti inflazionistici); mercato aperto (donde la necessità di combattere il divieto d’importazione e le tariffe troppo elevate, così come il monopolio del commercio estero e il divieto d’investimento). Interessante come la polemica euckeniana contro i mercati chiusi porti con sé una critica in anticipo sui tempi del sistema brevettuale, idoneo, in assenza di una attenta strumentazione giuridica, a favorire i monopoli impedendo il sorgere di gruppi concorrenti. Proprietà privata, libertà di contratto, principio della responsabilità civile sono gli altri principi costitutivi. L’ultimo e significativo è il principio della costanza della politica economica, che riapre la polemica contro la soluzione keynesiana alla diminuzione della spinta a investire (politica economica attiva supportata dallo Stato). Nell’insieme, a parere dell’Autore, siamo davanti all’enunciazione di una vera e propria costituzione economica, donde la centralità della contemporanea presenza di alcuni principi regolativi, capaci di salvaguardare l’ordine concorrenziale e con esso il sistema della stabilità dei prezzi. Tra questi la creazione di un ufficio di sorveglianza (dei monopoli) indipendente e vincolato alla sola legge; una politica dei redditi (anche attraverso una forma tenue, non punitiva, di politica di tassazione progressiva); un sistema dei prezzi di concorrenza come via verso un conto economico rigoroso. Ancora, un forte controllo del l’offerta anomala sul mercato del lavoro, dietro la quale Eucken vede la piaga del lavoro minorile.

Ma come può lo Stato, questo Stato della prima metà del Ventesimo secolo, aggredito e strumentalizzato dai diversi gruppi di potere, divenire custode di un sistema fondato sul permanere di un competitive order? Come, se l’economia è lotta, spesso molto dura, «nella quale ciascuno impiega le ideologie che gli sembrano utili» (scrive questo nel 1938)? Il movimento anticapitalistico (p. 129) del tempo di Marx aveva come obiettivo una «società socialista senza Stato» (veramente questo sarebbe il comunismo, ma si può soprassedere…); l’anticapitalismo contemporaneo invece «vuole andare oltre il capitalismo attraverso uno Stato totale autarchico» capace di racchiudere al suo interno l’intera economia. La trasformazione dello Stato liberale in Stato interventista/dirigista ha portato all’indebolimento dello Stato, condizionato dall’agire dei gruppi economici. Nei vari casi di economia centralmente amministrata le decisioni dei pianificatori vengono influenzate da corporazioni e grandi imprese. La riformulazione anche terminologica della politica di concorrenza e dei cartelli avvenuta nella Germania nazista tra il 1934 e l’estate ’36 allontana risolutamente lo Stato da una situazione «sia pur imperfettamente concorrenziale» (p. 132, sic!). Colpisce la… ondivaga lucidità della posizione euckeniana. Egli ha ben presente l’esistenza nell’economia del tempo di un potente insieme di misure private e pubbliche volte a indebolire o annullare la tendenza alla libertà di concorrenza. Ciò perché «il potere privato prospera all’ombra del potere dello Stato» (p. 133). La presenza di diverse aggregazioni di interessi nella moderna società appare ai suoi occhi come l’emergere di una situazione neofeudale. E quindi? L’unica soluzione sta nel coordinamento intelligente tra politica economica e politica del diritto. Quello che Eucken vuole è uno Stato forte (starker Staat) capace nel contempo di garantire libertà di mercato e di imporsi anche duramente sugli interessi dei diversi gruppi. Uno Stato forte, ma capace di autolimitarsi: questo è lo Stato di diritto, custode dell’ordinamento concorrenziale.

Eucken richiama anche la necessità di misure specifiche, quali il rilancio dell’azionariato diffuso e il tetto massimo alle concentrazioni di capitale, ma il principio guida che deve animare lo Stato è quello dello smantellamento dei gruppi economici di potere. Il secondo principio è che l’attività economica dello Stato risulti diretta alla «creazione delle forme ordinamentali dell’economia» (p. 145), non alla direzione del processo economico. Lo avevamo già approssimato: non attività economica centralmente amministrata, ma imposizione da parte dello Stato delle regole giuridiche (e loro imposizione sui soggetti sociali). Dietro tale pensiero si nasconde una idea di ordo, nel senso di connessione del molteplice in un tutto, che per certi versi ricondurrebbe secondo l’Autore a Sant’Agostino, per altri versi è debitrice del pensiero paterno (il padre di Eucken fu un qualificato esponente dell’idealismo tedesco). Così egli parla di ricerca dell’ordinamento che, «a differenza degli ordinamenti dati, corrisponde alla ragione e alla natura degli uomini e delle cose» (p. 149).

In conclusione del primo capitolo, Zanini pone in luce la circolarità del ragionamento euckeniano, azionata da un riferimento non alla concorrenza perfetta (Walras) ma alla cosiddetta concorrenza piena, categoria vaga e indefinibile, con la conseguenza che, inevitabilmente, alla fine l’ordine economico è garantito dall’ordine politico. Secondo Zanini – non particolarmente toccato dal giudizio di Foucault, per il quale «l’analisi ordoliberale non è più inscrivibile nella linea della teoria economica della concorrenza e della storia dell’economia […] ma piuttosto all’interno di una linea di teoria del diritto» (p. 154) – la circolarità di cui il ragionamento dà prova nasce da una visione che non riesce a liberarsi dei 1presupposti teorici neoclassici che tale staticità imponevano» (p. 155). L’Autore fa un interessante passo oltre, interrogandosi sulle ipotetiche condizioni di funzionamento pratico del discorso di Eucken, trovandole nella cosiddetta crescita lenta. In ultima analisi, sia i principi costitutivi che quelli regolativi proposti da Eucken fanno riferimento a uno stato stazionario, o quantomeno a una evoluzione rallentata, che conosce crescita ma non la «creazione distruttrice» propria dello sviluppo. Solo una crescita lenta può portare al modello sociale popolato di piccoli produttori, e soprattutto determinarne il rimanere nel gioco. Crescita lenta come sorta di ri-territorializzazione di un nuovo capitalismo, allora? Vi si tornerà.


La visione guerresca del comportamento monopolistico

L’altro capitolo di cui è costituita la parte prima del libro è dedicata al giurista Franz Böhm, e cerca di delineare i tratti giuridici del sistema economico ordoliberalista, e la loro centralità. I pilastri portanti del suo pensiero convergono con quelli di Eucken; anche se l’evoluzione negli anni della vecchiaia richiederà forse maggiore attenzione. Ciò che separa in partenza i due, è che Böhm ha una esperienza giovanile presso il Ministero dell’economia di Weimar, e quindi la sua analisi dei monopoli e del loro ruolo presenta maggiore solidità. Il nodo decisivo per Böhm è impedire che il comportamento dei concorrenti sul mercato sia tale da influenzare il sistema dei prezzi. Quello che egli teme è che interessi di gruppi privati possano assurgere a dominare lo Stato, indebolendolo. Centrale nella sua riflessione è insomma il problema del contenimento del potere privato, in particolare tramite la politica di concorrenza. La mancanza di concorrenza «è sinonimo di potere e il potere nelle mani di un soggetto di diritto privato equivale alla dipendenza di altri soggetti di diritto privato da quel potere» (p. 176). Tipica di questo studioso è una visione guerresca, per così dire, del comportamento monopolistico, considerato «un attacco rivoluzionario organizzato al principio ordinativo centrale della stessa libera economia di scambio» (p. 189). Böhm afferma il carattere pubblicistico dell’istituto della concorrenza, pur se la tutela giuridica delle parti rispetto alla concorrenza illecita è lasciata al diritto privato: la concorrenza «rappresenta un processo che il diritto non solo istituisce ma anche regola» (p. 197). E ancora: «compito dell’ordinamento giuridico è quello di salvaguardare la lotta, non l’armonia». In altre parole, «impedire che il regolato gioco di forze sconfini in un conflitto di potere privo di confini». Ciò perché «una evoluzione giuridica che affidi al moderno imprenditore privato un addizionale potere di mercato e di monopolio non può trasformare il sistema economico in un sistema auto-amministrantesi di stampo politico liberale» (p. 213). Al contrario incrementerà una versione individuale ed egoistica della libertà, a scapito del vantaggio della collettività.

La soluzione giuridica indicata da Böhm, e che traduce in norma l’imperativo astratto euckeniano, è che l’instaurazione di una vera libertà economica fondata su un ordinamento competitivo, nel senso fin qua ricordato, deve essere oggetto di una deliberazione politico-costituzionale (avere quindi natura pubblicistica) intesa a dotare la vita economica di una costituzione di lotta non soggetta a dominio (p. 233). In altre parole, lo Stato deve essere il duro, spietato se occorre, garante che la vita economica del Paese avvenga all’insegna di una guerra di tutti contro tutti nei limiti concessi dall’ordinamento. Una visione certo priva delle «fumisterie» di derivazione idealista proprie del fondatore, ma decisamente cupa, del mondo (non solo quello esistente, qui cupo è soprattutto il mondo auspicato dallo studioso), pur nobilitata da uscite fulminanti, come quella per cui il monopolista si sente un autocrate nei confronti del mercato, nel mentre pretende di essere semplice cittadino privato di fronte allo Stato (pp. 246-247).

Il Böhm del dopoguerra si presenta come agguerrito combattente ordoliberalista, condottiero sul fronte giuridico con la durezza che gli è propria. Egli mette a confronto il programma economico dei partiti borghesi e del socialista, non ha difficoltà ad accettare la fine dell’antinomia laissez-faire/sovietismo, ma solo per stabilire che il mix tra democrazia politica e socialismo economico – nel suo linguaggio è socialismo qualsiasi misura dello Stato in economia diversa dalle regole di ferreo controllo antimonopolistico – non è realizzabile, poiché non può esistere mix tra economia centralmente amministrata ed economia di scambio, la prima portando di necessità alla fine delle libertà. Una economia centralmente amministrata consta di due atti: lo stabilirsi (il piano, per capirci), atto eminentemente governativo, e la sua realizzazione. Il secondo livello, il piano, necessariamente assorbe l’intera vita lavorativa di tutti i cittadini: questi non potranno dunque scegliere liberamente (e cambiare) il posto di lavoro. Se vi è un piano economico, anche la forma più leggera di piano, ogni cittadino sarà sottoposto «al giogo» del potere centrale dalla fanciullezza alla tarda età. In una economia di scambio, dominando la legge del mercato, avremo invece niente di meno che una democrazia plebiscitaria esercitata quotidianamente tramite i prezzi concorrenziali; Böhm oppone coscientemente lo Stato liberale in quanto unica forma possibile di Stato di diritto allo Stato sociale. La polemica contro le misure volte ad assicurare la piena occupazione riecheggiano quelle già viste. Piuttosto, nel dopoguerra, Böhm ingaggia una dura battaglia contro il programma di cogestione dei socialdemocratici. Tale programma in certa misura deriva da un progetto del tempo di Weimar, meno criticabile nella logica ordoliberalista in quanto riferito a una cogestione di tipo politico, non economico. Il tema si colloca anche quale punto di apertura dello scontro con la nuova generazione di ordoliberalisti, come l’Autore anticipa. La posizione di Böhm non è comunque identificabile con quella delle ali più conservatrici dei cristiano-democratici nella Germania ovest del dopoguerra; ciò che egli teme di più è proprio l’alleanza tra produttori (imprenditori e maestranze) a scapito dei consumatori. Dalla istituzionalizzazione del conflitto di classe tra soggetti della produzione sorgerebbe (sarebbe sorto?) un dualismo di potere ai danni della grande maggioranza dei cittadini. Il ragionamento non è banale, fondandosi sulla modificata costituzione dell’impresa introdotta dalla cogestione. Mentre la maggior parte delle funzioni imprenditoriali sarebbe rimasta nelle mani di chi aveva gestito l’impresa in quanto imprenditore, con le rispettive prerogative (in particolare rappresentanza con l’esterno e responsabilità giuridica), all’interno dell’impresa il potere sarebbe stato condiviso con i rappresentanti dei lavoratori, il nuovo organismo di gestione essendo caratterizzato non dall’autonomia propria del diritto privato, ma «dalla norma inerente al lato pubblicistico» della works constitution law (p. 287). Da questo dualismo di potere sarebbe sorta una falsa democrazia, la socializzazione, che Böhm definisce «espressione delfico-oracolare», quale negazione dell’autonomia del privato e della sua libera decisione.

A conclusione di questa prima parte, Zanini richiama il passaggio in cui Foucault individua nell’atteggiamento verso il monopolio la differenza strutturale tra vetero-liberali e neoliberali. I primi non si liberavano dal paradosso per cui il monopolio sarebbe un fenomeno degenerativo della concorrenza: si sarebbe allora dovuto intervenire sui meccanismi economici per salvare la concorrenza dai propri effetti. Per i neoliberali invece i monopoli sono fenomeni «d’intervento di tipo arcaico, di processi di rifeudalizzazione legati all’esistenza di strutture giuridiche residuali che tali processi avrebbero permesso o facilitato» (p. 307). Zanini sembra trovare il limite del ragionamento foucaultiano proprio nel non aver fatto riferimento specifico alla lucida battaglia di Böhm, volta a privilegiare la lotta contro l’opacità che domina gli ordinamenti misti (tra concorrenza pura e monopolio assoluto), cioè la quasi totalità degli ordinamenti economici esistenti. Ciò che distinguerebbe Böhm sarebbe la necessità di farla finita con l’opacità, rompendo una tolleranza strisciante tramite una espressa volontà di decisione in termini politici (politico-costituzionali). Lo stesso Zanini concorda peraltro sul fatto che proprio Foucault ha in ultima analisi dimostrato in cosa consista la distinzione dell’ordoliberalismo con i vetero-liberisti da un lato, con l’anarco-liberismo americano dall’altro. E questo sta, indubitabilmente, nella centralità per i primi dell’intervento politico. Orbene, per Böhm, come abbiamo visto, il sistema dei prezzi avrebbe dovuto costituire un «istituto economico politico di carattere pubblicistico».

Una osservazione (provvisoriamente) conclusiva su questo studioso. La sua è, come accennato, una costruzione epico-eroica, quanto fosca del mondo che vorrebbe costruire: la guerra eterna di tutti contro tutti nel quadro di una politica di concorrenza rispettata – con le buone o con le cattive – da ciascuno. Non vi è spazio per comunità di valori, per non parlare delle comunità patrimoniali dei nostri giorni: la parola comunità è riferita solo alla società civile nel suo complesso, in relazione allo Stato. Una è la comunità, uno lo Stato, uno il diritto, uno il regolamento del meccanismo di competizione. Prima facie, questa visione riscatterebbe in parte l’ambiguo sentire di Böhm (e dello stesso Eucken) verso i nazisti. Questi ultimi fin dall’inizio intendevano dividere il contesto sociale in una serie di comunità rigidamente distinte (su base etnica, sessuale, politica…) la quasi totalità delle quali – diciamo così – non recuperabili all’interno dello Stato: ci ritorneremo.


Note [1] M. Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2009, terza edizione. [2] Cfr. A. Zanini, L’ordine del discorso economico, ombre corte, Verona 2010.


Immagine: Patrick Fontana

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Lauso Zagato ha partecipato alle esperienze dell’operaismo veneto degli anni Sessanta, quindi a Potere operaio e alla successiva diaspora, fino alla cesura costituita dall’operazione 7 aprile e da quanto vi ha fatto seguito. In quel periodo si è anche occupato di afro-america pubblicando nel 1974 la monografia Du Bois e la Black Recostruction (Istituto dell’Emciclopedia italiana). Dopo il raccolto rosso del ’79, una volta digeriti i suoi effetti, si è occupato di diritto internazionale e della Ue, concentrando l’attenzione dopo il Duemila – sulla scia della riflessione sulla guerra nella ex Jugoslavia e alla luce di alcune esperienze per motivi scientifici svolte in Kosovo – sui temi delle identità e differenze culturali. Si propone, vecchiaia permettendo, di dedicare la fase finale della sua riflessione giuridico-politica all’approfondimento del tema del genocidio culturale, poco affrontato dall’opinione dominante e non colto nella sua centralità quale strumento della governamentalità nel Ventunesimo secolo.

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