Una riflessione su affinità, pratiche sportive e possibili indirizzi di ricerca
Chiariremo di seguito l’importanza dello sport nel favorire comportamenti e valori in relazione ad un «habitus» di classe. Questo legame è infatti rilevabile nel caso delle palestre popolari, in cui il fattore aggregativo-ideologico ricolloca alcune tipiche «preoccupazioni focali» funzionali alla fabbricazione di un’identità comune. Ciò detto, le argomentazioni si svolgeranno – nello specifico – intorno alla pratica di dis-incorporazione (si veda B. Roberts 1976 [1]) veicolata nelle palestre popolari e il concetto di habitus bourdesiano, per mostrare: a) il legame tra classe operaia e sport; b) come le attività di queste stesse palestre creino dei presupposti per una connessione tra politica, classe e cultura.
Sport e preoccupazioni focali di una classe
Scrive John Clark come «le forme di divertimento [tradizionale] della classe operaia [tra le quali l’attività sportiva] rappresentano un’area di autonomia in contrasto con le discipline economiche, tecniche e sociali del lavoro. [Questo]... ha consentito la dislocazione di molte delle “preoccupazioni focali” (focal concerns) [2] dell’esperienza di classe (generalmente concernenti il mondo del lavoro), per lo sviluppo e l’articolazione – spesso in forme simboliche – della “cultura operaia”» [3].
Clarke, in questa chiosa, pur definendo il lavoro come «spazio istituzionale centrale di “disciplinamento”» atto al mantenimento e alla perpetuazione di un sistema stratificato, aggiunge come «i controlli e la disciplina che possono essere esercitati attraverso il lavoro, non sono sufficienti per inculcare […] l’intera gamma di abitudini mentali e i comportamenti necessari allo sviluppo lineare dell’ordine sociale»[4]. Questa riflessione apre ad un’ambivalenza: a) da un lato, l’imposizione di un sistema etico-politico che garantisca la riproduzione di una classe subordinata; b) dall’altro, l’affermazione di un principio che consenta di reagire o negoziare ai vincoli imposti dalle proprie condizioni esistenziali, tale da espletarsi in «scelte» e «predisposizioni» in cui corroborare le funzioni identitarie e di status.
Soffermandoci sul secondo dei due elementi, ovvero gusto e affinità, occorre chiarire come questo storico «apparentamento» tra oggetti e persone insito in determinate attività, non lo si possa comprendere al di fuori di una dialettica tra liberazione e riproduzione dei ritmi di vita nelle pratiche sportive: per esempio, negli sport da combattimento il coinvolgimento fisico e il sacrificio sono un mezzo per esplorare l’interrelazione tra la dimensione psichica e sociale dell’identità[5], luogo in cui dirottare le aspirazioni e le gratificazioni personali impedite in altre istituzioni come il mondo del lavoro o la scuola.
In particolar modo, è nel saggio Social Class and Sport che Bourdieu ci aiuta a comprendere come gli elementi focali di una categoria sociale si ricollochino in precisi sport. Infatti, secondo Bourdieu la maggior parte degli sport di squadra – basket, pallamano, rugby – sono più comuni tra gli impiegati, e senza dubbio anche gli sport individuali più tipicamente operai, come il pugilato, in cui è possibile un’offensiva in termini di affermazione dei modelli di vita e l’esercizio di una resistenza conflittuale, combinano tutti quei motivi tali da respingere la partecipazione delle classi superiori. Questi includono la composizione sociale del loro pubblico, che rafforza la volgarità implicita nella loro divulgazione, i valori e le virtù richieste (forza, resistenza, propensione alla violenza, spirito di «sacrificio», docilità e sottomissione alla disciplina collettiva, l’antitesi assoluta della «distanza di ruolo» implicita nei lavori borghesi, la concorrenza, l’individualismo)[6].
Un’ulteriore prospettiva che il rapporto habitus/classe sociale ci propone è quella legata alla connessione tra soggetto e forme di dominio, frutto di un’ineguale distribuzione di risorse, che si riflettono nella costruzione della corporalità e nell’impossibilità di scelta di una pratica sportiva piuttosto che un’altra. Infatti, se ammettiamo qui l’attività sportiva come edulcorazione tecnica del corpo, la visione che si apre è quella di una dicotomizzazione tra corpo «sano» – metafora di una società in un buono stato di salute – e corpo «fiaccato» – l’equivalente di una qualità di vita bassa – caratteristiche entrambe strutturalmente determinate e condizionate dai rapporti materiali, e gli sport da combattimento sono naturalmente parte di quest’ultima dimensione. Il «frame»[7] intende il corpo come cristallizzazione del dominio culturale e il suo riposizionamento di campo non può prescindere da un’azione riflessiva e risignificante del potere e delle sue rappresentazioni, perfettamente introiettate ma non svelate nell’idea di habitus proposta dal sociologo francese, ovvero un «sistema di disposizioni durevoli e trasferibili, di strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti, in altre parole come princìpi generatori e organizzatori di pratiche e rappresentazioni che possono essere oggettivamente adattate al loro scopo senza supporre la visione cosciente dei fini e il dominio esplicito delle operazioni necessarie per ottenerli» [8].
Fermo restando ancora una volta il riferimento all’intersezione tra identità, classe, corpo e sport, chiudiamo la riflessione rafforzando il concetto di omologia tra attività sportiva e posizione sociale, in cui si comprende la predisposizione etica ed estetica di alcuni soggetti e gruppi a praticare taluni sport piuttosto che altri. In sintesi, Bourdieu asserisce come «nel caso della lotta l’importanza del corpo a corpo, accentuata dalla nudità dei combattenti, induce un contatto corporale ruvido e diretto, mentre nell’aïkido il contatto è effimero, distanziato, e il combattimento al suolo inesistente. Se si comprende così facilmente il senso dell’opposizione tra la lotta e l’aïkido è perché l’opposizione tra “terra a terra”, “virile”, “corpo a corpo”, “diretto”, ecc. e “aereo”, “leggero”, “distanziato”, “grazioso”, supera l’ambito sportivo e l’antagonismo tra due pratiche di combattimento. In breve, qui l’elemento determinante del sistema delle preferenze è in rapporto al corpo, all’impegno del corpo, che è associato a una posizione sociale e a una esperienza originaria del mondo fisico e sociale»[9], proprio come in tutte quelle pratiche «violente» e «aggressive» in cui suddette proprietà sono particolarmente enfatizzate.
Un'esplorazione delle palestre popolari. Tra classe e politica
Le palestre popolari ci consentono una sistematizzazione reale del concetto di habitus in relazione alle attività sportive. La loro origine in Italia è da ricondurre agli anni Settanta del XX secolo. Tuttavia, è nei primi decenni del XXI secolo che si raggiunge una portata tale da catalizzare le attenzioni della ricerca sociale. Le palestre popolari nascono da una esigenza di auto-organizzazione insita in un’originaria idea operaia di mutualismo. Lo sport popolare, più in generale, alla luce di questa ipotesi può essere indagato come una «eterotopia» foucaultiana[10], uno spazio «situato» che neutralizza i rapporti che lo stesso riflette in luogo di nuovi sistemi di relazione e della riproduzione di determinati aspetti culturali: infatti, senza distinzione, gli sport popolari sono la realizzazione sociale dell’omologia bourdesiana tra status e pratica sportiva, oltre che luogo in cui edulcorare la propria soggettività in riferimento al gruppo di appartenenza.
Se si vuole analizzare a tutto tondo la fondamentale importanza assunta nel tempo dalle palestre popolari presenti da Nord a Sud del nostro paese (all'interno di CSOA e altre sedi), non si può prescindere dal constatare il radicamento in aree territoriali «difficili» e la realizzazione di pratiche dal basso quale espressione di una cultura popolare. Vi è una chiara commistione tra la disaffezione verso un’ideologia che promuove le discriminazioni socioeconomiche, e un’idea concreta di unione che caratterizza le attività dello sport popolare al di fuori delle mura di una palestra, con al centro un principio di cooperazione che tiene insieme varie biografie sovente marginalizzate.
Le palestre popolari sono un mondo che ci permette di riflettere sullo sport in quanto mezzo e fine. Sono i concetti di corpo, di dimensione aggregativa della sfera politica, inserimento e inclusione sociale ad essere determinanti. Lo sport popolare è un momento di messa a profitto della socievolezza, di rinuncia della «tecnicizzazione psico-politica» delle pratiche sportive che si regge su una logica di partecipazione democratica: dal disoccupato al lavoratore atipico e in nero; dallo studente a chi ha più risorse economiche, tutti indistintamente possono partecipare, sentirsi coinvolti e aderire a questo progetto.
In questi ambienti espressivi prevale una reazione strutturata, partecipativa e con una forte componente di classe. Ciò ripropone i valori condivisi da molti settori di uomini e donne che vivono la dimensione «collettivista» dell’organizzazione sociale (e molti dei quali appartenenti agli strati meno «nobili» della società). Lo spirito di solidarietà è in grado di sostituirsi all’assolutizzazione delle categorie di profitto, consumismo e alienazione sentimentale, prodotti dello sport sovradeterminato dal capitale economico e finanziario. Analiticamente, lo sport popolare è il contraltare di un modello di società che produce una recessione degli ideali di comunità come proposti da Max Weber – iscrizione localista dei suoi attori, assenza di gerarchie e composizione mutevole. Inoltre, le palestre popolari sono una risposta alla mancanza di autodeterminazione tanto individuale quanto gruppale per gli strati meno fortunati (e soprattutto per soggetti politicizzati) nei luoghi di provincia, in cui le attività sportive e di svago in generale sono limitate o del tutto assenti (specie per chi, a causa di fattori socio-anagrafici e reddituali ha una mobilità imbrigliata e chances di vita differenti). La presenza sul territorio di queste palestre è costante e va al di là dell’aspetto sportivo. Esse (possono essere) legate al mondo dell’associazionismo, sono collaterali ai movimenti della sinistra antagonista, esercitano (anche) una forma di controllo informale del territorio con pratiche welfaristiche (ciò non è tuttavia un prerequisito essenziale), con ferma condanna a ogni tipo di discriminazioni etnica, sessuale e religiosa. Le loro fondamenta sono da rintracciare in una arena essenzialmente politica basata su un principio comunitarista e di alleanza ideologica (antifascismo), che denota una ferrea volontà di perpetuazione di un movimento di resistenza declinato nell’invarianza filosofica dei soggetti coinvolti.
A mio avviso, una riflessione sulle attività sportive (dilettantistiche e/o agonistiche) non può negare l’esistenza di una correlazione tra preoccupazioni focali e habitus. Indagare la natura logico-esplicativa di questa associazione significa dirimere questioni fondamentali per il rinnovamento di un approccio multiplo (inteso nella sua ibridazione disciplinare) ad una precipua tipologia di sport e alla quotidianità di chi lo pratica.
Note conclusive e sviluppi futuri
Tenuto conto di quanto evidenziato, riteniamo centrale rintracciare in eventuali ricerche sul tema dello sport e le palestre popolari quegli aspetti che ci consentano di sviluppare una prospettiva che trascenda la visione isolata delle singole manifestazioni e dei suoi interpreti, in relazione alle storie di vita e all’organizzazione dell’esperienza individuale e gruppale, fattori che certa sociologia ci ha insegnato essere storicamente determinati. È necessario, in questo senso, poter riflettere sulla possibilità di identificare quelle caratteristiche e quei meccanismi che presiedono le scelte di partecipare (in primispolitiche) e le pratiche di solidarietà e di mutualismo che caratterizzano il progetto delle palestre popolari, per meglio comprendere in questo modo un fenomeno che da qualche decennio ha capillarmente preso piede in tutta Italia.
Se oggi emerge un collasso etico delle istituzioni di cultura popolare (anche solo a livello immaginario, se vogliamo) divenute oramai «un prodotto del quale fruire in una moderna catena del valore»[11], possiamo sostenere come lo sport «popolare» nasca proprio con lo scopo di soddisfare le richieste esistenziali in quella che è la formalizzazione del soggetto in una cornice espressiva pubblica (come abbiamo avuto modo di vedere nel caso che lo stesso rivestiva per la classe operaia). L’istituzione di palestre popolari assume, in questo caso, una valenza significativa. Qui, si ridefinisce l’azione individuale, favorendo un processo di auto-identificazione che si erge a costante di una classe di individui che riconosce una preliminare accettazione di un proprio agire e un’enfatizzazione della salienza della propria soggettività (habitus), variabili che risultano essere parte di una logica intrinseca alla maggior parte degli sport di questo universo, fuori dalle logiche di profitto e in grado di promuovere valori tradizionalmente alieni alla gestione manageriale dei rapporti sociali (le preoccupazioni focali).
In sostanza, l’emergere di pratiche dal basso deve essere percepito come valida alternativa all’interno dell’universo maggioritario dello sport e come forma di azione politica[12]. Queste pratiche sono concettualmente legate alle produzioni culturali e alla socialità in uno scenario capitalista che ipertrofizza le relazioni attraverso la razionalizzazione degli spazi, impedendo a priori la convergenza di interessi tra utenti amplificando la deviantizzazione dei rimasugli dei processi di socializzazione, cui banalmente pendono delle attribuzioni di status frutto di classificazioni pregiudiziali e stereotipiche (politiche discriminatorie che alimentano degli squilibri tra classi a svantaggio di chi occupa posizioni sociali più basse).
Pertanto, in questi contesti è possibile intravedere la configurazione e le manifestazioni di un «sport differente» che produce relazioni interpersonali e interazioni tra individui e spazio, le cui dinamiche sono da situare all’interno di un campo di indagine che non può escludere o prescindere da uno studio connesso con le forme di resistenza che attraversano la dimensione pubblica nei territori del soggetto e del gruppo (sociale e politico).
Note [1] B. Roberts, «Parent and Youth Cultures: alternative views», Wpcs, Cccs Birmingham, 1973. [2] Con questo termine si vuole fare riferimento ad una serie di proprietà mediante le quali un individuo, oltre al conseguire uno status sociale ed economico di successo all’interno del gruppo sociale di appartenenza, si conforma allo stesso. Queste «preoccupazioni focali» consistono sia nei materiali messi a disposizione del gruppo per la costruzione di identità subculturali – come il vestiario, la musica, il linguaggio – sia nei loro ambienti di vita – come la frequentazione di luoghi, bar, sale da ballo, ecc. Inoltre, per estensione, le preoccupazioni focali fanno riferimento a tutti i valori che sono centrali in una cultura e risultano presenti nei princìpi di alcune attività (lavoro, svago, sport). Nella cultura della classe operaia questi volori sono l'importanza dell’eccitamento, l’abilità fisica, la ricerca della vittoria, l'identità territoriale, l'aggressività etc. (cfr. S. Hall, T. Jefferson, Rituali di resistenza, tr. it., 2017, pp. 75; J. Clarke, Football hooliganism, tr. it. 2019, p. 37). [3] J. Clarke, «The Three Rs – Repression, Rescue and Rehabilitation», Wpcs, Cccs Birmingham, 1976. Inoltre, nel rapporto tra le pratiche di cultura fisica, ethos di classe e resistenza, si vedano i lavori di: J. Hargreaves (ed.) Sport, Culture and Ideology, London, Routledge & Kegan Paul, 1982; C. Critcher, Football since the war, in J. Clarke et al. (eds), Working Class Culture, London Hutchinson, 1979; N. Elias, E. Dunning, Sport e aggressività, Bologna, il Mulino, 2001. [4] Ibidem. [5] Ci spiega Loic Wacquant come la creazione e la rielaborazione dei rapporti materiali di vita trovino nella boxe una perfetta traduzione. Infatti, nel volume Anima e Corpo, egli ha dimostrato come il pugilato esaltasse gli sforzi del lavoro e le proprietà sociali della working class maschile delle periferie di un ghetto afroamericano di Chicago. (cfr. L. Wacquant, Anima e corpo, Roma Derive Approdi, 2002.) [6] P. Bourdieu, “Sport and social class”, Social Science Information, 17/6, 1978, p.19. [7] Crf. E. Goffman, Frame analysis. L’organizzazione dell’esperienza, Roma, Armando, 2013. [8] P. Bourdieu, Les sens pratique, Paris, Minuit, 1980, p. 88. [9] P. Bourdieu, op. cit. 2013, p. 215. [10] M. Foucault, Eterotipia, Mimesis, Milano-Udine, 2010. [11] I. Taylor citato da J. Clarke, 2019. [12] N. Montagna, «Rappresentanza e autorganizzazione: il “welfare dal basso” dei CSA del Nord-Est» in: In nome di chi? Partecipazione e rappresentanza nelle mobilitazioni locali, in T. Vitale (ed.), Milano, Franco Angeli, 12, 2007, pp. 209-231.
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