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Annunciatori di «mondi nuovi». Arte Programmata, sessant’anni fa





Pubblichiamo un articolo di Simona La Neve dedicata all'esperienza dell'Arte programmata negli anni Sessanta [1].


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È un giorno dell’ottobre del 1962 a Roma, quando alla Galleria La Salita, chiamata così perché da Piazza di Spagna si inerpica verso la passeggiata del Pincio, alcuni giovani inaugurano un «mondo nuovo»: il primo ciclo di esposizioni sostenuto dalla già rinomata azienda Olivetti. Sono presenti i «disegnatori sperimentali» del Gruppo N, il milanese Gruppo T – lettera quest’ultima che apostrofa il tempo come dispositivo di cultura visuale – e i più rinomati Enzo Mari e Bruno Munari che avranno anche il ruolo di promotori. Mentre nel Paese campeggiano le prime grandi insegne al neon, contraddistinte anche da forze cinetiche intermediarie dei primi anni Sessanta, la Direzione Pubblicità dell’azienda Olivetti tesse la sua rete di collaboratori, che diverranno nomi, oggi considerati tra i più prestigiosi del Novecento. La vivace promozione di artisti, architetti e designer in varie sedi del noto marchio, come a Milano, Venezia e Roma è testimonianza del tempo in cui, industria e arte non assumevano ancora posizioni dichiaratamente radicali, contro tutto ciò che avesse anche la parvenza di una produzione legata ai modelli capitalistici. Erano gli anni Sessanta e la réclame faceva cultura di massa, nulla pareva soccombere nella luminosa composizione di «mondi nuovi». «We choose to go to the moon» viene dichiarato solo un mese prima, nel settembre del 1962 dal presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy. L’attenzione a ciò che poteva accadere nell’imminente futuro per i giovani di quegli anni, si apriva perciò a molteplici possibilità. D’altronde l’operazione del Gruppo T, facente parte dell’italiana Arte Programmata, nel più ampio spettro di quella cinetica internazionale, era in qualche modo coerente con i tempi e con i media, oltre che con l’idea di progresso che serpeggiava. Il bagaglio socioculturale del modernismo si consumava, radicato nella società e nel ciclo di produzione-consumo che la «macchina da abitare» di Le Corbusier aveva già mostrato a scala globale. Ma cosa significava «macchina» nel 1962? Mentre l’operaio massa dequalificato, della catena di montaggio, conosce il processo produttivo automatizzato, a Los Angeles l’artista Andy Warhol, presso la Galleria Ferus, presenta le tele dei barattoli di zuppa Campbell. Il processo artistico di realizzazione venne inteso come semi-meccanizzato e ciò avvenne per via dell’uso non pittorico delle stampe. Nam June Paik, artista di origine sudcoreana, firmatario del manifesto Fluxus, sarà pioniere nell’usare media tecnologici atti alla sperimentazione della videoarte, ancora lontana dall’essere intesa come tale. Invece, nell’Arte Programmata e cinetica, il processo di esecuzione viene inteso quasi come confinante con le tematiche dell’ingegneria, nonostante sia talvolta posto, solo per una questione percettiva, all’interno dello scenario dell’Optical Art. Eppure, potrebbe stupire come si usino invero semplici macchinari, la cui applicazione avviene in modo diretto, anche per quei tempi, in ognuna delle sue corrispondenze internazionali, legate alle manifestazioni «Nuove Tendenze» a Zagabria, tra il 1961 e il 1973. Per il Gruppo T «la tecnologia era un puro strumento e, cosa difficile a credersi, uno strumento “neutro”» [2]. La cultura visuale era difatti strutturata sul concetto di Miriorama [3], ossia sulla variazione dell'immagine percepita in una certa sequenza temporale, in un continuo rinnovarsi impalpabile. Nella mostra dal titolo Arte Programmata, arte cinetica, opere moltiplicate, opera aperta non c’era una seduzione verso la tecnologia: il motore non veniva mostrato come apparato centrale. Tra quelle pareti della Galleria La Salita, Gianni Colombo infatti esponeva agli occhi del più attento visitatore una struttura il cui motorino nascosto, muoveva il lungo nastro di materia plastica trasparente. Era posizionato in un contenitore in cui appariva costretto: messo in azione, posseduto da un certo andirivieni che pareva reprimere e poi, talvolta aprire lo spazio in cui era contenuto, senza svelarne il trucco. Finanche quando è un foglio di gomma o, striscioline di plastica, come per i progetti di Devecchi o Varisco, la sottomissione della materia era caratterizzata da un «viavai» che la rendeva intangibile. E se questa materia era poi polvere di ferro, capace di essere così sofficemente docile, come nel progetto di Boriani o, liquido colorato dentro tubi trasparenti che lasciavano intravedere bolle d’aria, come per il progetto di Anceschi, allora l’immaginario si caricava di un’ironia del materico e del meccanico. Nella struttura provvisoria di ogni singola opera, all’interno di «campi di accadimenti», le superfici degli spazi espositivi mostravano poi gli obiettivi del gruppo con dirette incitazioni: «Si prega di toccare!». Questo stato d’animo era condiviso invero da molti artisti che erano interessati a promuovere i rapporti diretti spettatori-operato artistico. Gli artisti del Grav (Groupe de Recherche d'Art Visuel) dichiaravano «Vietato non partecipare» nella Terza Biennale di Parigi del 1963, in un clima di «comunicazione e interazione» mentre il gruppo Fluxus sviluppava l'esperienza degli happenings proprio in quegli anni, all’interno di una rete internazionale. Per il Gruppo T non si trattava di ricercare una risposta nello spettatore ma, piuttosto, un avvicinamento alla sperimentazione di corpi come soggetti attuatori di azioni tecnologiche. Si tratta di «una sorta di primato per l’arte italiana» [4] che trova poi, negli ambienti realizzati tra il 1959 e il 1964, un suo ulteriore sviluppo. Basti pensare alle sperimentazioni di Anceschi di Ambiente a shock luminosi (1964) oppure Spazio + linee luce + spettatori di Boriani (1964) in cui i motorini girevoli sono posti nell’ambito del percettivo di tutti i sensi, in quanto sinonimi di sperimentazione primordiale del rapporto corpo-macchina. Difatti, il testo scritto da Umberto Eco per il Gruppo T, non mostrava solo la «forma aperta» delle ricerche ma, allertava il pubblico dell’inoffensività delle stesse, ancorché nella mostra niente è affine a una certa «depravazione del gusto» [5]. Mentre oggi, a sessant’anni dalla mostra, si compie un nuovo rituale catartico della memoria del gruppo, oggi nell’era del biopotere viviamo l’impossibilità di rassicurare i pubblici dell’arte. Il concetto di «macchina» ha superato le più distopiche previsioni; la tecnologia è entrata nei brandelli di carne ancora liberi dal capitalismo per sedurli, mentre le tematiche sono divenute più espressamente cyborg – come tassello definitivo del rapporto corpo-macchina. E se, come scrisse Lucio Fontana in una brochure «il Gruppo T non vuole restare ai limiti di un mondo che è necessario affrontare e riconoscere nella sua validità» [6] la domanda che urge chiederci oggi è se, all’interno di dinamiche egemoniche e di controllo, rimane ancora possibile per noi non restare fuori dal nostro tempo. L’arte è ancora capace di tratteggiare in anticipo disegni futuribili mantenendo degli «anticorpi intellettuali» [7]? Sappiamo che essa è gremita di annunciatori di mondi «mentre il processo si compie, la fine diventa un cominciamento e appare un mondo nuovo, o, forse, si lascia conoscere solo il suo annuncio»[8] di cui il Gruppo T, nel farsi voce del nuovo soggetto attuatore di azioni tecnologiche, è certamente tra questi. Chi sono i nostri annunciatori del domani?







Prima immagine: Grazia Varisco, Renato Volpini, Renato Cardazzo, Gianni Colombo, Paolo Scheggi, Antonio Bonalumi, Dadamaino alla mostra Nuove Tendenze in Italia, Galleria del Naviglio, Milano, 1966. Sullo sfondo schema luminoso variabile R. R. 66


fonte: Grazia Varisco, Percorsi contemporanei 1957-2022, catalogo della mostra a cura di Marco Meneguzzo, Palazzo Reale, 22 giugno-16 settembre 2022, promosso da Comune di Milano | Cultura, Palazzo Reale e Archivio Varisco, Edito da Skira, p. 37



Seconda immagine: Gianni Colombo, Strutturazione fluida, un lungo nastro di materia plastica trasparente si muove in uno spazio delimitato da due cristalli, formando una serie di immagini sempre diverse.


fonte: Arte Programmata, arte cinetica, opere moltiplicate, opera aperta, catalogo della mostra a cura di Bruno Munari e Giorgio Soavi, Galleria La Salita, Roma, 1962, Edito da Officina d’Arte Grafica A. Lucini, Milano, s.p.



Note [1] Il titolo dell'articolo prende riferimento dal testo di A. Huxley, (1932) Brave New World, Random UK, 2009 [2] M. Meneguzzo, Arte Programmata cinquant’anni dopo, Johan & Levi Editore, Monza 2012, p.11 [3] Mioriorama è il nome suggerito al Gruppo T dal pittore e insegnante di Brera Enrico Boroloni e atto a restituire le «mille immagini» che le opere del Gruppo potevano suggerire e mostrare. [4] Ivi, p.51 [5] U. Eco, Arte Programmata, arte cinetica, opere moltiplicate, opera aperta, catalogo mostra a cura di B. Munari, Officina d’Arte Grafica A. Lucini, Milano 1962, p. 4 [6] L. Fontana, Miriorama 10, brochure-testo mostra Gruppo T, Galleria La Salita, Roma 1961, il corsivo è mio. [7] M. McLuhan, (1964) Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967, pp. 51-57 [8] J. Butler, Due letture del giovane Marx, Mimesis, Sesto San Giovanni 2021.

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