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Storia di un amore. Recensione a «Com’eri bella, classe operaia» di Romolo Gobbi



Una recensione di Mimmo Sersante a Com’eri bella, classe operaia (DeriveApprodi, 2023) di Romolo Gobbi.


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Com’eri bella, classe operaia[1]. È il come che più intriga di questo titolo che poi è a tutti gli effetti una dichiarazione d’amore che Romolo Gobbi rivolge alla sua classe operaia che non è più. Evidentemente a suo tempo se n’era innamorato per il suo modo di essere e per la sua maniera di stare al mondo: ribelle, sempre, al comando del padrone e in lotta, sempre, per un mondo migliore, come recita la canzone dei primissimi anni Settanta di Vittorio Franceschi da cui il titolo è tratto. E poi quell’eri, a dire del tempo che ha concluso il suo lavoro sul corpo dell’amata di cui però l’amante conserva vivido il ricordo dell’antico, conturbante fascino. Una passione – per restare in tema di canzonette – che mal sopporterebbe l’aleatorietà di quell’amore che vieni, amore che vai del più sdolcinato Fabrizio De André. Di questa fedeltà si è nutrita la generazione degli operaisti cui appartiene il nostro Gobbi[2], finanche quel Tronti che dopo averla celebrata (la classe operaia, intendo) in «grande stile»[3], scelse di volgere lo sguardo altrove e chissà se è proprio lui che Franceschi ha di mira quando canta: In questa vita non si può avere tutto. / Tu avesti il tornio, la lima, l’aratro e la pazienza. / E noi modestamente un po’ d’intelligenza: Viva l’intelligenza, la nostra intelligenza…

Non è stato il caso di Gobbi la cui iniziazione all’operaismo comincia con lo sciopero dei metalmeccanici del ’59 e non in una sezione del Psi o del Pci bensì alla III Lega della Fiom di Borgo San Paolo. Da mane a sera volantinaggi e picchetti, picchetti e volantinaggi, alla bisogna le manifestazioni di piazza senza dimenticare lo studio collettivo a tempo debito della «terza sezione del I Libro de Il Capitale, in cui si racconta come le lotte operaie costringono il capitale ad adottare le innovazioni tecnologiche». Campo di verifica per tutti gli anni Sessanta, la Fiat, divenuta presto il laboratorio sperimentale dell’operaismo sindacale e non di quegli anni[4] ché, a sentire il Pci, solo un miracolo avrebbe potuto svegliare i suoi operai dal lungo letargo in cui erano caduti dalla fine della guerra. Da qui, data «l’assoluta inattendibilità dei “compagni” come fonti di informazioni su quanto stava succedendo dentro la Fiat», la sperimentazione di nuove tecniche di indagine, le interviste, le inchieste, la conricerca.

L’amore di Gobbi per la classe operaia appare fin da subito di segno contrario a quello sbandierato dal Partito ai quattro venti per atto di fede dovuto. A una classe operaia idealizzata e senza età, impregnata di morale ascetica e che conosce solo sudore e sacrifici, egli oppone una classe operaia giovane e per nulla caritatevole, più attenta ai brontolii di pancia che ai sussurri del cuore. A colpirlo, soprattutto la sua estraneità nei confronti del Partito. Come dire, che a questi giovani operai non gliene poteva importare di meno di risoluzioni congressuali, di alte strategie e di tattiche compromissorie. Al più potevano accettare di relazionarsi col sindacato e solo al momento. Un’estraneità ereditata direttamente dagli operai Fiat sotto il fascismo ed emersa in modo eclatante durante la Resistenza, come da storico scoprirà più avanti[5]. E fa bene questa volta a tornare ancora più indietro nel tempo, alla Opposizione operaia degli anni venti in Russia, a dimostrazione che l’autonomia di classe veniva ancora da più lontano, inscritta nel suo stesso DNA.

Ma torniamo all’amore di Gobbi per la sua classe operaia. La dinamica è quella dell’itinerario amoroso descritto da Roland Barthes. Si comincia con «la cattura», qui per opera del corpo operaio in sciopero con le sue bandiere rosse, le sue tute da lavoro blu e il suo sudore; segue «il tempo dell’idillio» del volantinaggio, del picchetto, dell’inchiesta e della conricerca, per concludere con lo sconforto della fine in agguato dietro l’angolo[6].

A ognuna di queste tappe Barthes associava frammenti di discorso amoroso con cui l’innamorato tratteggia di volta in volta una particolare figura dell’oggetto amato. Quella del sabotatore cosciente di «gatto selvaggio» è certamente per Gobbi la più intrigante[7]. Ma non è una invenzione sua e degli altri «selvaggi» come lui. Tutti costoro hanno vivo il ricordo di piazza Statuto (’62) e la storia della vertenza contrattuale dei metalmeccanici che il sindacato aveva appena chiuso in modo indecente. Alla Fiat la risposta operaia non si era fatta attendere: blocco delle linee e salto dei pezzi, scioperi improvvisi e rapidi, difficilmente localizzabili, a gatto selvaggio per l’appunto, e azioni di sabotaggio, tanto frequenti da assumere un carattere cumulativo mettendo a rischio l’intera produzione di fabbrica. Si trattava di una pratica di lotta collettiva e cosciente in cui era facile leggere un’autonomia di classe dispiegata e matura. Gobbi ci mette la faccia e firma il giornale che a questo punto non è solo la cassa di risonanza del disordine in casa Fiat ma diventa il luogo in cui prende rilievo la figura dell’operaio sabotatore. Ma chi di questo manipolo di apprendisti stregoni della rivoluzione operaia ha sostato nel segreto laboratorio della produzione Fiat il tempo necessario per poter dire: io l’ho visto all’opera? E poi, è proprio il sabotatore a non poter testimoniare del proprio operato. Al pari della persona amata di Barthes, il nostro sabotatore non parla, resta muto. Così Gobbi racconta, dis-corre di sabotaggio, di scioperi, di lotta di classe e di rivoluzione. Certo, non gli mancano i testimoni ma tant’è, il dis-cursus resta suo. E poco gliene cale se gli operai capivano poco e niente di quello che andava dicendo[8].

«Una figura – dice Barthes – è fondata se almeno una persona può dire: Com’è vero tutto ciò! Riconosco questa scena del linguaggio”»[9]. Valeva ieri per Gobbi e i suoi e vale per l’oggi perché quella persona possiamo essere anche noi se ci riconosciamo in quell’operaismo e se per sorte nel ’68 avevamo vent’anni, l’età giusta per leggere Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra di Thompson, uscito giusto allora. Un brutto titolo che cancellava il bel gerundio sostantivato The Making (il facendo-si, il far-si) of the English Working Class dell’originale inglese del ’63, evidentemente troppo allusivo a un presente minaccioso. Nel ’68-’69 l’analogia era dovuta. Gli operai di Mirafiori come i tessitori del Lancashire. Grazie a Gobbi e all’efficacia persuasiva della sua figura, ci innamorammo anche noi della classe operaia.




Note [1] R. Gobbi, Com’eri bella, classe operaia, Derive Approdi, Roma 2023. [2] Sul tema G. Borio, F. Pozzi, G. Roggero, Gli operaisti, Derive Approdi, Roma 2005. [3] M. Tronti, Noi operaisti, Derive Approdi, Roma 2009, p. 11. [4] La Fiat è la nostra università, Libreria Feltrinelli, Milano 1969. Si tratta di una ricerca condotta fra i giovani lavoratori della Fiat dalla nuova leva di attivisti sindacali di cui Gobbi faceva parte. [5] R. Gobbi, Operai e resistenza, Musolini editore, Torino 1973, [6] R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi Editore, Torino 1979, p. 109. [7] «gatto selvaggio. Giornale di lotta degli operai della Fiat e della Lancia» in «classe operaia» Reprint completo 1964-1967, Machina Libri, Milano 1979. [8] Com’eri bella, classe operaia, cit., p. 91: «Tutti gli articoli comunque erano scritti in maniera esoterico-intellettualistico: nessun operaio riuscì mai a prenderli in mano senza averne un moto di ripulsa per la loro totale inintelligibilità ai non addetti ai lavori. Il difetto tipico degli intellettuali veniva accentuato proprio dalla scelta del “punto di vista operaio”». [9]Frammenti di un discorso amoroso, cit., p. 6.



Immagine

Volantino della Fiom di Milano, 1952



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Mimmo Sersante (1948) è autore di Il ritmo delle lotte (ombre corte, 2012) e coautore con Willer Montefusco di Dall’operaio sociale alla moltitudine e Pensare la rivolta. Un percorso storico e filosofico (DeriveApprodi, 2016 e 2019). Per DeriveApprodi ha anche curato Gli autonomi. Vol. VI. Storia dei Collettivi politici veneti per il potere operaio (2020) e Gli autonomi. Vol. IX. I «padovani». Dagli anni Ottanta al G8 di Genova 2001 (2021).

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