Gli anni Novanta sono, tra le altre cose, la fase di esplosione dei centri sociali occupati e autogestiti, che assumono caratteristiche sociali e politiche inedite e peculiari. Al contempo, i centri sociali hanno alle loro spalle un retroterra, che affonda le proprie radici nei movimenti degli anni Settanta e nelle esperienze di resistenza e controculturali degli anni Ottanta. Dalle case occupate alle isole nella rete, in questo articolo Andre Capriolo ripercorre la genealogia dei centri sociali degli anni Novanta.
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Dapprima fu la Casa dello studente e del lavoratore, quando alcuni studenti della Statale di Milano, seguiti dagli artisti gravitanti attorno all’accademia Braidense, occuparono l’Hotel commercio di piazza Fontana. L’obiettivo: installarvi al suo interno macchine serigrafiche per la produzione della prime affiche politiche. Era il Maggio francese, l’Atelier Populaire, era il Sessantotto. Ben presto arrivarono le bombe del 12 dicembre, quelle della Strage di stato, la morte di Pinelli; la formazione dei primi «movimenti» politici giovanili – o la loro definitiva affermazione – come Potere operaio e Lotta continua, fu una immediata conseguenza.
Una politica «attiva», quella di queste organizzazioni, che fu da principio in grado di recepire le istanze richieste dal proletariato urbano in forte fermento, dove anche i primi moti d’immigrazione interna incominciavano a manifestarsi, soprattutto nella città del nord Italia. Parole d’ordine quali «la casa si prende, l’affitto non si paga» e «nostra casa è tutta la città» furono la scintilla che fece maturare il conflitto tra operai e studenti da una parte, e le istituzioni dello Stato dall’altra. A questi motti si accompagnavano le politiche attive nei quartieri delle città di una nuova generazione di giovani militanti: la riduzione delle bollette e dei canoni d’affitto, l’esproprio al supermercato, così come l’aiuto alle famiglie indigenti nel trovare un alloggio, diventarono il basso continuo dell’operato quotidiano di questi ragazzi e ragazze.
Ben presto, tuttavia, l’emergere di fenomeni inediti, come il femminismo, portarono alla crisi di organizzazioni quali Lotta continua e Potere operaio, e alla nascita del fenomeno dell’Autonomia operaia, intesa non come cartello politico o «filosofia» di fabbrica, ma quale movimento giovanile che, fatte proprie le teorie «desideranti» di filosofi post-strutturalisti quali Ágnes Heller e dei francesi Deleuze e Guattari (il loro Anti-Edipo divenne ben presto la base operativa con cui programmare l’attività politica) interpretò un nuovo attivismo quotidiano. Non più l’autoriduzione di bollette, degli affitti, e il volantinaggio davanti alle fabbriche delle periferie urbane, ma un rinnovato interesse verso il tempo libero e la cultura. In Sarà un risotto che vi seppellirà[1], uno dei primi volumi pubblicati da questi giovani, grande risalto veniva dato a questo «strano movimento di strani studenti», per ricordare un celebre volume di Gad Lerner, Mario Sinibaldi e Luigi Manconi[2].
Un capitolo, infatti, venne dedicato alla «migrazione» che condusse i giovani dalla strenua militanza politica (e dalle panchine dei parchi pubblici, che divennero luogo di ritrovo di questi giovani nelle giornate estive) ai centri sociali e alle case occupate. In questo modo Vincenzo – giovane protagonista di quei fatti – ricordava le giornate passate tra la sede di Lotta continua e l’attività politica di quartiere. Dichiarando come davanti alla stazione ferroviaria di Limbiate, nell’hinterland milanese, c’erano alcune panchine che avevano «ormai i colori dei nostri jeans», il ragazzo rimarcava come anche la sede di Lotta continua non riusciva più a svolgere la funzione di sodisfare i loro bisogni quotidiani: «non fisicamente» – ricordava il giovane – «ma non lo sentivamo nostro. E poi sempre scazzi con i dirigenti, con gli operai. Se ti ritrovavi lì dovevi sorbirti menate moralistiche, o facevi il missionario: aiutavi le vecchiette ad autoridurre le bollette della luce, vendevi il giornale, attacchinavi ecc. provavi si qualche soddisfazione alle "spazzolate": durante gli scioperi o quando, inquadrato nel servizio d’ordine, scendevi in città e potevi esprimere la tua forza, ma alla lunga ti chiedevi che rapporto c’era coi tuoi bisogni di vita»[3]. Da qui la scelta, per altro non troppo sofferta, di preferire di stare al freddo, sulle panchine, «ma almeno potevi parlare di te stesso dei tuoi casini anche personali, trovare solidarietà al tuo stato d’animo»[4].
Tuttavia, le panchine divennero ben presto bersaglio di «giovani spoliticizzati», che incominciarono a mischiarsi con i ragazzi militanti sia per cercare una via di fuga dalla noia dell’ambiente familiare e dalla routine del lavoro quotidiano, sia per cercare qualcuno che potesse aiutarli a risolvere i loro problemi con le droghe pesanti, in particolare con l’eroina. Di conseguenza, emerse velocemente la necessità di agire e di trovare un luogo stabile, possibilmente al coperto, che potesse fungere da punto d’incontro per scambiare esperienze quotidiane, organizzarsi il tempo libero e offrire rifugio a coloro che necessitavano di assistenza per liberarsi dalle dipendenze più pesanti.
All’interno di questo nuovo panorama politico, l’occupazione di stabili non venne più meramente intesa come attività sociale esclusivamente rivolta a dare ristoro ai giovani militanti, ma quale vera e propria manifestazione di protesta contro la società dell’opulenza. Nell’inverno tra il 1974 e l’anno successivo, nacquero in questo contesto i Circoli del proletariato giovanile: luoghi di ritrovo all’interno dei quali questi giovani, ormai non più affini alla politica «attiva» di organizzazioni quali Potere operaio e Lotta continua, si ritrovavano con l’intento di creare una propria identità, allo stesso tempo differente da quella che potesse essere la cultura delle organizzazioni della nuova sinistra, ma anche da quella promossa delle istituzioni dello Stato. Il Fabbrikone, la Casermetta a Baggio, il centro sociale di via Santa Marta, la Fabbrica di Comunicazione in piazza Formentini, il Macondo poco distante, istituirono una nuova geografia della militanza giovanile a Milano. Il resto d’Italia rimaneva tuttavia ancora legato a una dimensione più militante, seppur alcune eccezioni ve ne fossero. Se a Torino sorsero solo alcuni Circoli, quali il Peter Pan e il Cangaceiros, a Bologna tali luoghi di ritrovo – la TraumFabrik di via Clavature e la casa di Bifo in via Marsili – divennero per l’amministrazione comunista i «covi» dell’eversione da reprimere prontamente. Roma, invece, fu la protagonista della cultura «indiana», che vide nell’occupazione di uno stabile sito in via dell’Orso 88 il luogo di ritrovo di questa nuova gioventù.
Ben presto, tuttavia, una serie di eventi sparigliarono le carte sulla tavola della militanza di fine anni Settanta: l’uccisione di Francesco Lorusso, il Congresso bolognese del settembre ’77, il rapimento dell’onorevole Moro, l’inchiesta del 7 aprile 1979. Fatti ed eventi che condussero i giovani militanti a ripensare la loro politica operativa sia nel sociale, che nel campo culturale. I Circoli, che per un biennio – tra 1975 e 1977 – riuscirono a intercettare la crisi della militanza, furono chiusi dalle forze dell’ordine, mentre quelli lasciati indenni, vennero ben presto abbandonati dai militanti stessi. Il caso di Macondo, diventato, dopo la sua chiusura per un presunto tanto quanto infondato reato di spaccio di sostanze stupefacenti, un centro di meditazione volto alla ricerca spirituale, il Vivek, ne è un chiaro esempio.
In questo frangente, le dinamiche dell’attivismo giovanile, emerse agli albori degli anni Settanta, si intrecciarono felicemente con la storia nazionale dei movimenti sociali, in particolare sia con la storia del pensiero anarchico, che nel principio degli anni Ottanta stava acquistando una nuova vitalità, sia con le nuove culture giovanili transnazionali, come il punk. Interessante, soprattutto quest’ultimo elemento, che sulla cultura dei Circoli, e su quella anarchica, fondò il proprio operato. Questo contesto diede vita a un processo di traduzione culturale che riuscì ad incorporare le pratiche dell’«autonomia diffusa» tipiche del Movimento ’77, politicizzando stili di vita e culture radicali. Di fatti, sulle ceneri di questi fatti e di tali nuovi interessi, legati all’introspezione di stampo orientalista, un nuovo soggetto culturale riuscì ad intercettare il desiderio politico del giovane attivista di fine anni Settanta: i punk, che si rifacevano ai modelli estetici importati dall’Inghilterra che si apprestava al lungo corso politico di Margaret Thatcher, divennero il catalizzatore di queste nuove istanze politiche. Non già l’estetica e la cultura del punk ’77 – dei Sex Pistols e dei Clash – quanto piuttosto quella comunitaria e anarcoide della punk band Crass. Il viaggio a Londra, che aveva sostituito quello verso l’oriente, fu uno dei canali d’importazione di questo nuovo movimento, verso il quale si interessarono immediatamente alcune etichette discografiche, come la CRAMPS record e la bolognese Italian Record che a questi primordiali vagiti diedero un’inusitata attenzione.
Nel giro di due anni, tutta la penisola italiana – dai centri maggiori fino ai piccoli paesini, come Carpi e Pordenone – vide rapidamente modificarsi il tessuto antropologico dei propri quartieri. Anche i centri sociali rimasti attivi fin dopo il Settantasette recepirono questo cambiamento: caso emblematico il Santa Marta di Milano, all’interno del quale numerosi gruppi punk trovarono formazione: Kaos Rock, Kandeggina Gang, solo per citare alcuni dei più famosi ancora oggi. Si formarono, inoltre, nuove occupazioni: a Milano il Virus, in un capannone di via Correggio 18 già da alcuni anni occupato da militanti di differenti fazioni politiche; a Carpi il Tuwat; a Bari la Giungla; il Forte Prenestino a Roma nell’ottocentesco Forte Prenestina; a Torino il centro sociale El Paso in zona Lingotto, si organizzarono attorno a questa nuova controcultura.
Uno dei «baluardi» culturali di queste nuove occupazioni era difatti l’organizzarsi attorno al concerto e alla punkband. I Wretched al Virus, i Nerorgasmo al El Paso, i Blody Riot al Forte Prenestino così come i Raf Punk al Cassero di Porta Santo Stefano a Bologna sono solo alcuni esempi. Da non sottovalutare, inoltre, l’importanza della produzione cartacea, che fu in grado di creare l’immaginario collettivo delle nuove occupazioni. Centinaia di riviste, punkzine e autoproduzioni incominciarono a venire create, grazie anche all’utilizzo delle stampanti xerografiche, che proprio nei primi anni Ottanta incominciarono a essere vendute in gran quantità. «T.V.O.R.», «Fuoco Punk», «Decontrol», «Punkreas»: questi alcuni titoli. Interessante, soprattutto, il circuito (e l’omonima rivista) di «Punkaminazione», nome sorto dalla crasi tra le parole punk e contaminazione. L’obiettivo di questa organizzazione acefala – in quanto ogni assemblea era organizzata in un centro sociale differente – era quella di fornire una mappatura degli squat della penisola e tenere aggiornato il giovane punk sulle produzioni, i concerti e le attività dei vari centri sociali legati a questa controcultura.
Pur se le caratteristiche del centro sociale degli anni Ottanta si legarono attorno alla cultura punk, ben presto l’arrivo dalla California di nuovi aggregati tecnologici si innestò nel panorama controculturale italiano, arrivando a lambire anche l’organizzazione del centro sociale. In particolare, fu Milano a fare da apripista a tali situazioni. Dalla confluenza di alcuni punk del Virus (nel frattempo sgomberato dalle forze dell’ordine, nel 1984) con altri soggetti marginali che avevano visto in questa controcultura prospettive antagoniste, venne fondata la casa editrice Shake, che diede avvio a un percorso di ricerca e studio sul fenomeno del cyberpunk. Le espressioni del cyberpunk riuscirono a mantenere viva la componente politica antagonista dei punk, arrivando tuttavia a vedere nella tecnologia nuovi campi d’applicazione del «Do it yourself» da essi promossa fin dal 1977. Il concetto di cyberpunk non andrebbe tuttavia definito come un’entità onnicomprensiva, coinvolgente atteggiamenti, presenza estetica e preferenze musicali, ma piuttosto, la sua caratteristica innovativa risiede principalmente nella partecipazione inedita della tecnologia. Quest’ultima veniva spesso reinterpretata attraverso il détournement, un ribaltamento di matrice situazionista, che riuscì facilmente a plasmare l’essenza distintiva di questo movimento. Abbandonati stilemi e atteggiamenti del punk di «duro», la nuova tendenza avrebbe portato alla formazione di vari gruppi operativi in tutta Italia, nonché alla fondazione della rivista «Decoder», che di questi interessi, legati alle forme di antagonismo «tecnologico», si fece portavoce.
Questi collettivi radicali, ponendosi in continuità con i movimenti del Settantasette, guardarono agli scrittori della Beat Generation e alla musica New Wave che aveva al tempo stesso interessato la fantascienza, alla cultura psichedelica degli anni Sessanta, agli scritti e alle esperienze di Timothy Leary e Fraser Clark. Da questo contesto, nacquero una serie di occupazioni che modificarono rapidamente il contesto culturale antagonista italiano. Gli esempi sono numerosi: dal collettivo già menzionato di Decoder, che anche grazie all’interessamento di Primo Moroni si era inizialmente stabilito presso il centro sociale Cox18 (per altro già attivo da una decina d’anni al momento dell’arrivo dei «cyberpunk», ma con altre connotazioni politiche), al gruppo riunito attorno ala figura di Tommaso Tozzi e il centro sociale Ex-Emerson (ora, Next-Emerson) dove nel 1990 si diede avvio al progetto artistico Hacker Art BBS. Così Tozzi spiegava il progetto: «Hacker Art BBS. La prima galleria d’arte telematica interattiva. Libero accesso a ogni forma di caos, virus, deliri, ribellione, pratiche libere e democratiche e di arte subliminale. […] Hacker Art come pratica clandestina all’interno dei sistemi di comunicazione informatici. […] Hacker Art o Arte Subliminale come lotta… contro la manipolazione delle cose e del reale tramite il linguaggio. […] Hacker Art, un progetto di mostra d’arte aperta a tutti, realizzato tramite un terminale cui chiunque può collegarsi da tutto il mondo, ricevendo, scambiando, inserendo o manipolando dati, arte, filosofia, deliri, poesie, immagini, in tempo reale»[5]. E ancora: il gruppo di militanti attivi all’interno del centro sociale Isola di Bologna (Isola nel Kantiere) dal 1988, o quello romano attivo al Forte Prenestino, conosciuto come Isola nella rete; si era creato, in questo modo, un nuovo antagonismo giovanile.
L’influenza dei flussi culturali sulle pratiche e tradizioni politiche venne dunque mediata da reti relazionali e spazi concreti che si vennero a creare in varie città italiane. La combinazione di contesti socio-culturali in evoluzione, risorse istituzionali e di mercato bloccate, insieme all’approccio «Do It Yourself», diede origine ad una nuova forma di centro sociale, maggiormente incentrato non sull’indagare i problemi dell’abitare e del tempo libero, ma sui problemi della comunicazione antagonista e sulle nuove tecnologie, che ben presto si sovrapposero alla questione dell’immigrazione e dei movimenti ecologisti, che trovarono nel centro sociale un nuovo porto d’approdo. I centri sociali, pur differenziandosi nelle loro attitudini verso l’ambiente circostante, emersero nella seconda metà degli anni Ottanta come spazi pubblici e identità giovanili distintive. L’identità di opposizione si basava ora sul ribaltamento dell’individualismo consumistico delle controculture giovanili, per dare vita a una nuova forma di resistenza culturale. Secondo Tatiana Bazzichelli, negli anni Ottanta i centri sociali erano emersi come luoghi di nuova espressione culturale e networking, sviluppandosi come interfaccia di un movimento politico antagonista che raggiunse il suo apice tra gli anni Ottanta e Novanta, soprattutto nelle città più grandi. Reti che si mantennero attive anche grazie al sistema di Bbs, acronimo di Bulletin Board System, ossia una forma di comunicazione online precedente all’era del World Wide Web così come la conosciamo oggi. Le Bbs erano sistemi computerizzati attraverso i quali gli utenti potevano connettersi utilizzando i modem, con la finalità di scambiare messaggi, condividere file e accedere a varie risorse. Una forma di comunicazione antagonista alla quale era possibile accedere semplicemente chiamando il numero telefonico associato al sistema tramite un modem. Una volta connessi, gli utenti avrebbero potuto navigare attraverso i messaggi, partecipare a discussioni, scaricare file e, in alcuni casi, giocare a giochi online. Non solo: esse consentivano anche lo scambio di file e software tra utenti.
Tale percorso, ossia il sovrapporsi della cultura cyberpunk, degli antagonisti «digitali», quella dei punk e dei Circoli, portò alla formazione alla metà degli anni Ottanta dei Centri sociali occupati autogestiti e a una vasta gamma di autoproduzioni culturali, soprattutto nel campo musicale ed editoriale. Il progetto Link (da L’Isola Nel Kantiere), ben rappresenta questi interessi. Nato come associazione di promozione sociale indipendente, si occupava dell’organizzazione di festival, rassegne ed eventi culturali nei settori della musica, del teatro, del cinema, delle arti visive e dell’editoria (come Art’O. Cultura e politica delle arti sceniche o L’House Organ). Anche l’Helter Skelter, un «clubbino» – come definito dagli organizzatori – organizzato all’interno del centro sociale Leoncavallo a partire dall’estate del 1985, deve essere visto quale modello di questo nuovo percorso. Al suo interno, difatti, vennero organizzati concerti, anche di portata internazionale, come gli americani Sonic Youth, vennero proiettati filmati in Super 8, come quelli di Richard Kern, passando per le performance multimediali di Etant Donnee e Staal Plaat. Arte come pratica politica, non solo culturale, come del resto sostenuto dagli stessi organizzatori dell’Helter Skelter: «Una pratica politica, la nostra» – dichiaravano gli organizzatori dello spazio – «che non era fatta di rapporti con il quartiere, questione cara al Leoncavallo, ma di rapporti con il tessuto metropolitano, con il resto della città. Per questo le nostre uscite avvenivano nel centro della città, gli “attacchi mentali”, delle vere e proprie azioni di strada, avvenivano nel cuore della città borghese, delle compere del sabato pomeriggio, della signora impellicciata e del ragazzotto da discoteca, perché avevamo delle cose da lanciare, da buttare addosso a quella Milano addormentata su tutto»[6].
Come si vede, il rapporto delle generazioni della seconda metà degli anni Ottanta con le tradizioni dell’attivismo italiano degli anni Settanta fu un processo di negoziazione e ricodifica. A questo proposito, si sviluppò secondo due direttrici: da un lato, una fascinazione per le nuove culture giovanili, influenzate dalle esperienze di viaggio in città europee come Londra, Amsterdam, Berlino e Amburgo, che offrivano scene alternative e spazi di libertà legati all’autogestione e alla controcultura; dall’altro, una critica selettiva e una reinterpretazione degli elementi considerati datati, tipici di una cultura non più aggiornata alle nuove e mutate esperienze sempre più «spinte» verso il tecnologico e il digitale.
Gli anni Ottanta si chiusero in maniera eclatante per i centri sociali: nell’agosto-settembre del 1989 lo sgombero del centro sociale Leoncavallo e la reazione che ne seguì inaugurarono un ciclo di forte espansione, che si sarebbe concluso intorno alla metà del decennio successivo. Tra il 1990 e il 1992 cambiò radicalmente il rapporto con l’esterno, specialmente grazie a una giovane generazione di attivisti e di pubblico che si riversò nei centri sociali sull’onda del movimento studentesco della Pantera e con l’esplosione della musica indipendente: dallo ska al reggae, dal raggamuffin’ all’hip-hop e in seguito le musiche elettroniche. Numerosi Csoa riversarono la propria attenzione attorno a tali interessi: le posse italiane furono il nuovo collettore dell’interesse giovanile per il centro sociale. A Roma, attorno all’esperienza del Forte Prenestino, operava la crew della Onda Rossa Posse, al Leoncavallo la Lion Horse Posse, mentre a Bologna, all’Isola nel Kantiere la Isola Posse All Stars. «Apri la mente, scuotila per capire» – cantavano i rapper bolognesi in Stop al panico, il manifesto della cultura delle posse – «non c’è ragione, non aspettare di morire / scopri l’inganno, il piano per impaurire / una città segnata dal dolore, / scegli il modo giusto per cancellare / questo panico che vogliono far crescere / cerca di capire bene cosa voglio di-di-di-dire / c’è qualcuno che ci vuol far morire / prima che nel corpo, nell’animo, nel cuore / e qualcun altro che sa cosa fare / perché è il momento buono per approfittare / de-de-della paura costruita col fucile / pronti come avvoltoi per colpire / radere al suolo, chiudere, sgomberare / centri sociali e case occupate, yah».
Un fenomeno, quello delle posse, incentrato sulla «conquista della consapevolezza» da parte di queste giovani soggettività, ossia sulla costruzione di un processo di stabilità collettiva di un discorso critico sulla realtà considerato «autentico» proprio perché esente da ogni forma di mediazione partitica, sindacale o mediatica, come delineato dal contesto politico e sociale dell’epoca (non dimentichiamo la dissoluzione delle grandi «narrazioni» novecentesche, con la disgregazione del comunismo di matrice sovietica). In termini pratici, il rap all’interno di questo contesto avrebbe facilitato una socializzazione peculiare di pratiche e discorsi militanti, rappresentando una sorta di alternativa al tradizionale principio organizzativo del partito di massa tipico del XX secolo.
Una consapevolezza, quella della creazione di nuove organizzazioni sociali, fluide e in perpetuo mutamento che, tuttavia, venne teorizzata proprio negli anni di «esplosione» delle posse dell’attivista americano Hakim Bey nel suo celebre libro del 1991 intitolato T.A.Z.: The Temporary Autonomous Zone. Proponendo l’organizzazione di «Società temporaneamente autonome» l’agitatore statunitense intendeva forme di organizzazione sociale basata sull’occupazione di spazi temporanei, creati volontariamente e autonomamente, in cui le persone avrebbero potuto vivere in modo libero al di fuori delle strutture sociali e culturali tradizionali. Una «Ontological Anarchy» come definita dallo studioso, ossia una forma di anarchismo filosofico in grado di enfatizzare la libertà individuale, l’autonomia e la creazione di spazi temporanei che permettano di sperimentare forme alternative di organizzazione sociale. Al tempo stesso, le T.A.Z. si contestualizzavano come spazi in cui si sarebbe potuto esprimere liberamente la creatività e l’autenticità senza le restrizioni della società dominante: da questo, il concetto di «poetic terrorism», con il quale Bey si riferiva a un’azione creativa in grado di provocare uno squilibrio nell’ordine sociale esistente, spingendo le persone a riflettere e ad agire in modi non convenzionali.
Il progetto di «Isole nella Rete», che nasceva alla metà degli anni Novanta in relazione a tali tematiche, ossia dalla volontà di costruire uno spazio di visibilità online (anche se Bey si riferiva a spazio fisici e concreti) in grado di mettere in relazione, tra di loro e con tutto il «popolo della rete», i soggetti attivi nel mondo dell’autogestione, nasceva anche in seno a queste proposte: «Siamo infatti convinti» – dichiaravano gli organizzatori di quell’esperienza – «che le trasformazioni produttive e sociali avvenute in questi anni (effetto di quella che è stata chiamata la Terza Rivoluzione Industriale) abbiano posto al centro dei giochi la comunicazione e reso di strategica importanza l’accesso, libero e indipendente, ai mezzi di comunicazione che innervano il globo»[7].
Note
[1] Circoli del proletariato giovanile, Sarà un risotto che vi seppellirà. Materiali di lotta dei circoli proletari giovanili di Milano, Squi-libri, Milano1977.
[2] Gad Lerner – Mario Sinibaldi – Luigi Manconi, Uno strano movimento di strani studenti: composizione, politica e cultura dei non garantiti, Feltrinelli, Milano 1978.
[3] Circoli del proletariato giovanile, Sarà un risotto che vi seppellirà, cit., p. 17.
[4] Ibid.
[5] Messaggio di Tommaso Tozzi a All, inserito il 15-marzo-1991 nell'area messaggi Cyberpunk della Rete Fidonet. Il messaggio è stato successivamente pubblicato nella fanzine romana Collettivo Interzone nel 1991.
[6] Tratto dal libro bianco sul Leoncavallo a cura della federazione milanese di Democrazia Proletaria, ottobre 1989.
[7] Che cos'è Isole nella Rete?, da Strano Network. https://www.strano.net/news/isole.htm.
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Andrea Capriolo è attualmente assegnista di ricerca presso l'Università degli Studi di Udine. Nel corso delle sue ricerche, ha approfondito le connessioni tra arte e politica, concentrandosi principalmente sul periodo della contestazione e del seguente riflusso. I centri sociali, i circoli del proletariato giovanile e la controcultura punk e dark costituiscono i suoi principali ambiti di studio.
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