La potenza destituente fra Kafka e Melville
Arcangelo, Monotipo, 2003, serigrafia, collage, quarzo, intervento a mano su carta
giapponese, 100 x 140 cm circa
“Tu vuoi l’impossibile” [1]. Così Kafka all’amico Brod. Ma cos’è l’impossibile? La meta. Sei lì lì per coglierla e solo per un pelo non l’agguanti. Arrivare “ vicinissimo alla meta” [2], solo un pelo, niente di più niente di meno. E il possibile? La risposta di Kafka è altrettanto perentoria: per me è impossibile il possibile [3]. Troppo secca per lasciare qualche dubbio in proposito. Identità assoluta e nessuna dipendenza logica l’uno dall’altro perché i due concetti sono uno come mostra bene il passaggio del sostantivo «l’impossibile» a predicato di «il possibile». È questa inerenza a escludere ogni loro correlazione, fosse anche di esclusione, secondo il sistema delle dipendenze logiche proprie della logica modale [4]. Né ora né mai e altre simili locuzioni disseminate a piene mani in tutta l’opera kafkiana diventano così spie del disconoscimento di questo tipo di logica. Lo stesso accade per l’altro concetto modale di necessità, anch’esso riassorbito nel possibile: “Il possibile è inteso in sé, come necessità. E cioè: mai («né oggi, né un’altra volta») il possibile potrà farsi reale. Se divenisse reale, non sarebbe più possibile” [5]. È quanto il segretario Bürgel de Il castellocerca di chiarire all’agrimensore K. [6], troppo preso dall’incantamento dell’albero per prestare ascolto al cicaleccio che anima la vita del sottobosco [7]. Gli è che K. [8] ha il suo modo di intendere e di volere. Ragiona attenendosi maniacalmente all’alternativa «o vero o falso»; le sue sono sempre asserzioni ispirate a questo criterio di verità e che esauriscono il loro compito nella descrizione esasperata e pignola dello stato di cose reale. Per questo tipo di logica, denominata non a caso assertoria, non c’è posto né per la possibilità né per la necessità, tanto meno per quell’improbabilità che, come sottolinea con forza Bürgel, inficia la facoltà di giudizio con “considerazioni inopportune riguardanti la condizione privata delle parti, i loro dolori e crucci” [9]. Che sono l’impasto di cui è fatto il mondo. Come spiegare altrimenti il suo impazzimento trasmessoci attraverso lo sguardo straniato di K.? Egli ha informato la sua vita al principio di non contraddizione mentre la stessa vicenda in cui è invischiato è lì a dimostrargli che il mondo segue un’altra logica e che forse la sua descrizione – quella dei fatti empirici che tanto gli pesano – se vuole riuscire veramente puntigliosa e realistica, deve decidersi per un’altra logica. Modale, per l’appunto. Ma è quanto K. e le sue controfigure non riescono a comprendere. Possono far finta di niente, credere che le tante, troppe contraddizioni in cui sono incappati siano solo apparenti e che prima o poi di necessità saranno tolte, ma intanto, nell’attesa [10], tutti quanti danno prova della più assoluta im-potenza, obbedendo ora agli ordini impartiti dall’alto (Il castello), ora alla legge (Il processo).
Fin qui la finzione letteraria. Forse coglie nel segno Blanchot quando scrive che “la stranezza di libri come Il processo o Il castello sta nel riferimento incessante a una verità extra-letteraria, che però cominciamo a tradire proprio quando essa ci attira fuori della letteratura, con la quale non può tuttavia confondersi” [11]. È di questa verità extra-letteraria che abbiamo fin qui parlato, sollecitati da problemi di logica, aristotelica e non. Se è questa insistita fedeltà dei personaggi kafkiani ai principi universali della non-contraddizione a motivare la loro im-potenza, in una parola a decidere del loro rapporto col mondo, perché non estendere il «possibile» kafkiano alla sfera del «politico kafkiano », quanto meno metterci sulle sue tracce? Domanda legittima se smettiamo per un momento di pensare quell’«im-possibile» su un piano meramente logico piuttosto che ontologico.
Riprendo nella sua interezza il frammento della seconda lettera a Brod da cui siamo partiti: «[…] tu vuoi l’impossibile per un bisogno che non diminuisce; questo non sarebbe niente di eccezionale, molti lo vogliono ma tu ti spingi più avanti di chiunque io conosca, arrivi vicinissimo alla meta, ci arrivi solo vicinissimo, non completamente alla meta, perché questa è appunto l’impossibile, e di questo «essere vicinissimo» soffri e devi soffrire» [12]. Già, soffri e devi soffrire. L’effettualità di quella logica è sofferenza sul piano individuale, sofferenza dovuta per aver inseguito – revocando in dubbio la certezza del principio di non contraddizione – l’impossibile credendolo possibile.
Ma sul piano più generale dei rapporti economici e sociali? Dice qualcosa sul tema il nostro Kafka? La testimonianza diretta di G. Janouch vale più di mille congetture: “Il capitalismo è un sistema di dipendenze che vanno dal di dentro al di fuori, dal di fuori al di dentro, dall’alto al basso e dal basso all’alto. Non c’è cosa che non sia concatenata e dipendente. Il capitalismo è una situazione del mondo e dell’anima” [13] che fagocita tutto e tutti, finanche “l’uomo grasso in cilindro” [14] tanto caro a George Grosz. Che il Nostro avesse letto il Libro I del Capitale o il Capitolo VI inedito? Scherzi a parte, la condanna del capitalismo è qui senza appello come lo è quella del taylorismo identificato come il male assoluto perché “la parte più sublime e meno tangibile della creazione, cioè il tempo, viene costretto nella rete di impuri interessi commerciali” [15]. Eppure questa orribile maledizione solo da lì a poco si sarebbe abbattuta sulle fabbriche della Mitteleuropa! Che fare, dunque? Come in Russia dove “il popolo tenta di costruire un mondo di perfetta giustizia” [16]? Ma in Russia la rivoluzione è già morta e se non è morta, “evapora e non rimane che il limo di una nuova burocrazia” [17]. Perciò? Non dire niente, soltanto “gridare, balbettare, ansimare” [18]? A fronte di questa lucidità, veramente Kafka niente capiva di politica? [19] Nel campo la curiosità non gli manca. Ad esempio sa che Gorkij ha scritto qualcosa su Lenin, sorride sornione degli amici anarchici, “persone molto care e allegre” per pensare “che possano essere davvero quei distruttori del mondo che pretendono di essere” [20], sulla neutralità della Società delle Nazioni nutre forti dubbi, è scettico sulla tenuta del trattato di pace per via delle riparazioni di guerra. Le sue fonti? I giornali di cui è convinto di non potersi fidare perché “la storia come un cumulo di avvenimenti non vuol dire niente” [21].
Il coinvolgimento per il destino della sua gente è ben diverso. In questo caso non si tratta di curiosità perché come ebreo si sente addosso tutta “la pressione del mondo” [22]; più che la lettura dei giornali, è il suo sesto senso ad allertarlo. Come la talpa del suo ultimo racconto – scritto, non a caso, durante la sua permanenza a Berlino nel ’23 –anch’egli fiuta il pericolo tutt’intorno. È da un po’ che l’antisemitismo lo tormenta; ha già avvelenato la piccola borghesia, questo “grande branco di piccoli animali che essendo percettibili sono superiori alla minutaglia” [23] e si accinge a completare l’opera con la classe operaia. Ma se ciò accadesse – e accadrà – allora anche l’ultimo rifugio sarà profanato. Certo, gli sfugge la portata della tragedia ma avverte chiaramente che il pericolo non è immaginario; nel caso poi della classe operaia, si tratterebbe di un nemico a modo suo innocente, addirittura “qualcuno della mia specie, un conoscitore e amatore di tane”. A portarlo su questa traccia, il suo lavoro: “Lo si vede qui nell’Istituto delle Assicurazioni che, essendo frutto del movimento operaio, dovrebbe essere dominato dallo spirito luminoso del progresso. Qual è invece la realtà? L’Istituto è un tetro covo di burocrati dove io sono messo in mostra come unico ebreo” [24].
A impedire l’accesso al «politico» kafkiano è stato lo scavo nelle sue fonti ebraiche, à la Baioni per intenderci [25]. Così le lunghe tiritere che Kafka nelle sue lettere e nei suoi diari ricama attorno al «possibile» e all’«impossibile» sarebbero tutte riconducibili alla mania ebraica per l’esegesi biblica mentre le interpretazioni infinite e disperanti in cui si avvitano i suoi personaggi ricorderebbero da vicino le controversie insolubili tra rabbi; ma anche le parabole, gli apologhi, gli aneddoti che infarciscono i suoi racconti e i suoi romanzi deriverebbero dalla quella tradizione. Per non parlare dei suoi grandi topoi, ad esempio della Legge e della colpa [26]. Neppure una lettura in chiave fenomenologica o psicoanalitica ci aiuterebbe a tirar fuori il nostro ragno dal suo buco. Anche in questo caso le risposte sarebbero tante e tutte esatte ma senza un risultato concreto .
Si potrebbe sempre dire che forse questo ragno non c’è considerando che il Nostro è solo uno scrittore. Vero ma quell’identità concettuale di possibile e impossibile da cui siamo partiti per pensare «il politico» kafkiano, ci appare troppo intrigante per soprassedere. E per non sbagliarci, iscriviamo d’imperio la sua produzione letteraria in quella che Blanchot, nel suo libro dedicato a Kafka, chiama “letteratura d’azione”, nel senso precipuo che “chiama gli uomini a fare qualcosa” [27]. Sì, perché quel possibile che nega il suo inveramento, tutto significa tranne che inazione. La prova? Intanto la vita vissuta dallo stesso Kafka. Quel «per me è impossibile il possibile» Kafka lo rivolge innanzitutto a se stesso per tradurlo, ha ragione Blanchot, in una lotta senza fine contro la mala sorte della sua malattia e contro quella del buon senso ventilatogli sotto il naso dal rabbino… Eterna per l’impossibilità di porvi fine [28]. Quanto agli altri cui accenna Blanchot, in cosa dovrebbero seguire Kafka? Non nella fatica di Sisifo in cui è impegnato il messaggero, instancabile nel suo procedere per scale, stanze e palazzi che tanto ci ricordano gli spazi impossibili di Escher [29], quanto impotente a concludere il compito assegnatogli [30]; piuttosto nel gesto di chi, grazie a un fine udito che gli permette di cogliere la chiamata di una tromba in lontananza, si avvia a seguire una trama che nessuno ha intessuto, senza un messaggio da consegnare, un imperatore che glielo sussurra e un misero suddito che lo aspetta.
«Dove vai, signore?». «Non lo so», […] «Pur che sia via di qua, via di qua, sempre via di qua, soltanto così posso raggiungere la meta». […] Via-di-qua; ecco la mia meta» [31]. Dunque nessun paese dove scorre latte e miele verso cui dirigersi, nessun deserto che gli si distenda davanti in una sorta di cattiva infinità, solo la de-cisione, qui e ora, di tagliare i ponti con l’esistente. Si comprende così il finale dell’apologo. Se il viaggio si prospetta “veramente straordinario” nonostante la sua durata interminabile, la fame e la morte certa, è perché a contare è solo il rifiuto, insistito e mai dismesso, di ogni appaesamento allo stato presente delle cose. Vogliamo chiamare questa partenza rivolta?
Ma è quanto sentiamo risuonare oggi nelle rivolte dei neri americani, dei gilets jaunes e dei Xiangangren. Anche quel «sempre», avverbio della ripetizione, ci parla della rivolta, del suo tempo insieme finito e senza fine e soprattutto sincopato. Immaginiamoci per un momento il mondo della rivolta come un ring. Al suo centro, il tiranno di turno a impersonare lo stato delle cose e a parare i colpi che gli giungono da ogni dove perché la rivolta è come Cassius Clay: elude, schiva, colpisce duro; se cade, si rialza, con i suoi tempi certamente, ma sempre si rialza. Occupare quel centro sostituendosi al tiranno o solo sfiancarlo fino a mostrarlo nudo alla sua gente? Su questa natura costituente e destituente della rivolta si ragiona oggi.
Il timore di non riuscire a mostrarne la qualità destituente è stato il cruccio filosofico di Agamben,
impegnato da decenni a decostruire l’apparato concettuale della nostra filosofia politica attraverso un ritorno alla filosofia prima di Aristotele. Una virata di 360 gradi resa possibile dall’intenso lavorio sul libro Theta della Metafisica centrato sul concetto di potenza [32]. Un’inedita interpretazione in chiave ontologica gli permetterà di procedere di buona lena per anni e anni nel suo lavoro di decostruzione [33]. A soccorrerlo, scrittori come Kafka e Melville, interpellati con inquieta curiosità alla luce del concetto di «potenza». È soprattutto lo scrivano di Melville, Bartleby, a intrigarlo per quel suo insistito I would prefer not to o anche I prefer not (preferirei di no/preferisco di no) con cui respinge in un botta e risposta serrato le richieste del suo datore di lavoro [34]. Più dei personaggi di Kafka, assunti a simbolo di una più generale condizione umana, è Bartleby a rappresentare col suo diniego e con i pochi gesti che l’accompagnano, l’aristotelica “potentia passiva” [35], una potenza, cioè, che non conosce l’urgenza di procedere all’atto. Nel tempo questa risposta sarà declinata in vari modi fino a diventare la formula stessa della potenza in quanto potenza- di- non che, tradotta nel linguaggio della filosofia politica da cui vuole prendere le distanze, diventerà presto potenza destituente opposta a quel potere costituente che attraverso la rivoluzione origina sempre nuove forme di Stato. Agamben finirà per scorgervi una “desolata dialettica” [36] fra due tipi potere di fatto inseparabili a meno che un diverso tipo di potenza intervenga a ridisegnare il quadro. Quale politica a-venire è però problema tutto da definire. Invece la condizione per cominciare a pensarla è chiara ed è la stessa di Kafka: partire dal “semplice fatto della propria esistenza come possibilità o potenza” [37]. Dunque, nessuna essenza da realizzare e nessun sogno da inseguire.
Viene il sospetto che nella sua rilettura di talune categorie heideggeriane, in particolare quella di fatticità dell’esser-ci [38], almeno uno stimolo l’abbia ricevuto proprio da Kafka i cui personaggi, creature di questo mondo, non vi sono semplicemente gettati, ma si sforzano di essere il loro «ci», di realizzare un loro modo di essere, una loro forma di vita. Se non ci riescono, è perché re-agiscono come tanti piccoli Brod, lottando fino allo stremo per un impossibile che può arrecare loro solo sofferenza.
Anche per Agamben la vita fattizia si dà nel modo della possibilità, sottratto però alla tirannia del principio d’identità e restituito alla logica modale. Operatore ontologico tra altri operatori ontologici, Agamben ne fa un’arma di lotta, in particolare un operatore della soggettivazione unitamente alla contingenza [39]. Naturalmente non sta parlando di Kafka, ma tant’è.
È alla luce di questa possibilità/potenza-di-non/im-potenza rispetto al mondo a cui tutti siamo consegnati che Agamben intraprende a metà degli anni Novanta il suo scavo nell’archeologia del potere forse sollecitato dall’uscita recente di un saggio di Negri sulle alternative del moderno centrato sul concetto di potere costituente [40]. Anche nel suo caso si tratta di un viaggio nella modernità senza la compagnia però delle folle di livellatori, sanculotti, operai e quant’altro, ma della sola «nuda vita», presentata con esempi letterari kafkiani: quello della vita vissuta nel villaggio ai piedi del Castello e quella di Josef K. nel Processo. Ma potremo anche pensare al contadino in pausa fino a morirne «Davanti alla legge» [41] o al condannato «Nella colonia penale» [42]. Ma resta Bartleby, che continua a non scrivere “nient’altro che la sua potenza di non scrivere” [43], la figura di riferimento. È alla luce di questo doppio non che Agamben elabora la sua risposta a Negri [44]. Se gli riconosce il merito di aver abbandonato sul tema il terreno tradizionale della ricerca – quello della scienza giuridica à la Kelsen e Schmitt – gli rimprovera di non essere stato altrettanto coerente nel ripensarlo in chiave ontologica. Certo, Negri è convinto di aver elaborato un nuovo paradigma del potere costituente come di una potenza dinamica e creativa “che scardina ogni equilibrio preesistente e ogni possibile continuità” [45], recidendo una volta per tutte il nodo che lo unisce al potere sovrano, nel mentre in questione è proprio questa relazione che lui in verità non recide per cui il suo paradigma resta di fatto ancorato a un’ontologia fondata sul primato dell’atto. Il primo passo nella giusta direzione sarebbe allora quello di invertire l’ordine della relazione: che la potenza non preceda, ma segua il suo atto.
A spiegare bene questa inedita relazione, decisiva per Agamben finanche a conclusione della sua decennale ricerca [46], è per l’appunto Bartleby. La sua storia ci viene raccontata da un avvocato-magistrato, suo datore di lavoro. Figura scialba e incurabilmente perduta, un mulo come copista, Bartleby vive un rapporto di lavoro che è di sfruttamento ma anche di servitù volontaria. Ma questo rapporto è solo un aspetto della relazione tra i due perché lo scrivano ha anche fissato la sua dimora in ufficio sì da confondervi vita e lavoro. Un esempio di ciò che Agamben chiama inclusione della nuda vita nella sfera del potere sovrano. E Bartleby è questa nuda vita. Abbandonato a se stesso, immerso nella sua tremenda solitudine, lo sguardo attonito a fissare per ore davanti alla finestra del suo ufficio un cieco muro di mattoni, nulla rivela di sé, né luogo e anno di nascita, né trascorsi di vita e di lavoro; niente, meno di nulla. In una parola, un uomo senza contenuto [47]. La sola difesa accampata contro il potere sovrano, il ripetuto, insistito, inossidabile «avrei preferenza di no» che presto contagia gli altri dell’ufficio rimanendo attaccato anche alla loro lingua. Ma Bartleby è nuda vita anche per un altro motivo, che presto è allontanato dall’ufficio e dal lavoro e relegato in una prigione senza una precisa accusa. Agamben per descrivere questo paradosso di un’inclusione che è anche esclusione, di un’innocenza che è anche colpevolezza, ricorre ai due concetti di homo sacer, figura del diritto romano arcaico, e di bando, nella duplice accezione di esclusione (il bandito fuorilegge) e di comando (scacciare, esiliare) [48].
Inutile domandarsi quanto sia tornato utile a Bartleby organizzare la sua strategia in quel modo e quanto efficace possa rivelarsi per l’oggi quell’ «avrei preferenza di no». Una domanda che ci ricaccerebbe dentro il pensiero politico tradizionale.
Gli è che il problema è un altro. Ricordiamolo: “pensare l’ontologia e la politica al di là di ogni figura di relazione” [49], la stessa che stringe in un solo nodo potere costituente e potere costituito. Allora, in cosa ha sbagliato Bartleby che quel nodo non ha sciolto? Cosa non ha funzionato nel suo diniego? Eppure il suo comportamento non è paragonabile a quello di Josef K. e a quello di K., versioni kafkiane della nuda vita. Costoro hanno sbraitato, urlato, cercato in tutti modi di uscire dalla zona di indifferenza in cui sono cacciati per poi morire della/nella stessa solitudine di Bartleby o perdersi strada facendo. I tre hanno reagito ognuno a modo suo a una condizione di partenza uguale, quella dell’abbandono (dal datore di lavoro, dalla Legge, dal castello) ma nessuno dei tre è riuscito a sottrarsi alla “forza, insieme attrattiva e repulsiva” [50], che lega assieme in un nodo gordiano nuda vita e potere. E questa forza è il bando che alla fine stritola chi finisce per incagliarsi tra i suoi scogli. Per tutti e tre, la stessa défaillance. Il sospetto, nel caso di Bartleby, è che abbia ragione il suo datore di lavoro quando dice che la sua è stata solo una passiva resistenza [51], una re-azione sempre uguale a ogni ordine ricevuto. Insomma, un botta e risposta in un gioco senza fine, un confronto reso possibile dal fatto che le due forze a confronto (vogliamo chiamarle potenze?) non sono affatto dissimili per quel loro transitus ad actum. E quella che Bartleby mette in campo è una potenza troppo debole per sciogliere il nodo. Avrebbe dovuto trasformarla fin da subito, e non lo ha fatto, in una potenza destituente [52]. Bartleby però non è Paolo che neutralizza e rende inoperante la legge senza abolirla [53] e neppure il cavaliere che sale in groppa al suo cavallo deciso a lasciarsi alle spalle tutto e tutti.
Note [1] Lettera a Max Brod, 13 gennaio 1921 in Max Brod/Franz Kafka, «Un altro scrivere», Neri Pozza Editore, Vicenza 2007, p. 297. [2] Lettera a Max Brod, 16 agosto 1922, ivi p. 405. [3] Lettera del 13 gennaio 1921, cit. [4] In proposito K. Jacobi, Possibilità in «Concetti fondamentali di filosofia» 2, Editrice Queriniana, Brescia, pp. 1568 [5] M. Cacciari, «Icone della legge», Adelphi Edizione, Milano 1985, p. 82-83. [6] F. Kafka, «Il castello», Mondadori Editore, Milano1973, p. 274: « E ora pesi lei, signor agrimensore, la possibilità che una delle parti, con l’aiuto delle circostanze, nonostante le difficoltà or ora descritte e in generali sufficienti, riesca nel bel mezzo della notte a cogliere di sorpresa un segretario che possegga una certa competenza per il caso in questione. Lei non aveva ancora pensato, vero, a questa possibilità? Non stento a crederlo. D’altra parte non è necessario pensarci, essa non si presenta quasi mai. Strani pesciolini, e particolarmente conformati, agili e sottili debbono essere costoro per sgusciare tra le maglie di una rete così fitta. Lei non lo crede possibile? Ha ragione, non lo è [enfasi nostra]». [7] G. Janouch, «Colloqui con Kafka», Guanda Editore, Parma 2005, p. 121: “Nonostante il brulichio, ognuno è muto e isolato in se stesso. I valori dell’individuo non combaciano più. Non viviamo in un mondo in distruzione, ma in un mondo stravolto”. Sempre G. Janouch in Colloqui con Kafkain F. Kafka, «Confessioni e diari», Mondadori Editore, Milano 1972, p. 1082: «Tanto solo si sente?» domandai. Kafka accennò di sì. «Come Kaspar Hauser?» osservai. Egli si mise a ridere: «Molto paggio di Kaspar Hauser. Mi sento solo… come Franz Kafka». [8] Ma questo vale anche per Joseph K. de «Il processo», per Gregor Samsa de «La metamorfosi» e per tanti altri personaggi dei Racconti. [9] «Il castello», cit., p. 270. Dove, a proposito dell’improbabilità, leggiamo a p. 275: «E anche se quell’improbabilità estrema [che qualcuno possa incontrare nottetempo un segretario in grado di aiutarlo] prendesse forma all’improvviso, forse che tutto sarebbe perduto? Al contrario. Che tutto sia perduto è ancor più improbabile di quell’estrema improbabilità». [10] Altro tema assolutamente centrale negli scritti di Kafka. Interessante notare che a patire la lungaggine dell’attesa fino a morirne sia sempre un anonimo disgraziato: un uomo di campagna ne «Il processo», un misero suddito nel racconto «Il messaggio dell’imperatore». [11] M. Blanchot, «Da Kafka a Kafka», Feltrinelli Editore, Milano 1983, pp. 48-49. [12] Lettera 16 agosto 1922, cit. [13] G. Janouch, Colloqui con Kafka in F. Kafka, «Confessioni e diari», Mondadori Editore, Milano 1972, p. 1124. [14] Ivi p. 1123: “Sfogliando un volume con disegni di George Grosz disse: «Questo è il vecchio aspetto del capitale: il grassone in cilindro seduto sopra il denaro dei poveri». «Ma è soltanto un’allegoria» osservai. Kafka corrugò le sopracciglia. «Lei dice soltanto! Nella mente degli uomini l’allegoria diventa una copia della realtà, e ciò è, beninteso, errato. L’aberrazione però sta già qui. […] L’uomo grasso in cilindro sta sul collo ai poveri. Giusto, ma l’uomo grasso è il capitalismo, e ciò non è più interamente giusto. L’uomo grasso domina il povero entro un determinato sistema, ma egli non è il sistema, non è nemmeno il suo dominatore. Al contrario, il grassone ha anche lui le catene che nel quadro non appaiono. Il quadro non è completo, quindi non è buono. Il capitalismo è un sistema…”. [15] Ivi p. 1106. [16] Ivi p. 1108. [17] Ivi p. 1109. [18] Ivi p. 1106. [19] Ivi p. 1109: «Io non capisco niente di politica. Naturalmente è un difetto che mi piacerebbe eliminare. Ma ho anche tanti altri difetti. Le cose più vicine fuggono dinanzi a me e vanno sempre più lontano». [20] Ivi p. 1092. [21] Ivi p. 1112. [22] Ivi p. 1135. [23] La tana in F. Kafka, «Racconti», Mondadori Editore, Milano 1970, p. 534. [24] Confessioni e diari, cit., p. 1135. [25] Per tutti G. Baioni, «Kafka: letteratura ed ebraismo», Einaudi Editore, Torino 1984. [26] Nella colonia penale in «Racconti», cit., p. 291: “Il principio secondo cui decido è questo: la colpevolezza è sempre fuori discussione”. [27] Da «Kafka a Kafka», cit., p. 23. [28] Ivi pp. 187. [29] Autore, è bene ricordarlo, di una sua metamorphose! [30] Un messaggio dell’imperatore in «Racconti», cit. [31] La partenza in «Racconti», cit., p. 454. [32] G. Agamben, «La potenza del pensiero. Saggi e conferenze», Neri Pozza Editore, Vicenza 2005, pp. 273-287. [33] G. Agamben, «Idea della prosa», Feltrinelli Editore, Milano 1985; G. Agamben, Quattro glosse a Kafka in «Rivista di Estetica», Rosenberg & Sellier, n. 22, Torino 1986. Con Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi editore, Torino 1995, prende avvio il progetto di decostruzione della filosofia politica occidentale. In proposito C. Salzani, «Introduzione a Giorgio Agamben», il melangolo, Genova 2013, p. 76. [34] H. Melville, «Bartleby lo scrivano», Feltrinelli Editore, Milano 1991. [35] Quattro glosse a Kafka, cit., p. 43. [36] G. Agamben, Per una teoria della potenza destituente in «L’uso dei corpi», Neri Pozza Editore, Vicenza 2014. [37] «La comunità che viene», cit., p. 30. [38] Sul tema La passione della fatticità in «La potenza del pensiero», cit. [39] G. Agamben, «Quel che resta di Auschwitz», Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 136: “Le categorie modali – possibilità, impossibilità, contingenza, necessità – non sono innocue categorie logiche o gnoseologiche, che concernano la struttura delle proposizioni o la relazione di qualcosa con la nostra facoltà di conoscere. Esse sono operatori ontologici, cioè le armi devastanti con cui si combatte la gigantomachia biopolitica per l’essere”. [40] A. Negri, «Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno», SugarCo Edizioni, Varese 1992. [41] «Racconti», cit. pp. 238-239. [42] «Racconti», cit., p. 283. [43] «La comunità che viene», cit., p. 27. [44] «Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita», cit., p. 51. [45] «Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno», cit., p. 18. [46] Così in «L’uso dei corpi», Neri Pozza Editore, Vicenza 2014, p. 337: “Il paradosso del potere costituente è, infatti, che esso, per quanto i giuristi ne sottolineino più o meno decisamente l’eterogeneità, resta inseparabile dal potere costituito, con cui forma un sistema”. [47] G. Agamben, «L’uomo senza contenuto», Quodlibet, Macerata 1994 [48] «Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita», cit., Parte seconda. [49] Ivi, p. 55. [50] Ivi p. 123. [51] «Bartleby lo scrivano», cit., p. 16. [52] Per una teoria della potenza destituente in «L’uso dei corpi», cit. [53] «L’uso dei corpi», cit., pp. 345-346.
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