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Nella cornice del progetto sui «decenni smarriti», proseguiamo la pubblicazione di alcune voci del Lessico postfordista (Feltrinelli, 2001), perché in quel volume è raccolta una parte importante dei concetti e delle ipotesi teoriche con cui si è tentato di leggere la lunga transizione degli anni Ottanta e Novanta. Oggi pubblichiamo il lemma «Tecnica», a cui seguirà la prossima settimana la voce «Tempo ed esperienza», entrambe scritte da Ubaldo Fadini e qui riproposte con un’introduzione dell’autore.


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«Tecnica», «Tempo ed esperienza» sono delle «voci» del Lessico postfordista che indubbiamente svolgono una funzione importante – ovviamente in collegamento con le altre e in particolare con quelle dedicate al «Corpo» e al «Cyborg» – laddove si tenti un’operazione rischiosa, cioè di analizzare con attenzione le connessioni tra saperi e circuiti della produzione, le articolazioni del multiforme cooperare linguistico complessivo, anche sotto la veste del reticolato informatico, delle società cosiddette postfordiste.

Allora sembrò importante dare consistenza teorica e politica a quelle tradizioni di pensiero novecentesco, non esclusivamente di carattere «critico», che nel loro sviluppo a volte convulso avvertirono l’urgenza del fare i conti con un divenire sempre più serrato/stringente del rapporto tra l’essere umano (compreso in primo luogo come un complesso di emergenze di diversa «natura») e le principali tendenze tecno-economiche del tempo, afferrate soprattutto a partire dagli impatti sul vivere quotidiano provocati dallo stesso progredire tecnologico, rapido/accelerato.

È anche in tale direzione che si dispiegano le riprese, tra l’altro, di alcuni dei percorsi dell’antropologia filosofica moderna, della «Teoria critica», di aspetti fondamentali del marxismo autonomo della seconda metà del secolo scorso (affiancate da un occhio di riguardo per tutto ciò che consente – su un piano scientifico, sociologico, politico – di affrontare la «policrisi» comunque raffigurata nel prefisso «post» di nostro interesse all’interno del volume in questione). E in effetti l’idea soggiacente a quelle pagine è in definitiva di delineare una antropologia di segno «macchinico», in grado di affrontare per alcuni versi elementi/fenomeni peculiari della metamorfosi biologica e di quella tecno-informatica che riguarda sempre più soggetti profondamente coinvolti nelle meccaniche della valorizzazione del capitale al livello di assetti specifici della loro sensibilità (corporeità) e della loro intelligenza: configurazioni che ne risultano appunto particolarmente segnate (anche nel senso di un loro ridisegno, di una trasformazione profonda dei loro contenuti). In breve e con riferimento oggi ai nuovi modi di relazionarsi dei soggetti con le tecnologie digitali e con i procedimenti degli algoritmi, direi che quelle «voci» ancora ribadiscono come il mutamento delle situazioni, le criticità storiche, possano trovare un «segnalatore», in termini quasi benjaminiani, proprio al livello dei corpi, delle sensibilità e intelligenze singolari capaci di resistenza comune nello sforzo di concretizzare possibilità differenti di corrispondenza non assoggettata tra di loro e «con il mondo»; considerato poi che una questione sempre più fondamentale è proprio quella, per dirla qui con Tim Ingold, di come ritornare a vivere positivamente «nel mondo» attraverso, mi permetto di aggiungere, la realizzazione di comunità istituenti di vita «altra» rispetto a quella specifica del cosiddetto capitalismo digitale o cibernetico. (U.F.)


È opportuno riprendere e muovere da un’affermazione di Arnold Gehlen, secondo il quale «la tecnica è antica quanto l’uomo», essa serve «a vivere e a far morire». A sua volta, Gilbert Simondon ha sostenuto l’importanza di delineare una «cultura tecnica», capace appunto di affrontare la vexata quaestio della integrazione culturale delle tecniche, dello sviluppo delle cosiddette «tecnoscienze», da elaborare sulla base di una conoscenza di prima mano delle tecniche stesse e della loro storia, accompagnata da una intelligenza radicalmente critica del tutto. La convinzione di base è che sia soprattutto attraverso l’insieme delle ricerche e degli sviluppi tecno-scientifici che si può afferrare il senso dei divenire che attraversano la società e lo stesso loro delinearsi. Non si deve smettere di pensare alla coevoluzione dell’uomo e della tecnica – evitando quei «blocchi» e quelle «dissociazioni» che stimolano letture «destinali» dello sviluppo della tecnica, che tanto seguito hanno ancora oggi –, se si vuole tentare di rendere tale coevoluzione «autenticamente vivibile» (G. Hottois).

Considerare la tecnica come una dimensione essenziale dell’umano – ritenere che l’esperienza tecnologica influenzi in una qualche maniera l’evoluzione della costituzione psicofisica dell’uomo – è il motivo ricorrente all’interno dell’antropologia della tecnica più avvertita, anche filosoficamente, degli ultimi decenni. Nel classico L’uomo nell’era della tecnica (1957) di Gehlen, si trova ben delineata la tesi sul carattere fondamentalmente «tecnico» dell’essere umano: nell’agire tecnologico, l’individuo compenserebbe le carenze/mancanze che segnano appunto in negativo il suo elaborato organico-esistenziale. In questo senso, la tecnica, riferita primariamente alla sfera corporea, è distinguibile nelle tecniche di integrazione, che rimpiazzano le capacità non possedute dagli organi; nelle tecniche di intensificazione, che potenziano invece determinate capacità organiche; e nelle tecniche di agevolazione, che alleggeriscono i compiti organici. Così intesa, la tecnica consente di comprendere meglio la sorprendente «multiformità» e «policentricità» dell’uomo, di questo singolare «essere secondo possibilità», per dirla con Robert Musil. È anche vero che la tecnica rappresenta di fatto il modello di identificazione dell’uomo nel tempo presente, imponendo i suoi principi anche nella sfera delle relazioni sociali. A parere di Gehlen, si può addirittura ricavare da una riflessione sull’oggi questo compito: di fronte a uno sviluppo sempre più accelerato della tecnica, che rischia di produrre nell’uomo un «oceano di insicurezza», è necessario trovare una via che soddisfi il bisogno «primo» di un essere tanto «precario», si deve cioè introdurre un progetto etico-politico, di contenimento degli aspetti di trasformazione più radicale del progresso tecnologico.

Rispetto a queste osservazioni è per altro opportuno ricordare i rilievi critici operati da Heinrich Popitz, in Verso una società artificiale (1995), proprio sul nesso tra corporeità e tecnica, il quale tiene insieme un piano di riflessione tecnologica e un piano di riflessione biologica. La tesi di Popitz è che non sia la deficienza organica a richiamare la necessità del rimpiazzo tecnico, bensì la versatilità specifica di un organo, la mano, a favorire lo sviluppo della prima tecnologia, quella degli utensili, che si sarebbe inoltre posta come un «agente della filogenesi umana».

L’«autenticamente vivibile» deve comunque caratterizzare il movimento materiale dell’esistenza umana, della straordinaria capacità di lavoro e di cooperazione propria degli esseri umani, che si segnala anche per la dinamica di trasformazione che concerne il rapporto dell’uomo stesso con la macchina, letteralmente all’opera nel processo di continua modificazione delle condizioni socio-ambientali. Tale rapporto va oggi valutato sulla base dell’estendersi dell’organizzazione del lavoro postfordista, che vede affermarsi soggettività sempre più «trasfigurate» dal vincolo della valorizzazione, dalle nuove forme della produzione del valore. In questa prospettiva è da collocarsi anche il motivo di una possibile capacità autoproduttiva dell’uomo che si confonde sempre più – con il suo carattere sottilmente artificiale – con un orizzonte «naturale» e «storico» disegnato proprio dalle «protesi» tecnologiche delle potenze produttive tra loro associate. L’idea è appunto quella di una soggettività che si pone alla base dello sviluppo della tecnica (in termini «moderni») e che oggi viene in una qualche misura metamorfosata, mutata, in virtù della potenza che la contraddistingue, da un ambiente di vita, da una Umwelt, in grado di esibire con pienezza la sua sofisticata artificialità.

Non si deve dimenticare una delle intuizioni più importanti di Felix Guattari, il quale coglie nelle odierne «macchine» della comunicazione e dell’informazione l’espressione di certi aspetti della soggettività, in forme «ipersviluppate» e «iperconcentrate»: ciò vuol dire che queste particolari «macchine» non si limitano a riprodurre elementi del corredo sensoriale e componenti del complesso delle facoltà dell’essere umano, ma ripropongono le condizioni e i rapporti sociali che ne consentono la realizzazione e l’esercizio. In quest’ottica si dà la possibilità di leggere in maniera non scontata lo sviluppo delle tecnologie, individuando in esse non soltanto un processo di «esteriorizzazione» di caratteri soggettivi (alla maniera di Marshall McLuhan, cioè come «protesi» di sensi, organi, facoltà dell’uomo), ma anche uno svolgimento produttivo che rivela una più generale capacità di agire da parte di corpi che si articolano nel tempo e per mezzo del tempo [1]. Rispetto alle macchine informatiche e della comunicazione, che disegnano gran parte dello scenario dell’esistenza contemporanea nei paesi occidentali, l’intuizione di Guattari ha anche il merito di mettere in intima relazione il processo di deterritorializzazione capitalista, le forme presenti dell’accumulazione di capitale, con il concretizzarsi dei nuovi dispositivi tecnologici, ponendo anzi il primo a fondamento dell’ideazione e della realizzazione dei secondi.

A questo punto, possono essere richiamate e riprese alcune riflessioni di Oskar Negt che toccano alcune pagine celebri dei Grundrisse marxiani [2]. Negt commenta Marx in una prospettiva che vede il passaggio da un tipo di lavoratore – l’operaio industriale del XIX secolo definito «dal tempo di esaurimento dei suoi muscoli, del suo cervello e dei suoi nervi» nell’opera di trasformazione dei materiali in prodotti – a un altro «che regola i processi di produzione» e non appare più limitato a una particolare destrezza da impiegare, a una qualche abilità o, più semplicemente, alla forza fisica di cui dispone. Tutto questo è ormai inglobato «in un patrimonio di sensibilità tecnica e organizzativa» riferibile al complesso dei processi produttivi e alla situazione generale. La funzione di regolazione e di sorveglianza esercitata dal lavoro vivo è individuabile nella tendenza alla sua generalizzazione in gran parte dei settori produttivi, laddove soprattutto incidono i sistemi microelettronici di comunicazione e la tecnologia dei computer. Questi ultimi vanno considerati come oggettivazioni dello stesso lavoro vivo, «sotto forma di scienza viva applicata e fantasie operative tecnico-pratiche». Queste oggettivazioni, sperimentate appunto tecnicamente, sono l’espressione, al di là dello «strapotere del lavoro morto» (ma non bisogna «dimenticare che, in ultima istanza, il lavoro morto proviene dal lavoro vivo»), dei «potenziali creativi del lavoro vivo».

Lo studioso tedesco giunge dunque a considerare «le industrie nucleari, la microelettronica, tutto il settore delle tecnologie di comunicazione», non come semplici sviluppi delle «macchine» del secolo scorso e neppure come dei «complementi o prolungamenti degli esseri umani», tali da consentire una riconduzione della tecnica, avvertita come un qualcosa di «estraneo», all’uomo, bensì come delle vere e proprie «nuove tecnologie». È in quest’ottica che viene fatta rivivere l’intuizione marxiana che vede la possibile trasformazione dell’insieme del capitale fisso in qualcosa che è «contrario» al dominio del lavoro morto, vale a dire nella «produzione di soggettività», nella piena soggettivazione del lavoro, che è leggibile nel posizionarsi del concetto di forza-lavoro a livello del general intellect di Marx.

Le nuove tecnologie – soprattutto sul piano dei mezzi di comunicazione (il processo complessivo di evoluzione delle telecomunicazioni, dell’informatica, della stampa, dell’editoria, della televisione, del cinema: cioè le strutture di comunicazione, di cooperazione, che supportano l’affermarsi di una cultura di rete, con le sue straordinarie potenzialità) – sembrano in ogni caso poter contribuire alla realizzazione di una sorta di «mutazione antropologica», di trasformazione radicale dell’assetto psicofisico dell’umano. In questo senso, possono essere richiamate le analisi di Pierre Lévy, che delinea la tesi che l’evoluzione dei mezzi di informazione/comunicazione produrrà appunto una nuova Umwelt di comunicazione-lavoro-pensiero, contrassegnata dalla accelerazione del processo tecnologico, da cambiamenti di fondo per ciò che concerne le determinazioni del legame sociale, le modalità di convivenza tra gli uomini. Da un punto di vista «antropologico», anche Lévy coglie l’emergere oggi di un nuovo spazio di significazione, quello «del sapere e dell’intelligenza collettivi», che indica come lo stesso potere del capitale, la rete economica e le potenze territoriali dipendano sempre più dalla rapidità dell’apprendimento e dalla forza dell’immaginazione degli esseri umani. Il sapere ha una sua collocazione essenziale all’interno degli spazi antropologici, di significazione, tracciati dall’umanità nel corso della sua storia, ma ovviamente in modi particolari e differenti: il nuovo orizzonte di significazione della nostra civiltà è qualificato da Lévy come «spazio del sapere» (che certo meriterebbe un supplemento d’indagine attraverso un accostamento con il più concreto «sapere sociale applicato»), in quanto fornisce una triplice novità concernente la velocità di crescita dei saperi (stimolata dall’evoluzione delle scienze e delle tecniche), la moltitudine chiamata ad apprendere (nel momento in cui si può dire che sia l’insieme del collettivo umano a essere chiamato a imparare e a inventare per sostenere l’impatto con un «mondo» sempre più turbinoso e inquietante), la realizzazione di strumenti (come il cyberspazio, in grado di delineare paesaggi e figure storico-sociali almeno parzialmente inediti). È interessante il singolare «comunismo dell’intelligenza» sostenuto da Lévy, la convinzione che la fonte di ogni ricchezza sia individuabile nelle «conoscenze vive», nel «saper fare», nelle competenze variegate degli esseri umani e che l’utilizzo socialmente più avanzato dei nuovi strumenti di comunicazione consista nello stimolare e favorire una messa in comune delle forze mentali in vista della formazione di «intellettuali collettivi» sempre più sofisticati: lo sviluppo della tecnica, a livello «molecolare» (per quanto riguarda gli ambiti del controllo della vita, della materia e della informazione: caratterizzati dall’affermazione di tecniche ultrarapide e precisissime, capaci di agire «sui propri oggetti a livello di microstrutture», contraddistinte da un movimento verso la «finezza»), può portare alla formazione di una complessa «infrastruttura tecnica del cervello collettivo o dell’ipercorteccia delle comunità viventi». In quest’ottica, il ruolo delle tecniche consisterebbe non tanto nel «rimpiazzare l’uomo» o nel promuovere il protagonismo di una intelligenza compiutamente artificializzata, ma nel sostenere attivamente i propositi di costruzione di «collettivi intelligenti», di soggettività autonome capaci di sviluppare e ampliare reciprocamente le loro potenzialità sociali e cognitive, in un senso che richiama l’idea marxiana secondo cui l’attore principale della produzione è ormai il «sapere sociale generale» (sotto forma di attività scientifica e di messa in rapporto delle attività sociali).



Note [1] M. Lazzarato, Lavoro immateriale. Forme di vita e produzione di soggettività, ombre corte, Verona 1997. [2] O. Negt, Tempo e lavoro, Edizioni Lavoro, Roma 1988.



Immagine: Arcangelo, Monitipi, 2003.



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Ubaldo Fadini insegna Filosofia morale presso l’Università di Firenze. Fa parte dei comitati di redazione e dei comitati scientifici di numerose riviste, tra cui «Aisthesis», «Iride», «Millepiani», «Officine filosofiche». Tra i suoi lavori più recenti: Velocità e attesa (2020), Attraverso Deleuze (2021), Eterotopie dell’umano (2022).


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