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Una questione di banda. Intervista a Sol Yurick



Di recente la Cineteca di Bologna ha restaurato I guerrieri della notte, film che narra il mondo delle gang newyorkesi, uscito nelle sale nel 1979 e diventato nel giro di poco tempo un vero e proprio cult. L’autore del romanzo da cui il film è tratto è Sol Yurick, straordinaria figura di scrittore rivoluzionario, scomparso nella sua New York il 5 gennaio di dieci anni fa. Proponiamo qui un materiale unico per comprendere il percorso dell’autore di The Warriors: l’intervista realizzata da Anna Curcio e Gigi Roggero, originariamente pubblicata su «il manifesto» l’11 luglio 2010, introdotta dal loro articolo di ricordo, pubblicato sul medesimo giornale all’indomani della sua morte. Questo materiale può essere utile per comprendere le trasformazioni attraverso i decenni, in particolare tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, dell’economia politica delle gang.


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«Vi siete contati? Io vi dico che il futuro è nostro, se voi riuscite a contarvi. Ci sono 60.000 soldati delle gang e solo 20.000 elmetti: tutti noi uniti possiamo controllare la città. Possiamo distruggere la criminalità organizzata, quella del potere. Sono gli uomini al potere che ci hanno spinti l’uno contro l’altro. Ci impadroniremo di un quartiere per volta, perché la città è nostra e noi la vogliamo». È il famoso discorso di Cyrus, all’inizio de I guerrieri della notte. Come capita a molti film, anche questo è tratto da un libro, un grande libro: The Warriors. E come altrettanto spesso accade, film e romanzo sono cose differenti, tanto da aver fatto pensare all’autore che la traduzione cinematografica avesse ben poco a che vedere con il suo libro, in cui la realtà delle gang è narrata nella sua crudezza materiale, senza spazio per edulcorazione e romanticismo. L’autore del romanzo è Sol Yurick, morto il 5 gennaio 2013. La città di cui Cyrus parla, quella dei guerrieri, è New York, il luogo della scena è il Bronx, dove Sol è nato nel 1925 da una famiglia ebrea della working class. Il padre era immigrato negli Stati Uniti per tentare di sfuggire all’alternativa tra la persecuzione e il diventare un colono in Palestina. Era comunista, Sol lo sarebbe diventato più tardi, dopo un periodo in cui il patto Ribbentrop-Molotov lo aveva allontanato dalla politica. Inizia a scrivere al college, dove era riuscito a entrare attraverso il programma governativo che garantiva l’istruzione ai figli dei veterani di guerra. Nel frattempo, siamo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, Sol lavora per il dipartimento del welfare di New York: «qui ho conosciuto figure proletarie diverse da quelle con cui sono cresciuto, senza la capacità di organizzarsi per lottare. Ho così scoperto le gang, come forma selvaggia di ribellione», ha raccontato in un’intervista uscita su queste pagine l’11 luglio del 2010. Ed è qui che matura l’idea di The Warriors (il suo primo romanzo pubblicato, nel 1965, quattordici anni prima del film): l’Anabasi di Senofonte viene trasportata a New York, i diecimila mercenari greci che danno vita a quella che «si potrebbe definire una rivoluzione» si trasformano nei guerrieri delle gang. Per realizzarlo Sol vive a contatto con i giovani delle bande, fa meticolosamente inchiesta, affitta addirittura un furgone con dei buchi sulla fiancata per osservarli nei loro comportamenti. Non consegna nulla all’irreale: per raccontare nei dettagli la fuga di uno dei guerrieri nelle gallerie della metropolitana, compie lui stesso il percorso e annota i tempi. Contro sociologi e accademici impegnati a denunciare la delinquenza giovanile, Sol racconta la complessità delle gang e ne rintraccia le basi materiali, non ne tace i lati oscuri ma è attento a coglierne le potenzialità sovversive. Del resto come in tutti gli altri suoi scritti, il punto di vista di classe è centrale: «non ero marxista all’epoca, ma pensavo di essere rivoluzionario». Negli anni successivi Sol si impegna nei movimenti contro la guerra e prende parte all’esperienza dello «Student for a Democratic Society». Alla fine degli anni Settanta partecipa ai comitati internazionali contro la repressione in Italia, portata avanti da un Partito comunista fedele a quella matrice staliniana responsabile del suo temporaneo allontanamento dall’attività politica. Dopo I guerrieri della notte («non è il miglior libro che ho scritto»), pubblica altri romanzi: da Fertig (scritto tempo prima, ma rifiutato per 27 volte) a The Bag (Nel sacco, insieme a The Warriors, è l’altro libro tradotto in italiano), fino ad arrivare all’ultimo, The Confession, uscito nel 1999. A partire dagli anni Ottanta il suo lavoro si concentra sul linguaggio e sui sistemi simbolici, anticipando molti temi che saranno centrali nelle trasformazioni produttive e nella contemporanea crisi del capitalismo. Quando lo abbiamo intervistato, all’età di 85 anni, colpivano la lucidità, la determinazione, la curiosità. Ci ha parlato – pacato e divertito – di un’autobiografia che stava scrivendo da anni, e che resta inedita. Ciao Sol, ci mancherai guerriero della libertà.


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Sol Yurick è uno scrittore di parte. E la parte si produce nella rottura, nella scissione, nel rifiuto che costituisce nuova soggettività. Come il padre, ebreo che ha rifiutato di fare il colono in Palestina e ha trovato la sua terra promessa andando negli Stati Uniti: non realizzando l’American dream, ma diventando comunista. E quando, dopo il 7 aprile del ’79, si trattava di schierarsi Sol non ha avuto dubbi, impegnandosi attivamente nei comitati internazionali contro la repressione dell’Autonomia in Italia. Così, incontrandolo nella sua casa di Brooklyn, la conversazione non poteva che partire dalla sua biografia di scrittore militante.

«Sono cresciuto in una famiglia ebrea e comunista. Volevo diventare uno scienziato, ma non avevo risorse; così mi sono arruolato nell’esercito nel ’44 e poi, con il GI Bill [che garantiva l’istruzione superiore ai veterani di guerra], sono andato al college. Ho scoperto un talento di scrittore, e contemporaneamente lavoravo per il dipartimento del welfare a New York: qui ho conosciuto figure proletarie diverse da quelle con cui sono cresciuto, senza la capacità di organizzarsi per lottare. Ho così scoperto le gang, come forma selvaggia di ribellione.

Influenzato dalla sociologia, da Weber e Durkheim, avevo scritto Fertig, romanzo rifiutato una trentina di volte e pubblicato solo dopo l’uscita di The Warriors. Un editor dei “Guerrieri” mi disse che il leader di una gang non poteva parlare come un marxista: non capivo di cosa parlasse! Ma a sorpresa il libro ricevette ottime recensioni e fui pagato 2.500 dollari: per me, mia moglie Adrienne e mia figlia appena nata era una grande cifra, potevo continuare a scrivere».


In quel periodo faceva parte di qualche esperienza politica?


«Ho cominciato a fare attività politica nel ’66. Ci fu una grossa rottura in una delle grandi organizzazioni nere, lo Sncc (Student Nonviolent Coordinating Committee), che cacciò i sostenitori bianchi. Io auspicavo una soluzione, perché sono cresciuto con il principio che come comunista non devi fare distinzioni razziali, ognuno può essere compagno, altri sono cresciuti con il jazz e lo swing. Ma c’era un certo romanticismo dei ragazzi della middle class bianca. Durante il Sessantotto alla Columbia University scrissi il pamphlet Who Rules Columbia? La questione era: perché l’impero ha bisogno della letteratura? Perché devono selezionare con attenzione il passato culturale. È stato efficace, visto che assunsero un procuratore generale per scrivere una risposta. Questi ragazzi scoprivano Marx e io cominciai a leggerlo. Così, con The Bag mi posi il problema di come doveva essere un romanzo marxista, come misurarmi con una trasformazione consapevole e neutralizzare le vecchie forme. Per dirla chiaramente: come manipolare le coscienze senza dare l’impressione di farlo. Perché la letteratura è molto potente, tocca le emozioni».


Nel frattempo The Warriors stava diventando un film, in Italia tradotto I guerrieri della notte: in poco tempo un vero e proprio cult…


«Sono stato contattato da un film-maker indipendente, entusiasta ma senza soldi. Poi è arrivata Paramount: ho accettato perché avevo bisogno di denaro per me e per Adrienne, ceramista che campava facendo l’insegnante. Pensavo che il film sarebbe stato orribile: conoscevo una screenwriter, doveva produrre indipendentemente da quello che pensava. Insomma, non avevo illusioni, ma mia figlia sosteneva che i ragazzi lo avrebbero amato. Il giorno della prima c’era la fila, migliaia di ragazzi andavano a vederlo, ci furono scontri sanguinosi in Kansas. Non ero sorpreso: conosco il rapporto tra illusione e realtà, e la vita è molto più surreale di qualsiasi cosa si possa scrivere o immaginare.

Nel libro c’è una componente di classe: non ero marxista all’epoca, ma pensavo di essere rivoluzionario. La storia è ambientata il 4 luglio, con un’organizzazione che non è quella del film: il crimine è la sua dimensione per sopravvivere. Dopo tutto, Chang Kai-shek ha usato le bande, e anche Mao ha utilizzato i livelli bassi della criminalità contadina. Ho tratto ispirazione dalla rivolta di Lucifero in Milton e da un romanzo cinese su comportamenti, linguaggi e violenza delle gang. Poi c’è l’uso dell’amata Anabasi di Senofonte, con i mercenari greci che lottano nell’area dell’attuale Iraq».


Vuol dire che nel film la realtà delle gang é edulcorata?


«Se il film fosse stato fatto dal regista indipendente sarebbe stato più fedele, ma con meno successo. Nelle gang che ho descritto non c’erano bianchi, la dimensione razziale era centrale, mentre il regista ha immediatamente reso il protagonista bianco. Nel film le gang sono miste, cosa che non esisteva. Nel libro c’è una struttura elaborata di come le gang si mettono insieme, nel film dura pochi secondi. Insomma, ci sono cose che il film fa che il libro non può fare: semplicemente sono forme differenti. C’è poi una finalità sentimentale da parte del regista…».


C’è insomma una romanticizzazione delle gang?


«Sicuramente la violenza nel libro è molto maggiore, e viene rappresentata la sua gratuità. Ci sono in particolare due scene assenti dal film in cui la gang protagonista, i Dominatori di Coney Island, uccide un uomo e stuprano. Nel secondo dopoguerra l’idea dell’uccisione casuale veniva definita irrazionale o psicotica, ma non è così, ha a che fare con altre dinamiche ricorrenti nella storia e nel tempo».


Pensa che il suo romanzo possa essere utile per comprendere la realtà delle gang oggi?


«Oggi sono maggiormente centrate sull’aspetto economico, in particolare sulla droga, ma hanno una struttura simile: ci sono i ranghi, una gerarchia e un leader che gestisce soldi, donne e fama. Le loro strutture sono molto complesse, è una sorta di iconografia: bisogna guardare all’organizzazione, alla cooperazione e al modo in cui concretamente funzionano, a come costruiscono una cultura o subcultura, e agli aspetti finanziari. A un certo livello di successo si produce una sorta di stasi. Si pensi alla cultura del computer negli anni Sessanta: l’idea era che ognuno potesse lavorare maneggiando dati intellettuali a casa propria, ma ciò che mi colpiva era l’importanza della cooperazione e dell’interrelazione personale, di cui nessuno può fare a meno».


Il libro è uscito negli anni Sessanta e il film nei Settanta: cosa è cambiato nelle gang ma soprattutto nella dimensione politica e sociale in questo periodo?


«I cambiamenti sono stati portati in primo luogo dal movimento nero, supportato da molti bianchi, liberal ma anche della seconda o terza generazione di comunisti. Le gang hanno spesso assunto le questioni del lavoro per la black community o la resistenza all’oppressione. Prima le gang irlandesi, ebree o italiane (le più violente) reclutavano nel quartiere sulla base della forza, iniziando con la protezione e l’estorsione. La versione più avanzata della mafia si è formata dopo l’unità d’Italia, come resistenza all’espropriazione delle terre e come protezione. Anche le gang ispaniche o nere si sono sviluppate così. La droga ha iniziato ad avere una grossa importanza a partire dalla guerra in Vietnam, con il grande ruolo della Cia nel far circolare l’eroina. Sta succedendo una cosa simile in Afganistan (il fratello di Karzai é coinvolto in affari di droga).

Il punto è che la struttura sociale è rimasta la stessa, con una lotta di potere tra un modello centralizzato e le periferie: le gang sono un’altra forma del pervasivo feudalesimo – in quanto frammentazione – che si rifiuta di sparire. Si pensi alla resistenza delle province nell’unificazione della Spagna, oppure al periodo dei tre regni in Cina. Non intendo il termine periferia in senso strettamente geografico, la periferia può essere nel centro: parti di New York sono Terzo mondo, e viceversa».


Qual è il rapporto tra le trasformazioni delle gang e delle forme di produzione?


«Negli anni Quaranta e Cinquanta erano strutturalmente differenti, lottavano innanzitutto per mantenere la propria identità, non producevano nulla. Sono da sempre orientate ai soldi, ma negli anni Sessanta i loro prodotti sono diventati droga, intrattenimento e sesso: quando hanno cominciato a circolare ad ampio raggio marijuana ed eroina (proveniente dal “triangolo d’oro” del sud-est asiatico) i veri lavoratori sono a questo punto i drogati, che devono lavorare per mantenere le proprie abitudini. Sono loro i produttori della ricchezza che si genera nelle gang».


A partire dagli anni Ottanta il suo lavoro si è concentrato sui sistemi simbolici e sul linguaggio, temi centrali nelle trasformazioni del capitalismo contemporaneo e nella crisi globale…


«Ogni crisi economica moderna ha a che fare con la manipolazione simbolica. Si pensi alla crisi dei tulipani olandesi, alla bolla dei Mari del Sud, a quella del Mississippi. Negli Stati Uniti la prima grande depressione ha avuto luogo tra il 1873 e il 1898 per il collasso dei mercati finanziari a Vienna, il fallimento delle garanzie per il sistema ferroviario, la sovrapproduzione nell’agricoltura. Nel 1929 avevo quattro anni: sono cresciuto nella depressione, ci spostavamo con l’incubo della fame e di finire per strada, mia madre doveva contrattare per pagare l’affitto. Mio padre era un militante comunista, senza un titolo di studio ma di grande intelligenza: era un combattente, qualche volta tornava a casa dopo aver fatto a botte o essere stato picchiato dalla polizia.

Oggi il derivato è descritto come uno strumento finanziario che sottende il valore, ma qual è il valore sotteso laddove esso è cambiato dai simboli? Lenin diceva che il grano è il capitale di tutti i capitalisti, ed è vero, ma il modo in cui il valore cambia dipende da come è manipolato. Future, bond, stock o derivati hanno un certo valore, ma il valore stesso diventa un’attività metafisica».


Viene meno la distinzione tra economia finanziaria ed economia reale…


«Esatto, e in un certo senso è sempre stato così. L’afflusso del new world gold in Europa ha determinato un’inflazione dei prezzi dei prodotti agricoli, connessa con la sollevazione dei contadini in Germania nel XVI secolo. L’oro e l’argento dal Messico e dal Perù andarono ai banchieri genovesi e tedeschi a causa del debito accumulato dagli spagnoli. Questo processo astratto ha raggiunto un livello straordinario: gli schemi di fisici, matematici e addetti alla finanza sono metafisici. Per quanto separato, è però immediatamente connesso alle forme di vita: le decisioni del Fondo monetario internazionale determinano licenziamenti e bassi salari».


Come riscriverebbe The Warriors oggi?


«Lo situerei in Iraq. Il punto centrale del libro è la vittoria finale del feudalesimo, nel film invece c’è la speranza. Ricordo che dopo la sparatoria alla Kent State University nel maggio del 1970 ci fu una grande sollevazione e un mio amico mi telefonò dalla California: “Sol, l’intero sistema della formazione sta scendendo in sciopero, la rivoluzione è vicina. Cosa succede a New York?”. Niente, risposi. I comunisti hanno costruito una cultura politica, la reazione è stata molto forte, ora dobbiamo ripartire da una situazione completamente diversa: leggendo Marx bisogna approfondire il sistema dei simboli. Si tratta di una questione assolutamente materiale, è la riproduzione della ricchezza».

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