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Una riflessione su Panzieri e Tronti (seconda parte)




Su Panzieri e Tronti si è scritto molto, così come su quella straordinaria esperienza rivoluzionaria che prende il nome di operaismo e che ha avuto in «Quaderni rossi» una decisiva fase di incubazione. Tuttavia, è importante – non solo dal punto di vista storiografico, ma anche per il presente – ripercorrere ancora una volta i passaggi teorici e le scelte strategico-politiche che hanno definito quella stagione seminale, che ha coniugato una radicale rilettura di Marx con dei nuovi cicli di lotta. È il complesso compito che si assume in questo saggio per «Machina» Marco Cerotto, studioso in particolare della biografia teorico-politica di Raniero Panzieri. Proponiamo oggi la seconda parte del testo.


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La rottura tra Panzieri e Tronti: una riflessione aperta

Il primo numero dei «Quaderni rossi» aveva puntato ad accelerare la cosiddetta «svolta» della Cgil, come dimostrano anche le collaborazioni dei diversi sindacalisti, a partire dall’editoriale di Vittorio Foa Lotte operaie nello sviluppo capitalistico che apriva il primo numero. La prospettiva di Panzieri di coinvolgere il sindacato nuovamente su posizioni di classe, ovvero sviluppando una strategia realmente anticapitalistica, non era così lontana dalle trasformazioni in seno alla Cgil susseguitesi in questo periodo. Infatti, la Cgil aveva realmente intrapreso un percorso diverso dopo gli importanti esiti congressuali del ’56 e del ’60, seppur ereditando ancora diversi limiti politici scaturiti dai difficili anni della crisi dello stalinismo e dell’offensiva neocapitalista, secondo la lettura di diversi dirigenti sindacali. Sicuramente, uno dei problemi principali risiedeva nella visione contraddittoria del «ritorno alla fabbrica», poiché si basava sulla strategia salariale e contrattuale che puntava a migliorare la condizione della classe operaia all’interno del modo di produzione capitalistico, finendo per assolvere una funzione stabilizzatrice per l’affermazione della fase nuova del sistema economico. Tuttavia, il coinvolgimento dei sindacalisti nel progetto teorico-politico dei «Quaderni rossi» durò molto poco, come dimostreranno i contrasti emersi dopo l’azione spontanea intrapresa dalla redazione all’interno della Fiat Ferriere, ovvero quando gli intellettuali della rivista produssero e diffusero autonomamente dei volantini nello stabilimento industriale senza la firma e l’avallo del sindacato. Questo episodio viene tuttavia collocato nel clima di generale tensione che accompagnò l’uscita del primo numero, che provocò «ripetuti attacchi di vertice a Garavini e alla linea della Cdl torinese»[1], conducendo questi, insieme a Vittorio Foa ed Emilio Pugno, a dissociarsi dalla rivista e a interrompere la collaborazione col gruppo redazionale.

Eppure, anche all’interno della stessa redazione dei «Quaderni rossi» cominciavano a serpeggiare orientamenti e prospettive divergenti, come dimostra il convegno a Santa Severa. Se è vero, infatti, che gli scontri di piazza Statuto sancirono definitivamente la difficoltà di proseguire ulteriormente il lavoro teorico, è ancor più vero che l’origine di questo dissidio può essere individuato già nei mesi precedenti, come dimostra l’accesa discussione a Santa Severa nell’aprile 1962. L’incontro avrebbe dovuto focalizzare l’attenzione sullo studio del Capitale, ma si trasformò in un dibattito sui problemi politici e sociali del momento, sulla nuova conflittualità operaia e, infine, sulla necessità di forzare il ruolo dei «Quaderni rossi», assumendo direttamente la responsabilità di organizzazione politica. La discussione a Santa Severa incespicò su una questione di fondo, che rendeva per la prima volta espliciti i contrasti tra i «romani» e i «torinesi», in quanto questi ultimi insistevano sulla necessità di approfondire ulteriormente l’analisi del modo di produzione neocapitalistico per evitare di scivolare nel grossolano errore dell’immediatismo, e continuando a sostenere una linea di collateralismo con il sindacato per un «tempo prevedibilmente lungo»[2]. È ormai risaputo che per fronteggiare questa prima crisi teorica, la redazione decise di formulare le cosiddette «Tesi Panzieri-Tronti» per cercare di garantire al gruppo un codice teorico-politico più solido e duraturo. Ma l’estate era alle porte, e con essa la rivolta di piazza Statuto che infiammò la capitale del neocapitalismo italiano nelle giornate dal 7 al 9 luglio 1962. Nei giorni seguenti la rivolta, come risaputo, le organizzazioni sindacali scagliarono contro il gruppo dei «Quaderni rossi» un durissimo attacco, accusandoli di aver provocato gli scontri e di aver contribuito alla disgregazione sindacale, e quindi operaia. Nonostante la redazione parve ritrovare una timida unità nel tentativo di essere riabilitati dalle organizzazioni operaie, in realtà l’attacco ai «Quaderni rossi» scompaginò le file del gruppo, già diviso ormai sulla possibilità di intervenire politicamente nelle lotte operaie, e ancor più frazionati sull’urgenza di una rappacificazione con le organizzazioni storiche del movimento operaio. Il dissenso si approfondisce nei mesi successivi, come dimostrano le perplessità di Panzieri nei confronti dell’editoriale di Tronti, Il piano del capitale, che avrebbe dovuto aprire il terzo numero dei «Quaderni». Panzieri e i «sociologi», cioè il gruppo «torinese», esprimono le proprie diffidenze nei confronti del ragionamento trontiano, esposto con più linearità durante una riunione del gruppo «romano», durante la quale Tronti definì le basi della sua «rivoluzione copernicana», sancendo – di fatto – un vero e proprio «manifesto in nuce dell’operaismo teorico»[3] appartenente al gruppo che darà vita a «Classe operaia». Tronti operava il rovesciamento della teoria marxiana secondo la quale il capitale spiega tutto quello che c’è dietro, giungendo a teorizzare il primato della classe sul capitale, dichiarando che «il punto più alto dello sviluppo non è affatto il livello del capitale» ma è appunto la classe operaia[4]. L’articolo di Tronti subisce l’ostracizzazione da parte di Panzieri, che viene spostato a editoriale interno, mentre il terzo numero si apre con il saggio Piano capitalistico e classe operaia che riporta la firma collettiva dei «Quaderni rossi». Dopo l’uscita del terzo numero, durante una riunione della redazione «Quaderni rossi – Cronache operaie» del 31 agosto, Panzieri annuncia la fine dei lavori, constatando che prevalgono contraddizioni irrisolte da tempo, approfonditesi in particolare dopo lo sciopero Fiat e per le diverse interpretazioni fornite di quell’evento. Per Panzieri e altri compagni la valutazione della condizione del livello maturato dai nuovi cicli di lotta operaia palesava «una spinta di classe» senza precedenti, che ricalcava elementi nuovi sviluppatisi radicalmente con l’affermazione del neocapitalismo, ma contemporaneamente si accentuava l’inesistenza di un’organizzazione politica e la difficoltà di «costruirla a breve scadenza»[5]. La scelta emersa nella redazione sulla possibilità di intervenire direttamente e autonomamente nei nuovi cicli di lotta operaia dei primi anni Sessanta, che sembrava fondarsi prettamente su una decisione pratico-politica, rimandò inesorabilmente a una dissonanza teorica. Prima di analizzare criticamente e dialetticamente le fonti sulla storica rottura tra i due intellettuali del neomarxismo italiano, osserviamo attentamente le ulteriori elaborazioni teoriche appartenenti all’ultimo Panzieri e al Tronti dell’esordio di «Classe operaia», le quali assurgono a chiavi di lettura, divergenti ovviamente, dello sviluppo neocapitalistico, della pianificazione produttiva e distributiva e della nuova classe operaia.

Dunque, i saggi dei precedenti numeri dei «Quaderni rossi» avevano analizzato l’evoluzione del nuovo modo di produzione, focalizzando l’attenzione sugli aspetti più significativi del neocapitalismo, come l’uso capitalistico delle macchine e il dispotismo padronale insito in esso, la dialettica fabbrica-società che derivava dalla nuova organizzazione del processo produttivo e infine la peculiarità del «piano», che dalla sfera produttiva a quella circolativa perfezionava il perpetuum mobile dei rapporti di produzione neocapitalistici. Eppure, il quarto numero della rivista si proponeva di indagare nuovamente le specifiche leggi economiche che caratterizzavano il neocapitalismo degli anni Sessanta, enfatizzando con ciò la recente rottura del gruppo incarnata dall’uscita di Tronti e dei «romani» per fondare «Classe operaia». Nell’estate del 1963 esce il quarto numero dei «Quaderni rossi», dal titolo Produzione, consumi e lotta di classe, all’interno del quale l’editoriale di Panzieri, Plusvalore e pianificazione, assume un’importanza fondamentale soprattutto per cogliere le dissonanze rispetto alla lettura trontiana sull’evoluzione capitalistica. Nel saggio che si proponeva essere «Appunti di lettura del Capitale», ossia Plusvalore e pianificazione, Panzieri coglieva le peculiarità dell’organizzazione del processo produttivo neocapitalistico, le quali dimostravano il superamento della precedente fase concorrenziale e sancivano lo sviluppo di un sistema modernamente efficiente nella dialettica produzione-consumo. La pianificazione risultava essere la forma fondamentale insita nel processo capitalistico, che tuttavia assumeva una particolare rilevanza soltanto con il perfezionamento tecnico e scientifico della grande fabbrica, riuscendo ad affrontare adeguatamente le conseguenze della cieca concorrenza e del «caotico movimento» della circolazione[6]. Panzieri coglieva le trasformazioni qualitative del neocapitalismo che tendevano a perfezionare il processo produttivo e, ancor più importante, quello distributivo, in quanto individuava nella pianificazione il fenomeno caratterizzante lo sviluppo del sistema capitalistico che, lungi dall’entrare nella sua ultima fase, sperimentava una nuova organizzazione del lavoro, attuando un’autentica mistificazione dei rapporti privati di produzione.

Nel frattempo, nel gennaio 1964 era stata fondata «Classe operaia» con un obiettivo politico molto preciso, ossia ricercare la via strategica per la costruzione di un’organizzazione operaia e rivoluzionaria. Abbiamo già accennato che, dopo gli eventi di piazza Statuto, Tronti considerasse la soggettività operaia come la rappresentazione del massimo grado dello sviluppo capitalistico, dal momento in cui si verificava un curioso ribaltamento di azione e reazione tra capitale-classe operaia nel modo in cui Marx aveva osservato i processi sociali innescati dallo sviluppo capitalistico, realizzandosi piuttosto il primato della classe sul capitale, come sentenziava la sua «rivoluzione copernicana». La questione dell’organizzazione, dunque, assumeva una priorità assoluta per il gruppo dirigente di «Classe operaia», che aveva coinvolto gli intellettuali-militanti dell’ala oltranzista dei «Quaderni rossi», unitasi ai «romani» e al gruppo collocato tra Padova e Venezia, che vantava una ramificazione di solide basi operaie nelle grandi fabbriche venete. Se lo «sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie»[7], si comprende come la necessità di incanalare siffatte lotte in una strategia generale di un’organizzazione operaia dominasse la discussione iniziale di «Classe operaia», come dimostrava il saggio di Tronti Lenin in Inghilterra: la necessità risultava quella di convogliare queste nuove lotte operaie in una nuova organizzazione di classe. Eppure, non passa troppo tempo quando anche in Tronti comincia gradualmente a prevalere la convinzione dell’assenza di un’organizzazione rivoluzionaria e viene rilanciata quindi la necessità di una «crisi positiva» funzionale alla ristrutturazione delle «vecchie organizzazioni»[8], come emerge dall’articolo 1905 in Italia uscito nel settembre ’64. Infatti, il primo anno di «Classe operaia» si chiudeva a dicembre con lo scritto Classe e partito, nel quale emergeva con più chiarezza la prospettiva che stava imboccando la seconda esperienza del neomarxismo italiano, in quanto si affermava la necessità di «impedire il processo di esplicita socialdemocratizzazione del partito comunista», nonostante i rischi che ne sarebbero derivati, cioè i «sacrifici personali», gli «arretramenti teorici» e persino i «compromessi pratici»[9].

L’evoluzione dell’analisi teorica trontiana si può cogliere nella considerazione sulla recente dinamica politico-sociale del neocapitalismo italiano, la cui prima fase di relativo benessere aveva condotto alla concessione delle diverse rivendicazioni salariali agli operai, riflettendo in tal modo il disegno progressista della parte «più lungimirante del capitale italiano», che puntava ad allineare quella più retrograda per realizzare quella modernizzazione del sistema capitalistico che il mondo occidentale aveva prospettato. Nella fase attuale, osservava Tronti, si verificava una situazione diversa, poiché la congiuntura economica del ’64 obbligava il capitalista collettivo a modificare la recente strategia elaborata negli anni del boom e lo spingeva a rifiutare nettamente le ulteriori richieste operaie sul salario, in quanto soltanto attuando un congelamento salariale si sarebbe verificata la stabilizzazione del sistema economico, che superando la crisi in atto avrebbe potuto avviare nuovamente la pianificazione del processo capitalistico. La visione trontiana era condizionata fortemente dalla staticità delle lotte operaie di questo periodo, che si differenziavano dal rapido susseguirsi dei cicli di lotta degli anni precedenti, i quali avevano convinto gli intellettuali di «Classe operaia» dell’urgenza di costruire un’organizzazione di classe in grado di indirizzare la strategia anticapitalistica nelle grandi fabbriche; adesso invece emergeva la prospettiva di orientarsi verso il Pci che si preparava all’XI Congresso elaborando nuove formule, come «partito unico» e «partito in fabbrica», le quali lasciavano auspicare al gruppo militante-redazionale la possibilità, come si espresse Aris Accornerno, di «spostarlo a spaccarlo»[10].

Analizziamo adesso l’ultimo contributo di Raniero Panzieri, pubblicato postumo sul quinto «Quaderno» nell’aprile 1965, perché esso incarna la sua riflessione matura e rappresenta uno spunto innovativo di ricerca per la conoscenza oggettiva della nuova classe operaia, e che appare in netto contrasto con la visione trontiana. All’interno del quinto numero dei «Quaderni rossi» venne pubblicato l’intervento pronunciato da Panzieri al seminario di Torino, svoltosi tra il 12 e il 14 settembre 1964, un mese prima della sua prematura scomparsa, dal titolo Uso socialista dell’inchiesta operaia. Dopo un’attenta critica indirizzata al marxismo dogmatico, il quale tacciava ancora la sociologia di essere una mera scienza borghese, Panzieri precisava che la scienza marxiana invece si conformava essenzialmente come una «sociologia concepita come scienza politica». Panzieri riteneva necessario avviare lo studio sulla classe operaia applicando una metodologia analitica specifica, in quanto per una comprensione realmente esaustiva di questa era indispensabile «un’osservazione scientifica assolutamente a parte»[11]. L’inchiesta diventava il metodo scientifico qualitativamente funzionale per indagare su quei processi agenti sulla nuova forza-lavoro formatasi con gli sviluppi neocapitalistici; in particolare, l’inchiesta a caldo avrebbe permesso di studiare la dialettica conflitto-antagonismo e cioè comprendere scientificamente le esigenze espresse dalla classe operaia sia nel momento di maggior conflitto dualistico sia, e specialmente, nei periodi più statici, per analizzare infine il grado di maturità e di solidarietà della classe nell’opporre un coscienzioso rifiuto al sistema capitalistico, evitando formulazioni avalutative, ovvero ideologicamente condizionate dalla forte combattività operaia espressa in quegli anni e che avevano contribuito a fuorviare le conclusioni teoriche dello studio trontiano. In questi anni di transizione diviene prioritario, secondo Panzieri, riuscire a cogliere sociologicamente il grado di consapevolezza operaia e verificare empiricamente il suo livello di maturità, per constatare la presenza di una lucida coscienza di costituire una reale opposizione al sistema capitalistico, di rappresentarsi elemento in grado di «rivendicare di fronte alla società diseguale una società di eguali»[12].

Avviandomi alle conclusioni, è utile concentrare il discorso sulla discussione critica delle fonti che hanno dedicato l’attenzione alla storica rottura tra Panzieri e Tronti, chiarendo un presupposto che si rivela essere determinante per la lettura delle divergenze in seno alla prima esperienza teorico-politica del neomarxismo italiano. L’assunto fondamentale della divergenza tra i due ruota attorno all’idea che l’uscita del gruppo «romano» e di quello «interventista» è determinata da una scelta strettamente pratico-politica, ma che rinvia, in realtà, a una dissonanza teorica. Secondo l’interpretazione di Dario Lanzardo, la principale dissonanza tra i due emerge soprattutto con la «distinzione che Panzieri opera fra inchiesta a caldo», cioè quando la combattività operaia è espressa maggiormente, e il momento del «riflusso della lotta»[13], vale a dire quando l’inchiesta si propone di analizzare il grado di coscienza della classe nel periodo più statico della contrapposizione tra capitale e lavoro salariato. Nonostante questa lettura fornita da Lanzardo abbia il merito di cogliere l’importanza della metodologia conricercante, sviluppata sin dagli esordi dei «Quaderni rossi» e proseguita da altri intellettuali neomarxisti nei decenni successivi[14], il limite di questa interpretazione consiste nel prendere in considerazione esclusivamente la distinzione panzieriana sul ruolo dell’inchiesta, trascurando invece la principale contrapposizione teorica che emerge dopo i fatti di piazza Statuto. Infatti, come scriveva Sandro Mancini, bisogna indagare la diversa interpretazione di Panzieri e Tronti sul rapporto che intercorre tra il piano della teoria e quello della prassi, ossia analizzare la «differente interpretazione del rapporto tra capitale e classe operaia»[15]. Se Panzieri individua nel modo di produzione capitalistico una contraddizione in essere, laddove il «capitale e la classe operaia costituiscono i termini antagonistici»[16], Tronti approda a una lettura innovativa del ruolo della classe operaia, concependola come il «motore mobile del capitale». Il filosofo romano afferma che è lo sviluppo della classe operaia a determinare quello del capitale, compiendo una sorta di «parricidio di Marx»[17], secondo la definizione di Cristina Corradi, perché individuando la «strategia nella classe operaia» e la «tattica nel partito» Tronti si distacca nettamente dalla distinzione marxiana – e lukacsiana – tra «classe in sé e classe per sé»[18]. La principale critica che viene rivolta a Tronti, sulle tracce di quella elaborata da Panzieri, si basa sulla cosiddetta idealizzazione del livello di sviluppo oggettivo della classe operaia, che lo conduce a «scambiare sconfitte per vittorie», mentre quella rivolta a Panzieri parrebbe fondarsi sulla sua presunta ambiguità. Infatti, la convergente critica manciniana e negriana riconosce questa contraddittorietà nell’ultimo Panzieri, il quale nonostante sviluppi notevolmente l’analisi sull’evoluzione del modo di produzione neocapitalistico, non riesce tuttavia ad assegnare una funzione specifica alla classe operaia «nelle categorie della critica dell’economia politica»[19], la quale viene concepita essenzialmente come capitale variabile «sia sul piano del processo di valorizzazione complessiva che si svolge all’interno dell’intera società, sia sul piano di una connessione complessiva sociale del lavoro produttivo»[20], tralasciando con ciò la portata rivoluzionaria del soggettivismo di classe nella fase storicamente determinata del «miracolo economico» italiano. Roberta Tomassini afferma, invece, che questa sua «ambiguità» rifletterebbe la «ricchezza critica e problematica con cui soltanto Panzieri, agli inizi degli anni Sessanta, è in grado di articolare il problema dell’organizzazione senza rifugiarsi nei modelli tradizionali»[21]. La lettura di Tomassini rispetto alle riflessioni dell’ultimo Panzieri si basa sulla considerazione che il «piano del capitale» si impone come una «fenomenologia dell’integrazione dei bisogni operai nei bisogni dello sviluppo delle forze produttive». Pertanto, dal rifiuto soggettivo al lavoro oggettivato non può discernere direttamente la strategia autonoma della classe operaia, dedotta meramente dalla sua non disponibilità alla produzione, bensì la «ricomposizione politica della classe operaia» si costituisce sulla «qualità socialista delle proprie rivendicazioni», la quale deve rispecchiare una «tattica adeguata contro l’ideologizzazione dei bisogni operai nella programmazione capitalistica»[22].

Eppure, la divergenza che coinvolge il piano della teoria, ossia il rapporto tra il capitale e la classe, è strettamente connessa con le diverse prospettive strategico-politiche affermatesi nella contrapposizione dei «Quaderni rossi». Panzieri è convinto della necessità di sviluppare delle rivendicazioni di carattere socialista nei luoghi della produzione, vale a dire avviare una contro-pianificazione operaia con una prospettiva di potere gestionale, evitando in questo modo di far sussumere il capitale variabile nel capitale costante, anche durante i cicli di lotta più dinamici. La rivoluzione copernicana di Tronti, invece, offriva certamente un’ossatura ideologica più solida per il proseguimento del lavoro operaista, soprattutto col sopraggiungere dell’ingabbiamento contrattuale, del consolidamento del centro-sinistra e del riflusso delle lotte operaie. Panzieri rifiutava sia l’impostazione teorica trontiana e sia, fortemente connesso, la possibilità di rompere con le organizzazioni tradizionali, con il rischio di frazionare ulteriormente la situazione del movimento operaio. È dunque vero che Panzieri non propone un’alternativa politica concreta, ma solamente perché non sussistevano vie d’uscita all’impasse del 1962-63, probabilmente per una determinata immaturità dei tempi: non era possibile né coinvolgere il sindacato di classe in una strategia anticapitalistica, né era possibile rompere con le organizzazioni storiche del proletariato italiano.

Abbiamo già detto che la principale affinità che riunisce Panzieri e Tronti nell’atto della fondazione dei «Quaderni rossi» era la consapevolezza di aver scoperto uno spazio politico non mediato tra il capitale e la nuova classe operaia nei primi anni Sessanta. Soprattutto, questa era la constatazione di Panzieri a partire dagli anni che immediatamente successero alla crisi dello stalinismo. Le organizzazioni storiche del movimento operaio avevano dunque lasciato uno spazio politico scoperto nella dialettica capitale-classe, quindi la principale necessità risultava essere una rielaborazione teorica funzionale alla comprensione delle nuove contraddizioni del neocapitalismo e una strategia politica confacente agli sviluppi della società industriale di questi anni. In effetti, i «Quaderni rossi» hanno assunto tale compito, avendo realmente fornito una lettura neomarxiana dell’introduzione della tecnica e della scienza nel processo produttivo, della fagocitazione del lavoro vivo nella complessità dei mezzi di produzione automatizzatisi e della connessione complessiva tra il piano della produzione diretta e quello della circolazione. Tuttavia, dopo piazza Statuto le divergenze teoriche e politiche determinarono la rottura della redazione. Certamente, non poteva spettare a un gruppo minoritario di intellettuali e militanti l’iniziativa di avviare una strategia diversa, bensì toccava all’organizzazione proletaria, al sindacato della Cgil applicare diversamente le parole d’ordine degli ultimi esiti congressuali, ruotanti attorno al «ritorno alla fabbrica»; spettava sempre al sindacato svincolarsi dall’opprimente ruolo col partito di «cinghia di trasmissione», coinvolgendo piuttosto questo in una prospettiva politica non riformista, dal momento che il sindacato non poteva assolvere la duplice funzione di opposizione in fabbrica e di costruzione politico-strategica. Tutto questo non si concretizzò e Panzieri morì improvvisamente nell’ottobre 1964, all’età di soli quarantatré anni, lasciando in sospeso l’ultima riflessione teorica sulla pianificazione capitalistica e sullo studio dei comportamenti operai, ma lasciando altresì un vuoto concernente la prospettiva politica. Tronti, Asor Rosa, Cacciari, Negri, Alquati, Gasparotto, Gobbi e altri proseguirono il lavoro teorico e politico con la fondazione di «Classe operaia», focalizzando principalmente il discorso sulla questione dell’organizzazione e fornendo un’importante produzione critica, che si pone, contemporaneamente, in termini di continuità e rottura con il lavoro precedente dei «Quaderni rossi».

È difficile collocare in un ambito specifico Panzieri, soprattutto per la sua prematura scomparsa, ma è altrettanto complesso definire il ruolo teorico e politico di Tronti, nonostante è nota la sua manovra all’entrismo nel Partito comunista nel periodo in cui venne annunciata la fine dei lavori di «Classe operaia». Sicuramente entrambi hanno contribuito allo sviluppo della teoria marxiana negli anni nuovi del capitalismo occidentale, fornendo una lettura della fabbrica scientifica e della società opulenta che andava affermandosi scevra dal dogmatismo in auge nel marxismo italiano, conformandosi come le coordinate del cosiddetto Italian Thought. Se è vero che «le affinità incominciano a essere interessanti nel momento in cui producono delle separazioni», concludiamo questo contributo riportando la dedica che «Classe operaia» rivolse a Panzieri, poiché da essa traspare la sincera disponibilità a trasformare lo stato di cose dell’Italia del boom, necessità che aveva riunito due intellettuali piuttosto diversi negli anni precedenti, i quali rincorsero «a passi successivi, per prova ed errore, l’orizzonte della libertà comunista»[23].


i limiti dell’uomo ci sembrano ora meno gravi di fronte a questa constatazione: tra i mille dirigenti “riusciti” del movimento organizzato, uno solo seppe scientemente scegliere la strada della sua sconfitta, perché questa portava verso la classe operaia[24].



Note [1] G. Trotta – F. Milana, L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», DeriveApprodi, Roma, 2008, p. 128. [2] Ivi, pp. 131-132. [3] Ivi, p. 300. [4] Ivi, p. 290. [5] Ivi, p. 312. [6] R. Panzieri, Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del Capitale, «Quaderni rossi», n. 4, Milano 1971, p. 253. [7] M. Tronti, Lenin in Inghilterra, in Operai e capitale, DeriveApprodi, Roma 2013 (I ed. 2006), p. 87. [8] M. Tronti, 1905 in Italia, in Operai e capitale, cit., p. 106. [9] M. Tronti, Classe e partito, in Operai e capitale, cit., p. 117. [10]VII. «Il Partito in fabbrica!» (settembre 1964 – gennaio 1966), in L’operaismo degli anni Sessanta, cit., p. 430. [11] R. Panzieri, Uso socialista dell’inchiesta operaia (dal seminario tenutosi a Torino, 12-14 settembre 1964), in «Quaderni rossi» n. 5, Milano, 1970, p. 70. [12] Ivi, p. 76. [13] D. Lanzardo, Appunti per una riconsiderazione del rapporto teoria-politica in Panzieri, «aut aut», n. 149-150, 1975, p. 48. [14] Si pensi a Romano Alquati, il quale ha continuato a condurre inchieste e studi conricercanti anche nei decenni successivi. [15] S. Mancini, Due puntualizzazioni sull’interpretazione di Panzieri, «aut aut», n. 149/150, 1975, p. 206 [16] Ivi, p. 208 [17] C. Corradi, Storia dei marxismi in Italia, manifestolibri, Roma 2011, p. 164. [18] S. Mancini, Due puntualizzazioni sull’interpretazione di Panzieri, cit., p. 212. [19] Ivi, p. 207. [20] A. Negri, Ambiguità di Panzieri?, «aut aut», n. 149/150, 1975, p. 146. [21] R. Tomassini, La ricomposizione di classe come nuovo partito operaio in Raniero Panzieri, «aut aut», n. 149-150, 1975, p. 54. [22] Ivi, p. 64. [23] M. Tronti, Noi operaisti, Introduzione in L’operaismo degli anni Sessanta, cit., p. 12. [24] G. Trotta – F. Milana, L’operaismo degli anni Sessanta, cit., p. 431.


Immagine: da «Classe operaia» n. 1, febbraio 1964


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Marco Cerotto, si è laureato in Scienze storiche all’Università Federico II di Napoli. Si occupa del rapporto critico tra l’operaismo italiano e la Neue Marx-Lektüre.

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