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Che cos’è periferia?



Pubblichiamo l’introduzione al testo di Massimo Ilardi Le due periferie. Il territorio e l’immaginario (in uscita per DeriveApprodi a gennaio 2022) i cui temi sono anche trattati nella sezione «disurbanità» di Machina. L’obiettivo del libro è definire cos’è il territorio
 oggi, in un tempo in cui ha acquisito una centralità fondamentale: è su di esso, infatti, che si proiettano 
le pratiche di libertà e i desideri di una società del consumo priva di politica, di valori e di futuro. Il territorio è il nostro presente, proprio quando sembrava che tutto si potesse capire e risolvere sulla tastiera di un computer. Lo sguardo è rivolto soprattutto verso le periferie urbane perché è proprio qui che gli specifici caratteri del territorio assumono estrema rilevanza e chiarezza: le minoranze sociali che le abitano, le culture e le mentalità che le attraversano, la violenza che definisce rapporti e gerarchie. La politica tradizionale, con le sue categorie, utopie ed etica, diventa l’agnello da sacrificare se si vuole capire quello che sta accadendo. La stessa democrazia, con i suoi istituti della rappresentanza e della maggioranza, va in crisi davanti all’esplodere di culture antagoniste e delegittimanti che trovano sulla strada e non nell’azione politica la loro forza e il loro potere. Per DeriveApprodi Massimo Ilardi ha pubblicato Potere del consumo e rivolte sociali. Verso una libertà radicale (2017).


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Che cos’è oggi periferia? La risposta è complicata, non lo era qualche decennio fa. Periferia era allora tutto ciò che era fuori dalle mura della città e dal suo centro storico dove si erano sedimentate nel corso dei secoli culture, mentalità, relazioni sociali. Chi abitava la periferia? Anche qui era facile rispondere: nelle città industriali c’era la classe operaia, nelle altre il sottoproletariato, come ad esempio a Roma. La divisione territoriale fra centro e periferia ricalcava quella di classe. Poi a un certo punto questa separazione è saltata e tutto è diventato più opaco e confuso.

Iniziamo allora a stabilire che cosa non è periferia. È ormai divenuto anacronistico indicarla come un luogo lontano dal centro storico. Non è più una distanza fisica che la può definire, dato che la maggior parte degli insediamenti urbani avviene ormai in periferia, con tutto ciò che ne consegue rispetto alle grandi dimensioni commerciali e abitative. Né si può designarla, come fanno i nostalgici dell’antica città, come l’anticittà per il degrado dei servizi e delle infrastrutture, per l’assenza di luoghi di aggregazione e per la mancanza di un senso di appartenenza a uno spazio pubblico come bene comune. Ma dove ci sarebbe invece tutto questo? In quale città? Forse in una di quelle invisibili descritte dalla fantasia maniacale di Italo Calvino? Ne dubito, perché anche le ossessioni di Calvino di mappare e catalogare hanno avuto un limite. Né si può considerare la periferia come un luogo irrilevante e residuale di forme di vita se ha funzionato, negli ultimi decenni, come grande laboratorio di mutamenti culturali, dalla musica alla moda, dal linguaggio all’arte. Lo sa bene il mercato che recepisce e mette continuamente in produzione le innovazioni che provengono da questi territori.

È necessario allora guardare in altre direzioni per stabilire che cos’è periferia e quali caratteri la definiscono. Riferendosi a Ponte di Nona, un quartiere «periferico» costruito a circa venti chilometri dal centro storico di Roma, Francesco Macarone Palmieri in una intervista risponde: «È uno snodo cruciale, proprio perché il GRA [Grande Raccordo Anulare] ha creato delle aggregazioni, dei precipitati urbanistico-architettonici, che vivono lo stesso non sulla base di una dicotomia dentro/fuori, ma secondo rapporti anulari, come espansioni multicentriche della metropoli tentacolare. Questo, al solito, la politica non l’ha capito. Per la politica, Ponte di Nona è “fuori”. Chi invece ha capito benissimo è ovviamente il mercato: che ci ha piazzato un megamall capace di attrarre clienti da tutta la regione». (2009, p. 9).


Ma non solo a Ponte di Nona, tutta la cintura periferica romana è costellata da megacentri commerciali da quando la politica ha lasciato nelle mani del mercato il governo della città e dei suoi abitanti (Porta di Roma, ad esempio, collocato nella zona nord della città, registra quasi 17 milioni di visitatori l’anno). Presenze queste dei megacentri che, tra l’altro, forniscono non solo qualcosa di rassicurante rispetto al territorio che li circonda ma con i loro enormi parcheggi esaudiscono anche una perenne «esigenza spirituale» della moltitudine di automobilisti-consumatori che li frequentano. Di fronte a un nuovo modo di socializzare che si sta imponendo, questi centri commerciali costituiscono ormai il reale spazio pubblico contemporaneo. Scrive J.G. Ballard: «Il consumismo è un’impresa collettiva. Le persone hanno voglia di condividere, di celebrare, vogliono sentirsi unite. Quando andiamo a fare shopping partecipiamo a una cerimonia collettiva di affermazione». (2006, p.112). Ma non è un senso della comunità a guidarle, sono le emozioni a tenerle insieme, è il loro capitale emotivo accumulato che ha bisogno di essere investito in qualche evento. E, una volta che la politica e il futuro sono stati espulsi da questi luoghi, dove può proiettarsi se non in questi templi del desiderio e del consumo dove ogni razionalità viene respinta oppure nella azione violenta che consegue all’infrangersi dei sogni?

Ma cosa vuol dire consumare? È importante definirlo subito bypassando i soliti luoghi comuni che fanno del consumo un’attività frivola e del consumatore un utile idiota al servizio del mercato. Riprendo qui, dai miei lavori precedenti, una definizione che sarà utile per leggere in maniera adeguata alcuni passaggi di questo scritto: il consumo è innanzitutto la negazione della proprietà, di qualsiasi proprietà, e determina la rottura decisiva tra proprietà e libertà; è l’atto distruttivo fine a se stesso, fuori cioè da pastoie funzionali o giustificative, attraverso il quale una massa di individui dissolve quotidianamente e incessantemente non solo oggetti ed eventi, ma affettività, valori, relazioni, emozioni; è l’ambito dove esplode il desiderio che scatena i conflitti che ridefiniscono la libertà materiale dell’individuo e il governo del territorio; è il passaggio determinante che traghetta una società dallo spazio omogeneo e privo di differenze (lo spazio dei non luoghi) governato dal mercato, al territorio striato, perennemente conflittuale, enclavizzato della metropoli contemporanea dove le istituzioni hanno davanti non più una generica società disegnata dal mercato ma una società frantumata in minoranze di massa evocate appunto dal consumo. (M. Ilardi, 2016, p. 49).


A questo punto ritengo necessario azzardare un’altra definizione, strettamente connessa a quella precedente e che svilupperò nel corso di questo lavoro, per stabilire cosa intendo invece per periferia: è lo spazio incontrastato del mercato e del consumo, è assenza di politica e dominio delle emozioni, e soprattutto è margine di un territorio desolato, duro, disordinato, minaccioso che rompe le forme armoniche della città e segna i margini della metropoli e la vita dei suoi abitanti. Un territorio con forte informalità e in continua espansione e mutazione rispetto a un centro storico immobile e che si vuole che permanga così perché tramandato dallo spirito della storia che, secondo alcuni, non tramonterebbe mai. Un margine territoriale, nel nostro caso, talmente esteso e stratificato che fa dire oggi che la metropoli coincide con la sua periferia e «il Grande Raccordo Anulare è il centro di Roma». (Mattioli 2019, p. 8).

Alcuni settori della ricerca sociale asseriscono però che esistono isole di periferia anche nei centri storici: degrado, emarginazione, esclusione sono presenti a macchia di leopardo in molte zone della città. È vero, ma non possono essere chiamate «periferia» perché manca loro un tratto essenziale e cioè la centralità di quel territorio che la identifica come spazio contrapposto a quello della città. La periferia non è dappertutto, affermarlo vuol dire immetterla in un multiverso parallelo di interpretazioni che non approda mai a una riflessione politica. Già nel 1983, Alberto Clementi e Francesco Perego scrivevano che la periferia «riconosce se stessa non per l’architettura o per le sue piazze o spazi urbani (che non ha), ma per l’intensità e la consonanza dell’interesse dei suoi abitanti per il territorio che si sono appropriati “contro” le logiche offerte dai sistemi ufficiali di sviluppo della città» (p. 36). Ma perché questo interesse per la periferia? Potrei rispondere ancora con J.G. Ballard: «Per questo le periferie mi interessano perché vedi accadere il futuro. Lì ti devi svegliare al mattino e devi decidere di compiere un atto deviante e antisociale, perverso, foss’anche prendere a calci il cane, per poter affermare la tua libertà» (1994, p. 136). La frase si può interpretarla così: solo la libertà, che non può che essere illegale e individuale, apre alla conoscenza e dunque la periferia va letta attraverso le pratiche di libertà che l’attraversano. Lo ritengo un buon punto di partenza e Ballard non poteva che stare come incipit proprio perché i suoi scritti hanno contribuito a spingere la mia ricerca in questa direzione. D’altra parte, sono stati i romanzi, mi riferisco soprattutto a quelli francesi a cavallo tra Ottocento e Novecento, da Honoré de Balzac a Emile Zola, a raccontare la nascita della metropoli ben prima di qualsiasi studio di urbanistica o di sociologia urbana. (Ilardi E. 2005). Ma non solo Ballard e i romanzi francesi. Il dottorato, di cui da molti anni faccio parte come docente e che pone al centro delle sue ricerche lo studio delle periferie urbane, è stato il contesto in cui questo mio interesse ha preso corpo e sostanza. È infatti proprio a queste numerose e rigorose ricerche sulla periferia romana che farò soprattutto riferimento nel corso di questo lavoro. Non ultimo il fatto che sia nato a Roma e che abbia vissuto sempre in questa città dove la periferia e le sue culture hanno giocato, più che in altre, un ruolo visibile e fondamentale per la sua trasformazione da città di provincia ad area metropolitana.

Vorrei però avvertire che questo mio saggio non è il risultato di una ricerca sul campo ma di un percorso segnato da letture, riflessioni, immagini, racconti, avventure del pensiero che ho raccolto in un punto di vista che si è andato formando in questi ultimi anni sul rapporto inscindibile tra territorio, politica e libertà di cui la periferia rappresenta la scena dove si legge più chiaro ed è più percepibile questo rapporto. E la disuguaglianza, che per molti ricercatori sarebbe la caratteristica strutturale delle vecchie e nuove periferie? Ovviamente non nego la sua esistenza e le sue conseguenze come l’esclusione sociale e la marginalizzazione spaziale. Ma un punto di vista che vuole essere di parte deve fare una scelta perché non ha mai mediazioni da proporre e soprattutto nel caso che si pretenda di coniugare insieme due categorie così opposte come uguaglianza e libertà. Per combattere la disuguaglianza è necessario l’intervento dello Stato, di un’azione politica, di un attore collettivo che si occupi della cosa pubblica e degli interessi di tutti; per praticare la libertà invece c’è solo bisogno dell’individuo che, a prescindere dalle sue condizioni sociali, sceglie di agire o non agire. La libertà è individuale o non è, e non ha nulla a che vedere con la collettività, la giustizia, la democrazia e soprattutto con la responsabilità e con i suoi cosiddetti valori. In altre parole, la libertà incontrollata, quella dell’individuo e dei suoi «spiriti animali» praticata nella sua massima estensione quando c’è il vuoto della mediazione politica, è la negazione dell’uguaglianza perché non pone vincoli al più forte; «al tempo stesso l’uguaglianza, se viene teorizzata in modo rigido e totalizzante, viola l’esplicazione incontrollata della libertà. Addirittura giunge a negarla» (Canfora 2013, p. 199).


Il contrario dell’uguaglianza non è quindi la disuguaglianza ma la libertà. Mentre per quest’ultima il bene supremo e assoluto è la vita nella sua dimensione fisica e materiale, per l’uguaglianza e il suo raggiungimento quello che conta è invece la dimensione etica della vita stessa che diventa dignitosa solo sul piano della giustizia sociale (M. Ilardi, 2019).

Tra l’altro, a me sembra che questa questione della disuguaglianza sia stata oggi respinta ai margini non solo nella coscienza delle persone ma anche negli stessi conflitti sociali che in nessun caso e in nessun luogo hanno innalzato la bandiera dell’uguaglianza nella lotta contro le istituzioni. Troppo generico l’obiettivo e troppo grande la distanza tra aspirazione e realtà per assumere un livello di politicità tale da innescare un conflitto. Non solo. Esiste un senso diffuso di sfiducia nei confronti delle stesse istituzioni che non hanno più alcuna autorità per rappresentare su questa terra un ideale capace di promuovere un’etica della convinzione che sia comune a tutto il corpo sociale, e soprattutto una grande attrazione verso una pratica di libertà che, in una società del consumo ma soprattutto in zone di frontiere come le periferie, non conosce ostacoli neanche quello della disuguaglianza. La vera americanizzazione della società italiana è proprio questa.

Il desiderio di fuggire dalla fabbrica, dal lavoro salariato, dal centralismo delle istituzioni che inchiodano gli uomini ai loro ruoli come a destini: questa è la cultura della frontiera americana dove l’uguaglianza non è realizzata dallo Stato che impone sui particolarismi un «interesse generale», ma dal desiderio stesso come forza potente che muove gli uomini verso la ricchezza e la libertà individuale e che inevitabilmente, prima o poi, porta all’uguaglianza. Una uguaglianza che «non implica affatto una redistribuzione egualitaria della ricchezza ma solo la partecipazione di tutti e di ciascuno alla ricerca febbrile della fortuna intesa come autoaffermazione sociale che impedisce a priori la cristallizzazione d’ogni distinzione sociale stabile» (Coldagelli 1990, p. LVI).


In America, l’uguaglianza, afferma Alexis de Tocqueville, non è solo un diritto, è un fatto. E alla sua origine c’è una mobilità sociale che attraversa spazi immensi e costruisce una democrazia allo stato puro, senza limiti, che si materializza immediatamente e che «è imperniata non sulla partecipazione politica, su regole assolute e inflessibili e sul potere della maggioranza ma sull’individuo e sul culto della minoranza. Ma soprattutto sulla libertà di movimento che non trova ostacoli e crea instabilità» (1990, p. 9).

Ma qui siamo in Europa dove il conflitto diventa inevitabile perché non ci sono spazi immensi dove poter far scorrazzare senza scontrarsi democrazia, uguaglianza e libertà. Se ne rese conto anche Robespierre. Racconta in un aneddoto, che cito spesso per la sua chiarezza, lo scrittore Michel Houellebecq che fu Robespierre a insistere che si aggiungesse «fraternità» alle parole d’ordine della Repubblica che erano «libertà» e «uguaglianza»: come se si fosse reso consapevole, con un’intuizione folgorante, che la libertà e l’uguaglianza erano due termini antinomici; che era assolutamente indispensabile un terzo termine (1998). Ma una terza via, ieri come oggi, è destinata al fallimento e fu così che l’uguaglianza e la libertà tornarono a confrontarsi aspramente mentre la fraternità finì presto nel dimenticatoio della storia. E seppure in qualche angolo del mondo ancora suscita brividi ed entusiasmi, «sempre, dinnanzi allo spettacolo di una grande fraternità, bisogna chiedersi: dov’è il nemico?» (Jünger, 1990, p. 15).


Ma ancora, perché studiare la periferia? Perché è proprio qui che la natura umana, fatta di interessi, ambizioni, passioni, violenza, egoismi risalta in tutta la sua visibilità e nella sua immutabilità e mostra con chiarezza il carattere soggettivo della giustizia, delle leggi, della ragione. È qui, in una situazione di emergenza sociale, che va valutata la capacità di una democrazia di governare un territorio e di far rispettare le sue regole. Una valutazione che va misurata non su una scontata adesione formale (chi dichiarerebbe di essere contro la democrazia?) ma su una spietata analisi di quello che accade realmente, sui rapporti sociale che si stabiliscono e sulle forme di comando che operano concretamente e che ottengono consenso. Ed è qui, infine, che precipitano nella loro massima riconoscibilità le culture, le mentalità, i comportamenti di una società del consumo che modellano le forme di vita e quelle della quotidianità e che, seppure sono presenti e agiscono su tutto il territorio metropolitano, relegano, per la forma estrema con cui vengono vissuti, le altre zone della città a insignificante appendice. A questo si aggiunga l’assenza dello Stato, la mancanza di spazi pubblici e l’appropriazione di quei pochi rimasti da parte dei privati:


«Il fenomeno di pubblicizzazione dei luoghi del consumo, simmetrico a quello di privatizzazione dello spazio pubblico, investe tutta l’area periferica, comprese le frazioni urbane più lontane e i piccoli comuni della corona che, in tal modo, ridiventano parti vive dell’area metropolitana» (Lanzetta 2016, p. 181).


Si può forse dire che dal punto di vista urbanistico e architettonico, ma non solo, è proprio su questi territori che si possono leggere le linee di tendenza che andranno a disegnare e a costruire la metropoli futura.

Quando è cominciato tutto questo? Da quando è saltato il nesso tra urbanizzazione, industrializzazione e intervento dello Stato. Con il tramonto del lavoro salariato, con la fine della stagione delle case popolari e con la crisi di alcune forme di rappresentanza politica quali i partiti e i sindacati che insieme alle politiche del welfare funzionavano come veicoli di mediazione, di integrazione sociale e di connessione con il resto della città, quel nesso è stato sostituito da quello tra urbanizzazione e mercato, sarebbe meglio dire tra urbanizzazione e consumo, che ha messo in crisi la vecchia forma sociale senza che all’orizzonte se ne intravedesse una nuova.


Un individualismo estremo, una forte frantumazione sociale, una scomparsa delle forme di partecipazione e di solidarietà, una microconflittualità diffusa con un alto tasso di violenza ma con un basso grado di politicità, nel senso che la violenza esercitata non ha come obiettivo quello di contrastare le disuguaglianze sociali o la creazione di spazi pubblici aperti a tutta una comunità ma stabilire i rapporti di forza tra le diverse minoranze sociali che vivono su quel determinato territorio:sono queste alcune delle conseguenze intervenute dopo la caduta dell’agire politico con le sue garanzie di integrazione e di mediazione e la scomparsa di quei luoghi che una volta erano considerati una grande scuola pubblica di politica. Una caduta e una scomparsa che sprigionano, insieme a una assoluta mancanza di politica, un’assoluta libertà individuale non di coscienza né dello spirito ma di movimento e che non vuole limiti. Una nuova domanda di libertà attraversa questi territori: si è liberi non quando si è proprietari, non quando non si soffre il freddo o la fame ma quando si ha la possibilità di agire liberamente per soddisfare i propri desideri con la pretesa di esteriorizzare la propria libertà in tutta la sua estensione e con l’obiettivo di mettere a disposizione di chi la pratica tutto il mondo che è a portata di mano. «Perché non è nella politica che sta la soluzione all'“angoscia di chi vive in borgata: è nel desiderio” che si materializza immediatamente sul territorio cancellando aspettative e regole che su queste stesse aspettative erano state costruite» (Mattioli cit., p. 54).


Per la stessa ragione dirà Walter Siti: «Non riesco a immaginare un borgataro riformista» (2009). Già Pasolini, nei suoi romanzi romani degli anni Sessanta del Novecento, aveva individuato i primi germi di questa «pericolosa» trasformazione: quando i «ragazzi di vita» dalle loro borgate piombavano sulla città e lasciavano consapevolmente dietro di loro una scia di violenza e di illegalità. La strada era l’unica dimensione della loro esistenza e di conseguenza doveva loro appartenere con tutto ciò che conteneva e con la possibilità di consumare o, meglio, di depredare in fretta oggetti e persone «perché è solo attraverso il saccheggio che il coatto si relaziona al paradiso delle merci […] E quel tutto, c’era solo un posto in cui un borgataro poteva, se non prenderselo, almeno contemplarlo: il centro» (Mattioli, cit., pp.129-131).


Una mobilità assoluta, un movimento incessante per le strade della città che li rendeva liberi e che rimarrà come un marchio, un’impronta indelebile che modellerà le figure sociali delle periferie romane e che attraverserà immutabile il tempo fino ai nostri giorni.

Dagli anni Sessanta, dalle borgate dei «ragazzi di vita» agli anni Settanta, quando da queste stesse borgate provenivano la maggior parte di quelle figure sociali che riacquistavano una centralità politica dando inizio (1977), ben prima delle periferie di Los Angeles e delle banlieue di Parigi, a un ciclo di rivolte la cui intensità fu tale da sconfinare nella dimensione di una guerra civile strisciante; ai dieci anni «gloriosi» (1975-1985) con al centro l’assessore Renato Nicolini e la sua «estate romana» e il sindaco Luigi Petroselli, uomo di apparato ma di grande intuito politico, che furono capaci di rompere quella frattura tra centro e periferie non solo potenziandone il collegamento attraverso l’aumento e la diffusione dei mezzi pubblici, non solo portando nel cuore della città quelle culture fino ad allora relegate ai margini e creando poi gli strumenti in grado di mediarle con la cultura tradizionale e borghese del centro storico, ma anche perché riuscirono in quegli anni e per l’ultima volta a legare insieme cultura di massa e politicizzazione di massa; ai centri sociali occupati che hanno funzionato come grandi laboratori di sperimentazioni culturali e di nuove alchimie sociali; agli spazi abbandonati dei rave dove l’occupazione illegale del territorio faceva intravedere, già qualche decennio fa, cosa si intendesse per pratiche di libertà: da tutto questo e fino ai nostri giorni, le periferie romane hanno da sempre lavorato come formidabili macchinari che hanno prodotto metropoli e i suoi potenti immaginari dove sono precipitati molto spesso i simboli dell’intera comunità nazionale. Culture socialmente forti per l’egemonia che hanno esercitato su intere generazioni e per l’antagonismo e la violenza che hanno sprigionato; politicamente deboli perché non hanno mai previsto alcun disegno strategico o fatta emergere e organizzato alcuna soggettività costituente. Disse una volta Giulio Carlo Argan, quando era sindaco di Roma, che la cupola di Michelangelo fece passare Roma dal Cinquecento al Seicento, La Tour Eiffel fece passare Parigi dall’Ottocento al Novecento (1979), potremmo forse aggiungere che la periferia e le sue culture fecero passare Roma da città a metropoli contemporanea.


A questo punto mi riesce difficile pensare, almeno per Roma, che esista, come scrive Agostino Petrillo riferendosi agli abitanti delle periferie, una loro «periferizzazione interna, una dimensione coscienziale di interiorizzazione profonda della condizione periferica» che li allontana dal poter praticare una estensione metropolitana più ampia. (2018, p. 18). Mi riesce difficile pensarlo non solo per quanto riguarda il passato, come ho cercato di spiegare, ma anche per quello che accade oggi perché questa periferizzazione interna non si esaurisce, come vedremo in seguito, dentro gli stati d’animo delle persone ma si proietta ancora una volta all’esterno, sul territorio, e produce comportamenti, gesti e linguaggi che ancora una volta sono lo specchio, seppure in parte deformato, di quello che avviene nelle altre zone della metropoli. Sono invece conseguenze di un deficit di analisi politica alcune ideologie, in molti casi profondamente innestate nelle istituzioni perché solo così potrebbero sopravvivere, che pretendono, attraverso universali etici e ammonimenti morali, di proporre alternative di società dentro questi territori. Sarebbe meglio dire alcune ideologie che non avendo più la forza politica per essere tali si trasformano ora in immaginari inconsistenti e inefficaci perché non riescono, non dico a sovvertire, ma almeno a scalfire i recinti duri della realtà. Da qui il titolo che ho voluto dare a questo libro: Le due periferie. Il territorio e l’immaginario, dove il territorio è considerato come categoria politica e l’immaginario come esercizio di etica e dove, di conseguenza, ci sono due letture diverse e contrapposte che si confrontano e si scontrano al suo interno.


Il problema, a mio parere, non è come sognare una nuova società, ma quello ben più difficile di come riuscire a dare una forma a quella che già c’è considerando che la fuga nell’utopia lascia oggi più di prima il posto alla condizione umana, alla sua misura terrena ritagliata sui desideri e sulle necessità del presente. Ed è da qui che un pensiero critico deve ripartire perché è qui che si gioca la scommessa di un ritorno del primato dell’agire politico. Questo stato di disordine e di emergenza, infatti, non fa che aumentare la valenza politica dei territori periferici perché la politica non può che nascere nella crisi e nella decisione su di essa. Cercare di dare una forma a questa anarchia del sociale è il compito disperato dell’azione politica che è invece assolutamente incompetente a parlare di nuova umanità, di solidarietà, di partecipazione. Quando la politica sposa la morale alla fine è inevitabile che si finisca con la ghigliottina o con i gulag o con l’inquisizione. Non c’è limite umano agli imperativi morali e ai valori che vogliono imporre.



Immagine: Valerio Bindi, 1995


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Massimo Ilardi, ha insegnato Sociologia urbana presso la Facoltà di Architettura dell'Università di Camerino. È stato direttore delle riviste «Gomorra» e «Outlet». Le sue ultime pubblicazioni sono: Il tramonto dei non luoghi (2007), La casa di Trastevere (2014), Il tempo del disincanto (2016), Potere del consumo e rivolte sociali. Verso una libertà radicale (2017).

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