La guerriglia delle immagini
Nel West non ci sono eroi. C’è solo gente che ha paura della vita. Per questo spara, ammazza, rapina.
(Intervista a Sam Peckinpah di Gianluigi Rondi, Sette domande a Peckinpab, «Il Tempo», 12 settembre 1974)
Realtà mortale, realtà inumana. La nostra ribellione. Impotenza, fallimento, morte. Ecco perché dipingo queste immagini. (Dalle note di Gerhard Richter per una conferenza stampa in occasione dell’esposizione della serie 18 Oklober 1977 a Haus Esters, Krefeld, dicembre 1988) [1]
Ogni manuale per l’analisi di un testo letterario insegna che l’antagonista, in un’azione drammatica, è il personaggio in conflitto con il protagonista, l’oppositore che frappone ostacoli alla realizzazione dei piani e dei desideri del personaggio principale. Come Don Rodrigo nei Promessi Sposi o Long John Silver ne L’Isola del Tesoro l’antagonista emblematico è l’incarnazione del male che si oppone al bene, l’antieroe necessario perché il meccanismo narrativo funzioni, una figura cruciale, al punto da innescare una fascinazione uguale, anzi talvolta superiore, a quella dell’eroe.
«Più è riuscito il cattivo, più è riuscito il film», diceva Hitchcock.
Gli antagonisti di Salvino di eroico o di antieroico hanno ben poco, se non il desiderio disperato di inceppare, a qualunque costo, il meccanismo disumano di cui fanno parte. Vivono ai margini e il loro essere contro non gli conquista la luce della ribalta, nemmeno quella, sinistra, che si accende per illuminare la grandezza del male. Sono uomini e donne che violentemente e senza speranza, ciascuno a suo modo, resistono all’amorfa e piatta oppressione del tessuto sociale, alla caduta di senso, alla sconnessione di un agire senza presa sul reale, all’impotenza. Manifestanti che celano la propria identità sotto un casco da motociclista, la bocca coperta dalla kefiah, tute bianche, extracomunitari, combattenti cecene, anarchici, malavitosi, terroristi, naziskin: una galleria di soggetti «difficili» il cui volto porta i segni del disadattamento, della non accettazione.
Salvino inizia la serie di ritratti, intitolati Soggetto sociale antagonista, nel 1997. Tutti frontali, sguardo «in macchina» su fondo bianco, somigliano a foto tessera o a foto segnaletiche. La pittura è quella controllata, rigorosa e volutamente anacronistica che di Salvino contraddistingue le opere sin dagli inizi, data da un preciso disegno di base e da una fitta trama di pennellate «divisioniste» a dimostrare un interesse per l’arte di fine Ottocento che non si limita alla tecnica ma tocca invece anche terni e contenuti, guardando soprattutto all’impegno etico e sociale di Pelizza, Morbelli o del primo Balla e alla claustrofobia borghese che si intuisce sotto l’intimismo di Vuillard o di Bonnard. Un dialogo con la storia della pittura che è piuttosto inusuale in un artista della sua generazione, se si esdudono i prestiti stilistici di John Currin da Cranach o da Boucher o l’ossessivo ridipingere e manipolare i lavori di Rembrandt o di Auerbach da parte di Glenn Brown.
Anche se animati da un’identica visione del mondo, i ritratti di Salvino si differenziano, nel loro focalizzarsi sull’individuo, dal resto della sua produzione, dove la dimensione collettiva delle scene di guerriglia urbana, di manifestazioni, di attentati, presi dalla storia italiana degli ultimi decenni e soprattutto del periodo a cavallo degli anni ’60 e ’70, si alterna alla desolazione priva di presenza umana dei paesaggi cittadini e degli interni.
I primi lavori della serie sono corne «zoomate» sulle scene di massa – un tentativo di identificazione, di isolamento, di indagine conoscitiva e psicologica sui singoli che partecipano al dissenso collettivo. Nel tempo, però, il concetto alla base di Soggetto sociale antagonista si evolve, facendosi più complesso e uscendo dall’ambito strettamente movimentista e politico. L’antagonismo non è più inteso soltanto come l’essere contro di estremisti, black-blocks e no-global, ma si identifica, in modo più sottile e pervasivo, con l’essere diversi, con il male di vivere, con la marginalità che non trova posto nella società del consenso e dello spettacolo, con l’irrequietezza, la rabbia. In un articolo sull’«arte dopo la politica» Luca Beatrice cita a questo proposito Rossana Rossanda: «[oggi] il soggetto contro emigra dovunque si accenda un conflitto sociale diretto, non inquinato da politiche, come affermazione di un’identità rivoltosa o semplicemente (di questi tempi non si può chieder troppo) in collera» [2]. Per questo il ragazzo meridionale, il nordafricano, il poverocristo, prendono posto accanto a movimentisti e ultras nella galleria di volti che non sorridono mai ritratti da Salvino, Unica differenza la malinconia cupa, al limite della rassegnazione, che sostituisce negli occhi la determinazione al cambiamento, alla rivolta. Per questo esponenti della destra radicale vengono ad affiancarsi ai militanti di estrema sinistra, agli anarchici. Non è il qualunquismo de «gli estremi si toccano», ma un invito a riflettere su come la destra coaguli oggi, molto più della sinistra, l’insofferenza delle frange sociali più ai margini, il bisogno di identità di chi vede perdere di definizione, un giorno dopo l’altro, i confini del proprio ruolo sociale.
Scrive Salvino: «le mie immagini ritraggono persone assai dissimili fra loro, di diversa generazione, razza e collocazione sociale. [...] Una galleria di personaggi che dipingo con la meticolosità di un archivista intenzionato ad allestire un catalogo di fisiognomica antagonista» [3]. Il riferimento a un’idea di indagine sistematica e le caratteristiche costanti dei ritratti (posa e sfondo sempre uguali, espressione neutra dei soggetti) rimandano facilmente alla linea oggettiva della fotografia tedesca, e in particolare a Thomas Ruff (che Salvino ama molto), senza dimenticare l’antecedente di Sander. E infatti, scrive ancora Salvino: «i soggetti selezionati vengono sottoposti a una pratica di spoliazione e restituiti, per quanto è possibile, alla loro lampante oggettività di contenuto. Il mio rapporto con la pittura enfatizza infatti il puro processo di riproduzione dell’immagine» [4]. Come nei ritratti di fine anni Ottanta di Ruff, Salvino persegue dunque in questi quadri la massima leggibilità, la massima chiarezza, senza però iconicizzare i suoi soggetti, che rimangono potentemente individuati e umani. Questa capacità di tenere in bilico l’immagine tra il dato di fatto e l’emozione, che è poi il valore aggiunto della pittura di Salvino, rimane inalterata anche quando il soggetto ritratto è, in modi diversi, un’immagine mediatica, già metabolizzata, consumata dalle infinite volte che ci è passata sotto gli occhi. È il caso di Carlo Giuliani, di Nadia Desdemona Lioce o di personaggi appartenenti allo star system (anche se sempre in modo anomalo o marginale, da «irregolari») corne Tina Aumont o Seige Gainsbourg. Proprio da quella fabbrica di icone che è il cinema provengono, infatti, alcuni dei soggetti più recenti di Salvino. Suo interesse di sempre – soprattutto quello europeo degli anni ’60 e ’70, da Godard e tutta la Nouvelle Vague, ai polar francesi, agli autori italiani più capaci di esprimere irrequietezze e contraddizioni dell’epoca, corne Ferreri, Lizzani, Pasolini studiato e collezionato quasi come i documenti della contemporanea stagione politica, il cinema entra in maniera esplicita nel lavoro di Salvino da qualche anno. Le sue ultime due personali, Donne facili e I senza nome, traggono titolo e ispirazione rispettivamente dal film di Chabrol del ’59 e da quello, del 1970, di Jean-Pierre Melville, due storie, diversamente tragiche, di evasione dalla realtà quotidiana, da una società volgare e violenta. A immagini tratte dai film sono accostate in mostra le consuete scene di guerriglia e di vite ai margini, in un lavoro dove confluiscono «concetto, passione, realtà vissute, immaginate o storicamente acquisite. [...] Personaggi, o storie umane se preferite, differenti tra loro, ma che esprimono tutti la stessa cosa: eroicità della vita, aspirazione alla perfezione, fallimento» [5]. Questo slittamento dalla realta all’immaginario, compiuto da Salvino pur continuando a perseguire il medesimo obiettivo rendere presenti facce e storie obliterate dall’attenzione generale – può essere considerato un vero e proprio dato generazionale condiviso da molti artisti a partire dagli anni Novanta. Il cinema, serbatoio delle visioni prodotte e ricordate, ha permeato a tal punto l’immaginario dell’arte e della collettività da essere oggi quasi imprescindibile.
[…] Difficile seguire il fil rouge che si dipana legando queste immagini se non dando ascolto all’emozione che suscitano, respirando il clima che le avvolge. Emozione come strategia sincera, capace di tenere insieme percorsi mentali che rifiutano ogni categorizzazione, di far dialogare mondi apparentemente assai distanti, l’oggi con il passato, un passato che a guardarlo adesso sembra anche più lontano. Rendere presente una storia, quel passato, non evocarlo nostalgicamente ma portarlo qui, in mezzo a noi, a porre domande che non vogliamo più farci, è il compito che Andrea Salvino si è dato per il suo lavoro, inteso sempre più corne un atto di militanza solitaria, come un impegno a rivelare lo scollamento tra le immagini che sceglie come soggetti e il contesto che le riceve. Il falso anacronismo dei suoi quadri marca ulteriormente questo sfasamento e lo risolve con corto circuito. L’immagine trovata, un frammento di realtà […] risponde a un’urgenza che si è fatta sempre più pressante, asciugando progressivamente anche la pittura, rendendola sempre più precisa, tagliente. Mira dritto al bersaglio ora Andrea Salvino, e attraverso le sue opere la memoria (la sua, la nostra) compie incursioni fulminee nel mondo dell’arte. Un’arte, e una cultura, che sembra rinunciare sempre più spesso alla capacità, al bisogno, di essere contro.
Note
Questo testo, con il titolo Antagonista, è tratto dal catalogo della mostra realizzata da Andrea Salvino presso la galleria Antonio Colombo Arte Contemporanea nell’ottobre del 2005.
In Gerard Richter. La pratica quotidiana della pittura, a cura di Hans UlrichObrist, postmedia Books, milano, 2002, p. 133.
Luca Beatrice, L’arte dopo la politica, in «Flash Art», aprile-maggio 2001.
Andrea Salvino in Europa Differenti prospettive sulla pittura, catalogo del 51° premio Michetti, a cura di Gianni Romano, Giancarlo politi Editore, Milano 2000, p. 238.
Ibidem.
Andrea Salvino, testo distribuito in occasione della mostra I senza nome, galleria Roma Roma Roma, 2004.
«Andrea Salvino è nato a Roma nel 1969, dove ha frequentato l’Accademia di Belle Arti diplomandosi nel 1993. I suoi lavori sono stati esposti in numerose istituzioni internazionali. Attualmente vive e lavora a Berlino. La ricerca artistica di Salvino è strettamente connessa alla storia e trae ispirazione dall’iconografia politica, sociale e cinematografica del 900 Italiano ed Europeo fino hai nostri giorni. Il suo lavoro può essere inteso come una pagina di storia non ufficiale scritta per immagini attraverso aneddoti e dettagli tratti da documenti figurativi. I soggetti che Salvino fa vivere nelle carte disegnate e nelle tele dipinte sono fotogrammi storici individuati tra fotografie, vecchie cartoline, libri, pellicole o stampe e selezionati poiché motivi iconografici particolarmente significativi e capaci di descrivere l’epoca dalla quale derivano e la cultura di riferimento. Le vicende politiche, la guerra, la pornografia, l’erotismo, il costume e il cinema si susseguono nei disegni di Salvino come se fossero dei frammenti di una realtà passata in grado di fornire e restituire all’osservatore un «pezzo» di identità». (da: Studio Sales di Norberto Ruggeri)
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