Un articolo di Sergio Racanati sull'arte degli anni Ottanta, sulle forme in cui «viene messo in scena il crollo e la separazione tra soggetto-oggetto; tra opera d'arte-artista; tra soggetto agente-soggetto passivo».
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Ho visto le città soffocate di luce al neon. I ricchi guardavano la folla brulicante che si dimenava per le strade bagnate dalla pioggia acida. Ai margini dei flussi di persone, venditori ambulanti gridare con i loro calderoni fumanti di cibo, accanto ai locali del McDonald dispensatori di morte. Lungo i marciapiedi, le vetrine delle boutique con gli interni lucidi e i pouf in velluto quasi sempre bianco e nero a scacchi: una tempesta di tesori vecchi e nuovi, colori sgargianti, forme oversize, tessuti sintetici per volumi non umani. Cascate di hardware, software e tutto il resto insieme a tonnellate di paillettes, glitter e stelle filanti. Su per le scale strette dei palazzi della borghesia annoiata specialisti biomedici – quasi tutti dietologi – legittimi e meno legittimi offrivano aggiornamenti, declassamenti, bei momenti e incubi. Prescrizioni di barattoli di anoressizzanti e capsule bicolor di sibutramina e efedrina da alternare per diventare nuove divinità o fottutissime star di paese. L’impero delle merci trionfava su tutto e tutti. E i peccati di gola non si arrestavano. Ricordo ancora i litri di «cocktail da signore»: Alexander, ritenuto discretamente euforizzante perché non superava la percentuale di volume alcolico del 20%. Ma non si poteva definirlo banale: era il master di tutti i matrimoni delle famiglie rampanti di tutta Italia. Una particolare miscela, dolce, cremosa e avvolgente, stemperata e perfettamente bilanciata dalla noce moscata, che offriva un tocco piacevolmente speziato e aromatizzato. E poi le ore trascorse con le zie materne al parrucchiere – per le meravigliose messa in piega e le acconciature da capogiro con cotonature e lacche effetto impalcatura architettonica- dove sfogliavo le riviste più cool di moda. Avevo solo 5 anni. Era il 1987. Ricordo benissimo Karen Alexander. Una delle prime top model di quegli anni a rompere le barriere presenti per le donne afro-americane in un contesto di modeling prevalentemente bianco. L’ho vista sfilare per Yohji Yamamoto che non potrò mai e poi mai dimenticare per la sua eleganza orientale riadattata per noi miseri occidentali.
In quegli anni si diffonde – nell’arte, nel cinema, nella letteratura, nel teatro, nella moda – il fenomeno delle identitá mutanti, delle contaminazioni tecnologiche, degli ibridismi.
Il corpo – con lacerti post-umani, brani interfacciati, carni martoriate o esaltate, protesi d’ogni tipo – diviene sempre più orfano di vincoli sessuali e/o razziali.
L’uso del corpo come linguaggio viene declinato come trionfante, sacrificato, diffuso, propagato, drammatico, tragico: corpo politico, corpo sociale, corpo estremo.
Corpo come il più antico strumento di comunicazione per dire – attraverso l’uso e lo sdoganamento del tatuaggio, del piercing, delle citazioni tribali, delle manipolazioni degli organi. Queste le pratiche più pop che la stessa cultura degli anni Ottanta ci ha consegnato. Per non citare le trasformazioni e mutazioni operate dalle droghe sui corpi – una per tutte l’eroina – fino alla creazione di veri e propri corpi altri. Angeli. Alieni. Androgini. Anarchici.
Si diffonde, nella cultura alternativa, un modo di dichiarare la propria opposizione alla cultura dominate.
Un corpo che diviene una scelta, un progetto di sé; un materiale plasmabile; un corpo per realizzare le zone di coesistenza e di confronto; un corpo per realizzare delle connessioni, delle deviazioni, dei meticciaggi.
Io debbo avere un corpo!
Cassandre di catastrofi e stragi imminenti, rincorrono una morale del pugno nello stomaco che ti lascia senza fiato: una eterodossia del cuore.
Sfilano nelle metropoli, ormai invase da merci del boom economico, corpi portatori del disagio fino a toccare la morte come forma estetica ancor prima che etica.
In questo clima avvengono le infrazioni – più spinte – a tutte le regole del linguaggio: la potente immaginazione ribelle, la capacità di sperimentare nuovi territori della contaminazione riaccendendo speranze di un futuro altro: si configurano nuovi spazi iconici tecno-mutativi.
La cultura sovversiva si scaglia contro la sonnolenta omogeneizzazione dell’identità: si urla la necessità di modificare il proprio corpo a seconda della moltitudine di identità che la mente produce.
Una Babele di volti cangianti: una continua metamorfosi
La storia assiste per la prima volta ad una grande rivolta contro le costrizioni e le regole morali e sociali che plasmano e modificano il corpo sin dall’infanzia: viene messo in scena il crollo e la separazione tra soggetto-oggetto; tra opera d’arte-artista; tra soggetto agente-soggetto passivo.
Ecco avanzare nelle metropoli le tribù del cyberpunk, termine coniato e usato per la prima volta da Bruce Bethke, nel 1980 unendo i termini Cibernetica e Punk.
Il termine cibernetica (dal greco: κυβερνήτης, kybernḗtēs, «pilota di navi») indica un vasto programma di ricerca interdisciplinare rivolto allo studio matematico unitario degli organismi viventi e, più in generale, di sistemi, sia naturali che artificiali, mentre il termine inglese punk (che come aggettivo significa di scarsa qualità, da due soldi) nato per identificare una subcultura giovanile emersa negli Stati Uniti e nel Regno Unito a metà degli anni settanta.
L’ALTROVE DELLA SPERIMENTAZIONE
IL CORPO-I COPRI
SCONFINAMENTI TECNOLOGICI
LA DANZA INTERATTIVA
SCONFINAMENTI GEOGRAFICI
UN NUOVO MONDO
UN BUCO NERO
SCONFINAMENTI SPAZIALI
UN LUOGO DA VIVERE O FAR VIVERE
SCONFINAMENTI PROGETTUALI
COSTRUZIONE-RICOSTRUZIONE
MODELLAZIONI PLASTICHE
SCONFINAMENTI LINGUISTICI
UN SEGNO DECISO
SCONFINAMENTI PERCETTIVI
GLI OCCHI PUNTATI SULL’IO
Dentro questo clima il concetto di cyborg, declinato dalla filosofa statunitense Donna Haraway, che nel saggio Manifesto Cyborg – pubblicato per la prima volta nel 1985 sulla rivista «Socialist Review» – si sviluppa a livello simbolico come il rifiuto dei dualismi fondanti della società maschilista e tardo-capitalista in cui l'autrice vive. Il Manifesto critica le posizioni del femminismo tradizionale socialista, e in generale per gli allora nuovi movimenti di sinistra di ripensarsi, alla luce del confronto con le profonde trasformazioni globali che segnavano il contesto dell’elezione di Reagan alla presidenza degli Stati Uniti negli anni ’80, prediligendo uno sguardo sulla differenza con un approccio che si concentri invece sulle affinità. La figura del cyborg è quindi l'emblema del superamento dei limiti del binarismo di genere tradizionale ponendosi come entità ibrida che mette in crisi e evade ogni forma di pensiero dicotomico, i confini in ambito politico e sociale, ogni forma di razionalità strutturata intorno a stringenti dualismi, in favore di un nuovo punto di vista in grado di rendere conto di una realtà infinitamente complessa ed eccedente che il suo stesso apparire metteva prepotentemente alla ribalta.
La Mutoid Waste Company, gruppo artistico nomade della scena punk londinese, costruisce macchine-sculture servendosi di detriti industriali, rifiuti ferrosi, tracce ingombranti dello spreco di fine millennio, dichiarano:
Noi vogliamo cambiare il paradigma uomo/macchina, viviamo per questa idea di mutazione dei nostri vincoli e della nostra arte; l’idea è quella di rappresentare sempre qualcosa che si lascia trasformare; niente è finito per sempre e la natura delle cose commerciali è solo pattume. Noi lavoriamo e interveniamo sopra queste cose per non avere solo pattume.
L’attenzione dell’arte – in questo momento storico contraddistinto dalla vittoria globale del neoliberismo (esempio eclatante fu la Thatcher e Reagan), dall’implosione del socialismo reale con la caduta del muro di Berlino e dai tanti strascichi degli anni Settanta che erano figli del sessantotto – è centrata sul transito, sui territori della metamorfosi, sulla mutazione e sugli eventi in divenire.
Nessun confine e nessuna spartizione tra il quotidiano e l’arte: lo spazio del nuovo nomadismo è lo spazio invisibile delle conoscenze, delle potenzialità di pensiero, lo spazio vivente di una umanità che sta inventando il proprio mondo. Uno zapping tra voci, culture, modi di comunicare: una moltiplicazione di immaginari, slittamenti tra le lingue e entità. È la possibilità di una nuova rivoluzione antropologica.
Gli anni ’80 restano un momento di connessioni aliene, contaminazioni, ibridazioni.
Il travestito è colui o colei che utilizza la toilette non tradizionalmente destinatale/gli, non è il camuffamento di un maschio o di una femmina ma piuttosto un essere che trascende i limiti del proprio corpo e che diviene ciò che desidera essere e non ciò che la società gli impone di essere. Il fine è giungere alla verità più della verità stessa. Narciso si proietta fuori di sé e ama ciò che è dentro di sé; la ricerca dell’altro se stesso è la ricerca di un partner e viceversa. Si è soli e per di più separati.
Il sublime uomo in gonna cavalca le passerelle della moda: Era il 1985 e lo stilista francese J. Paul Gaultier presentò la collezione «Et Dieu Crea l'Homme» (che tradotto letteralmente dal francese significa «E Dio creò l’uomo»). La Jupe Pour, conosciuta più comunemente come la gonna da uomo, fu accolta con pareri contrastanti e lo stilista francese era reduce dalla collezione «L’Homme Objet» del 1983: aveva deciso di mandare in scena la sua visione di mascolinità per presentare in passerella un nuovo capo d’abbigliamento. Per J.P. Gaultier era quindi importante superare quei confini imposti dalla società.
Una produzione aliena; un mondo popolato da miliardi di uomini che occupano prevalentemente le aree urbane: la riflessione inesorabilmente cade sulla condizione umana.
Al di là del mare?
Dove ci trascina questa avidità, che è più forte di ogni altro desiderio?
Perché proprio in quella direzione, laggiù dove sono fino ad oggi tramontati tutti i soli dell’umanità?
Un giorno si dirà di noi che, volgendo la prua a occidente, anche noi speravamo di raggiungere un’india, ma che fu il nostro destino a naufragare nell’infinito?
Oppure, fratelli miei?
Oppure?
(F. Nietzche, Gli uccelli, Aurora, 1879-1881)
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Sergio Racanati è artista multimediale, performer e poeta, nato a Bisceglie (Bat/ IT) nel 1982.
Attualmente è impegnato nel progetto DEBRIS/DETRITI vincitore del bando Italian Council XI EDIZIONE promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Nel 2022 ha partecipato al public program della ruruHaus /dOCUMENTA XV a Kassel. Da anni realizza film nei luoghi più vulnerabili del pianeta.
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