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Rive sconosciute. Linee di fuga nei movimenti a partire dagli anni Ottanta



Gli anni Ottanta sono il decennio della controrivoluzione capitalistica, della reaganomics e del thatcherismo, vale a dire la fase del drastico rovesciamento di scena di fronte all’insorgenza dei due decenni precedenti. In questo articolo, però, Federico Battistutta non si limita alla constatazione dei rapporti di forza soverchiante a favore del capitale, ma indaga le ambivalenze del decennio. La sua riflessione sull’«elogio della fuga», lungi dal rifugiarsi sulle rive del riflusso al privato, indaga le nuove possibilità che si aprono, fatte di pratiche e desideri, muovendosi anche in territori fino ad allora sconosciuti. L’autore spiega dunque perché, come scrive Mario Tronti, «stare in pace con sé, oggi, vuol dire entrare in guerra con il mondo».


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Premessa: elogio della fuga

Correva l’anno 1982 quando nelle librerie compare l’edizione italiana di Elogio della fuga di Henri Laborit, uscito qualche anno prima in Francia. Comincio col riportare alcuni stralci della prefazione: «Quando non può lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa […] che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa […]. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo per salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute […] che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta […] senza imprevisti […]. Forse conoscete quella barca che si chiama desiderio»[1].

In quel periodo Laborit godeva di una certa popolarità, in parte acquisita dal film Mon oncle d’Amérique di Alain Resnais, uscito proprio in quel periodo e alla cui sceneggiatura collaborò. Le vicende dei protagonisti vengono spiegate alla luce delle teorie di Laborit, secondo cui dinanzi a una situazione avvertita come pericolosa gli esseri umani (ma non solo loro) hanno tre possibilità di reazione: l’attacco, l’inibizione e la fuga. Il primo caso prevede la lotta frontale contro lo stimolo minaccioso; nel secondo – l’inibizione – il soggetto, trovandosi bloccato, scarica dentro di sé le reazioni di attacco o fuga, innescando una serie di scompensi psicosomatici; infine, la fuga viene messa in campo in quelle situazioni in cui mostra maggiori possibilità di riuscita rispetto all’attacco.

Nel corso di queste pagine sosterrò che la fuga può essere, sotto molti aspetti, una chiave di lettura nella storia dei movimenti negli anni Ottanta/Novanta, ricordando, come dice Laborit, che la fuga può permettere di scoprire, in certi casi e a certe condizioni, «rive sconosciute». In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare, dirà più avanti nel suo libro lo scienziato francese. Si tratterà allora di contestualizzare, declinare e decriptare la nozione di fuga (con alcune esemplificazioni rapsodiche) dentro quel periodo storico, gli anni della controrivoluzione capitalistica, gli anni della reaganomics e del thatcherismo, vale a dire dentro il drastico rovesciamento di scena di fronte all’insorgenza dei due decenni precedenti. Sia chiaro: quanto segue è un discorso dichiaratamente di parte, quasi una cronaca personale, espressione di un sapere situato che si è trovato a dover attraversare e compiere passaggi proprio in quegli anni. Elogio della fuga? Quale fuga e quali rive sconosciute?


Riflusso nel privato

Se per molti, giovani e meno giovani, si è trattata in primis di una fuga in senso letterale, fuori dai confini nazionali per sottrarsi alla caccia alle streghe di quegli anni (v. legge Reale del 1975, legge Cossiga del 1980, «teorema» Calogero del 1979), qui si parlerà di fuga in relazione all’irretimento dentro un immaginario marcatamente bellicista, una sorta di forzato riduzionismo di chi voleva in quel periodo (tanto da una parte che dall’altra degli schieramenti), costringere la pluralità e la complessità (come pure la creatività) delle aggregazioni e dei conflitti in corso, con la loro indisciplina verso identità politiche univoche, lungo un’unica direzione, in un vicolo cieco.

Senza scordare che gli anni Ottanta designano anche un periodo di nuovi campi di lotta – dall’emergere di una sensibilità ecologista variamente articolata, alle manifestazioni antimilitariste contro l’installazione dei missili Cruise e Pershing, a nuove forme di aggregazione e di protesta giovanile (v. il movimento punk) –, è comunque vero che sono per lo più interpretati sotto la cifra del «riflusso nel privato», vale a dire come l’epoca del disimpegno politico e sociale e del ripiegamento nella sfera privata, in un clima di sostanziale disillusione. Iniziava, insomma, l’infausto ciclo del neoliberismo, delle televisioni commerciali con l’ascesa di Berlusconi, del potere della pubblicità, della gentrificazione nelle città, di un generale stile di vita fondato sul consumo, sul possesso di abiti e oggetti griffati. Qualcuno ha definito tutto ciò «cultura del narcisismo». Tutto vero, nulla da eccepire, ma anche qui è bene non semplificare più di tanto il discorso: nelle pieghe del riflusso nel privato in quegli anni è accaduto anche dell’altro. Proviamo a vederlo.

Ecco cosa scriveva, ad esempio, proprio in quel tempo Lapo Berti, il quale aveva partecipato in prima persona ai principali avvenimenti della rottura culturale e politica degli anni Sessanta e Settanta (v. «classe operaia», Potere operaio, «Primo maggio»): «Io non sono tra quelli che considerano senza speranza il panorama, apparentemente desolato, che queste devastazioni, distruzioni dolorose di esperienze personali e collettive, lasciano dietro di sé. Penso che nella riconquista del privato, nello scavare che in questi anni si è fatto nelle relazioni interpersonali, nell’attenzione alla qualità della vita, nella scoperta culturale della diversità e della molteplicità, nell’assunzione pluralistica del reale, sia depositata una conquista di cultura sociale»[2].

Prendiamo allora come avvio questa lunga citazione in cui viene articolata con sottigliezza una diversa sfumatura del discorso. Il riflusso nel privato ha significato, nella sua ambivalenza, anche queste cose: attenzione alle relazioni interpersonali; rivelazione dell’importanza della diversità e della molteplicità; scoperta, infine, di nuove possibili piste da esplorare per un dispiegamento delle proprie potenzialità di relazionarsi e agire. Vale a dire transitare verso il personale per tornare rinnovati al sociale.


Logica del desiderio

Abbino a quella di Lapo Berti un’altra citazione, risalente sempre a quel tempo. A parlare in questo caso è Elvio Fachinelli, psicoanalista, sostenitore della pedagogia anti-autoritaria e fondatore della rivista «L’Erba voglio». Anche lui affronta in maniera diretta il tema del riflusso nel privato. Leggiamo: « Dove siete finiti? Siete falliti, non è vero? Così dice la voce, quella che suona più alta, degli anni Ottanta. Ma altre voci mormorano: non c’è fallimento, né scacco, non può esserci, dal momento che quelli lì andavano secondo un altro ritmo, seguivano un’altra logica, piuttosto enigmatica, a volte tragica, quella del desiderio, o della libertà (chi ha mai detto che la libertà sia facile?). E alla fine si sono dissolti in ciò che è venuto dopo, pronti a ricristallizzarsi in un momento chissà dove chissà quando»[3].

Ciò che propone Fachinelli è un dislocamento: alla logica della presa del potere e quindi del vincere/perdere ne indica un’altra, quella del desiderio, recalcitrante per natura alla prima. Gli anni del riflusso e il rientro nel privato hanno significato per molti interrogarsi proprio sul desiderio e la sua logica. Si è cominciato a smontare l’enfasi attribuita alla soggettività, vale a dire alla narrazione focalizzata sull’emergere di un soggetto portatore di bisogni e desideri radicali, per il cui appagamento era necessaria una trasformazione parimenti radicale della società, una «rivoluzione del modo di vivere», come diceva Ágnes Heller. L’enfasi verso la soggettività si rivelò una ricchezza, ma anche un limite. Se nella prosa politica il soggetto doveva apparire come un nucleo duro, non ulteriormente analizzabile (l’immagine della «rude razza pagana» di Tronti lo illustra fin troppo bene), nella vita quotidiana le cose non stavano proprio in quei termini, ben presto si scoprì sulla propria pelle che il soggetto è anch'esso una costruzione alquanto ingarbugliata, da smontare e rimontare con cura se si vuole realizzare, senza perdersi, quella «rivoluzione del modo di vivere» desiderata: c’è un sentire che riguarda qualcosa che sta dentro e sotto il soggetto; così come c’è un sentire che riguarda qualcosa a cui partecipiamo ma che sta fuori, oltre, al di là dei confini della pelle. Ciò ha significato provare a decifrare proprio la voce del desiderio e la sua logica. Così, all’enfasi desiderante subentrò una diversa qualità del sentire. Il desiderio non era per nulla una terra franca, un dato naturale, liberatorio e rivoluzionario, ma era anch’esso un campo di lotta, ricco di contraddizioni, in certe condizioni manipolabile e distruttivo (e la quantità di eroina che circolava in Italia negli anni Settanta e Ottanta costituisce una disperata testimonianza di tutto ciò). Perciò era alquanto necessaria una mappatura di quei territori, un’elaborazione che avrebbe richiesto i suoi tempi e che avrebbe condotto al lavoro su di sé. E chissà dove avrebbe portato…


Lavoro su di sé

Parliamo allora dello slittamento dal lavoro sociale e politico al «lavoro su di sé», riprendendo un’espressione di René Daumal, scrittore francese transitato dal surrealismo allo studio del sanscrito e del pensiero orientale. «È molto importante conoscere quello che chiamerei la propria topografia interiore», scriveva Daumal[4].

Addentrarsi nel proprio territorio interiore poteva significare, come si accennava sopra, esplorare ed elaborare mappe sui propri bisogni e desideri per un differente e più approfondito rapporto con il reale. Tutto ciò, a ben vedere, lo stava già praticando da tempo il movimento delle donne, con l’autocoscienza e la pratica dell'inconscio. L’esperienza femminista aveva portato le donne a comprendere il ruolo dell’inconscio dentro le forme di oppressione. L’immersione nel profondo poteva consentire la rivisitazione delle lacerazioni interne, riscrivendo i blocchi non più nella parte di vittime, ma come protagoniste responsabili e attive delle dinamiche relazionali. In questo modo la rivalutazione dei processi inconsci assumeva un aspetto tutt’altro che secondario del rapporto con la realtà, bensì era un canale attraverso cui passava la possibilità della trasformazione.

Negli anni del riflusso il partire da sé, la dimensione personale, biografica della ricerca, il saper divenire al contempo soggetto e oggetto di studio cominciò a essere una dimensione di indagine sempre più ampia, non esclusivamente femminile, iniziando a interpellare anche gli uomini, smontando gli stereotipi della militanza politica, interrogandosi sul proprio ruolo sociale e le dinamiche di potere connesse, sulla qualità delle relazioni interpersonali. Una ricerca individuale, ma anche condivisa, un modo di declinare il principio secondo cui «il personale è politico». Proprio da lì prenderanno, ad esempio, forma le prime esperienze di autocoscienza maschile che condurranno, alcuni anni dopo, alla nascita di iniziative per la promozione di una riflessione sulla condizione maschile, valorizzando le differenze, in una critica a tutto campo della società patriarcale[5].


Riabitare il territorio

Si faceva riferimento sopra al fatto che gli anni Ottanta hanno anche significato l’emergere della questione ecologica, indagando il rapporto tra essere umano e natura, cominciando a percepire quest’ultima in altra maniera, non più solamente come fonte di approvvigionamento di materie prime (il classico «ricambio organico tra uomo e natura»), ma come portatrice di una propria soggettività che richiede ascolto. I primi movimenti verdi e le prime iniziative risalgono a quegli anni, così come gli stili di vita corrispondenti, l’attenzione verso il paesaggio, gli ecosistemi, gli animali non umani, fino alle scelte compiute da alcuni di abbandonare le città verso le campagne, in direzione di una diversa visione dell’abitare.

L’ecologista nordamericano Peter Berg chiamò questa opzione reinhabitation, un termine che descrive sia un territorio geografico, sia un luogo della coscienza, un reimparare a vivere nel posto, un saper diventare nativi. Sono queste le posizioni della corrente bioregionalista, un approccio che propone una forma di organizzazione umana decentrata, una simbiosi tra città e campagna, in grado di mantenere l’integrità dei processi biologici e delle formazioni geografiche specifiche[6]. Sempre negli anni Ottanta giunge a maturazione la visione socio-ecologica e municipalista elaborata da Murray Bookchin, ponendo in primo piano i problemi dell’autogoverno da parte della comunità e del proprio ambiente di vita come fondanti l’esistenza stessa di una bioregione.

In Italia posizioni simili sono state sviluppate da Alberto Magnaghi, il quale ha iniziato, sempre negli anni Ottanta, ad analizzare il sistema di governo delle regioni metropolitane a partire dal passaggio dalla città-fabbrica alla metropoli post-tayloristica, orientando la sua ricerca sulla valorizzazione della qualità della vita associativa, al rapporto comunità-territorio, alle questioni di genere, all’autodeterminazione dell’ambiente, della salute e della cultura. Così, dall’idea del territorio percepito come «bene comune», ha preso successivamente forma una progettualità circa la costruzione di una relazione co-evolutiva fra insediamento umano e dotazioni ecosistemiche di un territorio. Il tutto supportato da un processo di elaborazione di una coscienza del luogo da parte degli stessi abitanti, come parola-chiave per alimentare esperienze di vita conviviali e un uso sostenibile del patrimonio territoriale, in grado di generare economie locali autosostenibili[7].

Tutti questi principi del riabitare e di una rinnovata relazione tra insediamenti umani ed ecosistemi sono parte di una sensibilità ecologica, così come sono alla base della nascita di comuni, ecovillaggi e comunità rurali che, attraverso l’incontro con attivisti e consumatori responsabili presenti nelle città, hanno dato vita a esperienze tuttora vive, come quelle di Genuino Clandestino e Campi Aperti, sui temi dell’autodeterminazione e della sovranità alimentare[8].


Spiritualità della conflittualità

Lasciamo la città e la campagna. Dal fuori torniamo al dentro, a quello che abbiamo chiamato lavoro su di sé. Finora il riferimento è andato alle pratiche di autocoscienza o psicoterapeutiche, ma questo è solo un aspetto, quello forse più digeribile per chi si era occupato di politica a tempo pieno. Il lavoro su di sé ha comportato in certi casi entrare in un territorio arduo e opaco per molti, quello della spiritualità.

Potremmo leggerlo come l’irruzione di un rimosso per un movimento sociale e politico che in passato ne contestava apertamente l’esistenza, equiparando la spiritualità al clericalismo e alle istituzioni religiose sostenitrici dello status quo. C’erano alcune eccezioni, come le comunità cristiane di base che traevano ispirazione dalla teologia della liberazione latinoamericana (su cui in Italia aleggiava però l’insidia del cattocomunismo) o a correnti maggiormente movimentiste, legate all’esperienza della controcultura nordamericana, sensibile quest’ultima – attraverso la mediazione della beat generation – verso le spiritualità orientali.

Oggi fortunatamente molti ideologismi stanno mostrando i loro limiti e lo scenario sembra mutare e ridefinirsi. A questo proposito giova citare Mario Tronti, la cui ricerca, come si sa, è da tempo orientata verso la teologia politica[9].

La spiritualità è un linguaggio adatto a questo tempo perché è il linguaggio della crisi, sostiene Tronti: «ecco perché nella crisi della politica cui assistiamo oggi entrano e devono entrare le parole della spiritualità». Di fronte alle insidie della biopolitica e della psicopolitica oggi la spiritualità incarna «una forte e profonda carica antagonistica nei confronti dell’attuale organizzazione della vita e confesso che a volte mi sembra questa l’ultima e definitiva frontiera della resistenza nei confronti dell’aggressione proveniente dal mondo esterno». E ancora: «C’è una zona di mistero da coltivare con cura come una risorsa, di fronte alla quale conviene fermarsi a contemplare», dal momento in cui «il capitalismo ha fatto deserto all’interno dell’uomo». In questo senso la spiritualità possiede un potenziale conflittuale nei confronti dell’esistente e la pace interiore che promette non è l’accantucciarsi in un’oasi intimistica, ma è la possibilità di costruire nuovi conflitti dentro la società per disordinare il mondo: «stare in pace con sé, oggi, vuol dire entrare in guerra con il mondo». E, verso chi sostiene che questo mondo è già fin troppo disordinato, Tronti è lapidario: l’attuale disordine altro non è se non conseguenza del nuovo ordine globale, «è un ordine che dall’alto provoca questo disordine. Noi abbiamo bisogno di disordinare il mondo dal basso».

Per precisione va aggiunto che secondo Tronti la conflittualità della spiritualità è possibile trovarla, di più e meglio, nella tradizione ebraico-cristiana per via del passaggio dal cosmico allo storico che questo filone ha compiuto. Più interessante sarebbe allargare l’orizzonte del discorso verso forme di spiritualità inedite, emergenti al di fuori dei confini delle tradizioni religiose, da tempo inesorabilmente in crisi. Parliamo qui di una diversa espressione della spiritualità, concreta, materialista, dentro un’ontologia del divenire, una materia viva, intelligente, autopoietica[10]. Ad esempio, recentemente Toni Negri, attraverso il confronto con autori come Spinoza, Marx e Foucault, ha tratteggiato i lineamenti di una nuova spiritualità all’interno di una produzione materialista della soggettività, nel paradossale riconoscimento di un effetto di trascendenza, immanente allo stesso divenire storico[11]. Così come riferimenti alla spiritualità sono riscontrabili oggi in diverse femministe, da Luisa Muraro (circoscritto, anche in questo caso, all'orizzonte cristiano) alle nordamericane bell hooks e Gloria Anzaldúa[12], la quale, ad esempio, parla in modo ampio e disteso di «attivismo spirituale» per descrivere la sua epistemologia dell’interconnessione e la sua prospettiva etico-politica visionaria[13].


Conclusione: per una militanza gioiosa

Riflusso, autoricerca, interiorità, valorizzazione delle differenze, ampliamento di orizzonti nella pluralità ecc. sono alcune delle correnti carsiche che, a partire dagli anni Ottanta, hanno attraversato, non senza turbolenze, i soggetti che sono stati parte viva dei movimenti degli anni Sessanta/Settanta fino a entrare nel nuovo secolo, per giungere a noi. Diverse idee, speranze e aggregazioni su cui oggi ci confrontiamo provengono anche da lì. Il compito è quello di intrecciare quanto di efficace e originale c’era in quella sensibilità con la forza proveniente dal patrimonio di lotte, di antagonismo e di conflittualità che hanno caratterizzato gli anni loro precedenti. Certo, non c’è spazio per nostalgie, né per astratte sintesi dialettiche, tutto è cambiato e sta cambiando con velocità sempre maggiore; non si tratta di rieditare il passato, né di proporre artificiose sommatorie fra differenti decenni storici, ma praticare un paziente lavoro dal basso, ibridando esperienze e saperi. È, in altre parole, l’attivazione di quel principio sempre valido che Silvia Federici ha chiamato «militanza gioiosa»[14]: comprendere, molto semplicemente, come il nostro agire politico possa essere, sin dalla radice, messaggero di liberazione, attrezzo in grado di trasformare la nostra vita, reincantando se stessi per reincantare il mondo.


Note [1] H. Laborit, Elogio della fuga, Mondadori, Milano 1982. [2] L. Berti, Per una cultura della trasformazione sociale, in La politica possibile, a cura di V. Dini – L. Manconi, Tullio Pironti, Napoli 1983. [3] E. Fachinelli, Che bella «rivoluzione»: oggi siamo tutti soli, «L’Espresso», n.14, 12 aprile 1987. [4]R. Daumal, Il lavoro su di sé, Adelphi, Milano 1998. [5] Interessante su ciò l’articolo di Sergio Bologna, «Nel corso del tempo» ovvero della solitudine maschile, «Quaderni piacentini», n. 74, 1980. Il primo gruppo di uomini organizzato su queste tematiche si forma a Pinerolo nel 1993. Nel 2007 si costituisce l’associazione Maschile Plurale, presente su tutto il territorio nazionale, con interventi nell'ambito della comunicazione, dell’educazione, della formazione e dell’attivismo su questi argomenti, partecipando alla costituzione e alla crescita di reti per promuovere la valorizzazione delle differenze, per una società liberata dal maschilismo e dal sessismo. Cfr. https://maschileplurale.it/info/. [6] P. Berg, Post-environmentalism, «Raise the stakes», n.18-19, 1991-92. Prima di dedicarsi al bioregionalismo Peter Berg è stato negli anni Sessanta tra i fondatori del gruppo di teatro di strada (definito anche «teatro guerriglia») San Francisco Mime Troupe. Successivamente era con i Diggers, uno dei gruppi più radicali, visionari e socialmente impegnati nell’area di Haight-Ashbury. [7] A. Magnaghi, Il sistema di governo delle regioni metropolitane, FrancoAngeli, Milano 1981 e A. Magnaghi, La bioregione urbana nell’approccio territorialista, «Contesti. Città, Territori, Progetti», n.1, 2019. [8] Per Genuino Clandestino v. https://genuinoclandestino.it. Per Campi Aperti: https://www.campiaperti.org. [9] M. Tronti, Il demone della politica. Antologia di scritti 1958-2015, a cura di M. Cavalleri – M. Filippini – J.M.H. Mascat, Il Mulino, Bologna 2017. [10] Su questo tema mi permetto di rinviare al mio Misticopolitica. Orizzonti della spiritualità post-religiosa, Effigi, Arcidosso (GR) 2022. [11] Judith Revel, Transcendence, Spirituality, Practices, Immanence: A Conversation with Antonio Negri, “Rethinking Marxism”, n. 3-4, july-october 2016. [12]Sul ruolo della spiritualità nel movimento femminista nordamericano contemporaneo cfr. S. Doetsch-Kidder, Social Change and Intersectional Activism. The Spirit of Social Movement, Palgrave Macmillan, New York 2012. [13] G. Anzaldúa, Luce nell’oscurità. Riscrivere l’identità, la spiritualità, la realtà, Meltemi, Milano 2022. [14] S. Federici, Sulla militanza gioiosa, «Machina», 7 settembre 2020, https://www.machina-deriveapprodi.com/post/sulla-militanza-gioiosa.


Immagine: Berty Skuber, Revolution


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Federico Battistutta si occupa per lo più di questioni di frontiera riguardanti il religioso contemporaneo (prospettive post-teiste e post-religiose, dialogo interculturale e interreligioso, ecosofia ed ecoteologia, teologie di genere e queer, stati modificati di coscienza ecc.). Collabora a riviste di settore e a volumi collettanei italiani e stranieri. Ha pubblicato alcuni libri e diretto un paio di riviste.

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