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Rileggere «Operai e capitale» (Prima parte)



Nel 2006, a quarant’anni di distanza dalla prima edizione, DeriveApprodi ha ripubblicato Operai e capitale di Mario Tronti. Mercoledì 31 gennaio 2007, presso la facoltà di Scienze politiche della Sapienza di Roma, DeriveApprodi e la Rete per l’autoformazione hanno organizzato un convegno su quello che è, senza dubbio, il testo fondamentale dell’operaismo politico italiano. In quella straordinaria occasione di dibattito sono intervenuti Alberto Asor Rosa, Rita di Leo, Toni Negri, Brett Neilson. Pubblichiamo oggi la relazione di Tronti, capace di mettere – come recitava il sottotitolo del convegno – lo stile operaista alla prova del presente. Martedì prossimo pubblicheremo le conclusioni dello stesso Tronti.


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Passato questo anniversario dei quarant’anni di Operai e capitale, dovremmo tornare a un discorso più specifico e, se volete, scientifico dell’operaismo. Vorrei spendere alcune parole per rispondere alla domanda: perché ancora l’operaismo malgrado l’assenza delle condizioni che l’hanno originato e prodotto? Tali condizioni si possono sommariamente riassumere nel neo-capitalismo industriale, con cui per la prima volta ci si confrontava in Italia, e oggi decaduto; nella fase fordista, anch’essa archiviata; in un ciclo di lotte operaie che hanno investito il paese nei primi anni Sessanta, con al centro la figura dell’operaio-massa. Credo che oggi il passaggio, ormai avvenuto, dalla centralità alla marginalità non riguarda solamente l’operaismo. Questo passaggio riguarda anche il capitale. Nel senso proprio del Das Kapital marxiano, come lo intendeva Marx ma anche come lo intendevamo noi: il capitale cosiddetto sociale, o il piano del capitale come si diceva nei «Quaderni rossi». Come gli operai, così anche questa forma di capitale è diventata da centrale a marginale. La lotta era lotta di classe tra due centralità: ognuna aveva il proprio campo e il proprio blocco sociale, ognuna era centrale nella propria parte. Erano appunto campi socialmente omogenei, proprio perché avevano questa forza centrale che li unificava e concentrava. Ho scritto da qualche parte che non c’è classe senza la lotta di classe, poiché la classe non è una pura aggregazione sociologica: le classi sono potenzialmente politiche. Questo lo aveva già individuato Marx. Le classi hanno bisogno l’una dell’altra, non stanno mai in sé. Diventano classi, diceva Marx, quando diventano per sé. Quando diventano classe per la classe che sta contro di sé. E quindi si devono elevare, sosteneva Marx, a coscienza di classe. Lenin diceva che si devono fare organizzazione. E in questa lotta tra le classi, scatta l’hegeliana dialettica del riconoscimento, e il conseguente rapporto reciproco, nel senso che una classe, trovandosi di fronte al proprio avversario di classe, riconosce anche se stessa, acquista coscienza di sé. Questa era la dialettica, che noi non chiamavamo così perché critici di essa; ma è la vecchia dialettica hegeliana del servo-signore, in cui ognuno ha bisogno dell’altro, e non si sa chi è il servo e il signore perché man mano – a seconda dei rapporti di forza – l’uno diventa servo e l’altro signore. Quando si dice che la lotta di classe è finita, diciamo più specificamente che è finita la lotta di classe in senso marxiano, che era il senso operaista vero e proprio. Se rinascerà altrove, ad esempio fuori dall’Occidente e nei grandi processi di industrializzazione del mondo, questo non lo sappiamo. Anche perché non sappiamo se materialmente si ricostituiranno le condizioni dell’industrializzazione e di una crescita quantitativa del lavoro operaio. Non siamo dunque sicuri che si ricostituisca quella dialettica alternativa di riconoscimento reciproco tra le classi che, per come l’abbiamo conosciuta, portava al rapporto tra operai e capitale.

Nelle nuove condizioni, che cosa resta dell’operaismo? È una domanda, questa, che dobbiamo farci per comprendere il ritorno di interesse per Operai e capitale. Resta anzitutto il punto di vista. Un punto di vista parziale, unilaterale, anti-universale. L’idea-forza dentro l’operaismo è che soltanto dal punto di vista di parte si può conoscere il tutto. Perché la conoscenza che il tutto si propone di se stesso è sempre falsa e ideologica. Essa porta sempre a una falsa apparenza. L’unica conoscenza vera e realistica è quella che una parte può fare della totalità. Perché questa non è una semplice conoscenza: è anche una minaccia. Soltanto dal punto di vista di parte si può minacciare il tutto, organizzare una minaccia contro il tutto. E se ci si vuole contrapporre al tutto rivendicando la totalità, questa è una forza alternativa. Contrapporre un interesse universale a un altro universale non porta nessuna conseguenza di rottura della realtà e di suo superamento. Ciò che resta è dunque questa istanza critica e decostruttiva della realtà. Anzi, potenzialmente distruttiva della realtà stessa. Qui bisogna dire che l’emergenza operaista viveva nel clima generale degli anni Sessanta, una fase fortemente contestativa dell’ordine delle cose. Anche se poi, in un certo qual modo, le istanze operaiste hanno piegato questa generica istanza contestativa in qualcosa di più preciso, profondo e radicale.

Dell’operaismo resta, in secondo luogo, il nesso tra teoria e pratica. Una volta forse si sarebbe detto il nesso tra pensiero e azione. Operai e capitale ha come obiettivo di indicare le linee di scardinamento della realtà. Anche questo è un nesso profondamente marxiano. Il pensiero non serve per produrre altro pensiero, ma per produrre azione. E azione conflittuale. L’operaismo è una politica del conflitto e della differenza. Forse una delle ragioni dell’emergenza di interesse per l’operaismo è proprio il bisogno di conflitti che continua a esistere dentro alla società occidentale e alla società in generale, fondamentalmente divise come dentro a una gabbia. E soprattutto i livelli di potere che si scambiano nella formalizzazione delle alternative politiche tendono a coprire e a mascherare il conflitto, a farlo sparire. Sono politiche di mediazione, più che di conflitto. L’operaismo al contrario è una politica del conflitto: questo spiega perché rimane una sorta di limbo nelle esperienze di movimento. C’è una mitologia dell’operaismo in tutte le esperienze di movimento contestativo, in quelle esperienze in cui si è individuata in modo forte l’esigenza di riproporre la pratica del conflitto.

Il terzo motivo di permanenza dell’operaismo è il suo anti-riformismo. Nel senso comune oggi invadente e totalizzante, in cui tutti sono riformisti, in questa generale norma riformista, l’operaismo, cioè la politica del conflitto operaista risulta una sorta di eccezione, di eccedenza, qualche cosa di non integrabile né assimilabile. È qualche cosa che si pone nel solco di una tradizione rivoluzionaria che unica forse aveva declinato, almeno in quella parte del Novecento che risultava dopo la Seconda guerra mondiale, la tradizione rivoluzionaria dell’Occidente.

L’operaismo dobbiamo concepirlo e declinarlo così, come evento del Novecento. Il contesto vero è quello. Quella è l’epoca. Più che gli anni Sessanta, che sono piuttosto la causa occasionale che fa sorgere questa esperienza e forma di pensiero, la causa strategica che produce l’operaismo è il grande Novecento. L’operaismo deve essere letto in questo senso, e non a caso è stato meno effimero del sessantottismo. In questo l’operaismo è simile al femminismo, perché ha indicato una sorta di forma radicale rivoluzionaria. Questo viene verificato compiutamente dalle vette che queste insorgenze producono. Il Sessantotto ha prodotto una élite che facilmente è stata integrata e assimilata dalle successive forme di potere, cioè ha prodotto una sostituzione delle classi dirigenti. Sia l’operaismo che il femminismo, invece, hanno prodotto élite che non hanno subito questa assimilazione. Quindi, l’operaismo è cultura del Novecento, pratica del Novecento, è politica del Novecento.

Penso che nel Novecento ci siano state due rivoluzioni: una è la rivoluzione operaia, l’altra è la rivoluzione conservatrice. Due forme di rivoluzione su campi opposti che hanno prodotto una vera e propria epoca rivoluzionaria, indipendentemente dal fatto che l’una o l’altra di queste rivoluzioni abbiano poi prodotto l’inverso e l’opposto di sé. La rivoluzione conservatrice è caduta nelle forme del totalitarismo politico, la rivoluzione operaia in una forma di realizzazione del socialismo. Ma questa non è una eccezione, quanto piuttosto una ricorrenza della storia. Quando i grandi progetti si rovesciano nel proprio opposto, ciò non annulla mai la causa del progetto. Ed è sempre un errore giudicare il progetto dall’esito in cui poi si è realizzato. Bisogna salvare l’idea del progetto in sé. L’operaismo si è posto sulla linea di confine tra il progetto rivoluzionario e il fallimento della sua realizzazione. Proprio nel momento in cui l’operaismo emergeva, si verificava il fallimento della rivoluzione operaia che tendeva alla costruzione di un’altra forma di società. Lì per lì noi non mettemmo a fuoco questo tema, in parte lo abbiamo fatto in seguito.

Quell’epoca rivoluzionaria è stata seguita da una vera e propria restaurazione. Cioè l’età rivoluzionaria, come tutte le età rivoluzionarie, è stata seguita da una età della restaurazione. Quando si sono concluse le guerre civili europee e mondiali, e si è conclusa quella età con la vittoria di un campo sull’altro, ne è seguita un’epoca di vera e propria restaurazione democratica. Una forma di restaurazione di tipo nuovo, che non ha assunto il carattere tradizionale, ma che si è marcata di una forte innovazione. La grande scoperta, che poi già c’era, ma che si è realizzata concretamente, delle forme democratiche. Nella seconda metà del Novecento noi abbiamo dunque assistito a una forma di restaurazione democratica.

È qui dentro che è segnato il mio percorso. A un certo punto mi sono accorto, dentro il percorso di «classe operaia», nel percorso ripido dell’operaio in lotta, che non eravamo noi a non farcela: era la classe operaia che non ce la faceva più. Non ce la faceva ad abbattere l’avversario di classe. Non ce la faceva senza dotarsi di una armatura politica. Era la forma dell’organizzazione politica, anche se cercavamo una forma dell’organizzazione politica nuova. Ma c’è un paradosso, che forse non ha una spiegazione razionale: mentre Operai e capitale chiudeva il mio operaismo, in realtà apriva una stagione operaista. Questo è stato il passaggio paradossale.

La fase dell’autonomia del politico è stata il tentativo di aggirare la postazione nemica per prenderla alle spalle. Fondamentalmente era questo che io pensavo. Era la continuazione della guerra di classe con altri mezzi. L’idea poi si è impicciata con il compromesso storico. In realtà io ho pensato che l’armatura politica della classe operaia, almeno in Italia, si sarebbe potuta dare nell’unica forza politica che esisteva sul terreno, che era il Pci. Io andavo alla ricerca di una forza politica, che poi ho trovato. Ma ce ne siamo accorti, purtroppo, quando questa forza politica era ormai decaduta al suo interno, poi è scomparsa. L’esperienza operaista ha avuto questo rapporto con un tipo di forza politica che probabilmente non rispondeva alle domande. Contemporaneamente avvenivano quelle trasformazioni oggettive delle condizioni in cui l’operaismo si era costruito che sono state molto più precoci di quanto venga solitamente evocato. È vero quanto si dice degli anni Ottanta, ma già da prima era in atto quella che era anche la trasformazione del capitalismo in una sua nuova forma.

Che cos’è che veniva meno? Venivano meno le forme concentrate della socialità, la concentrazione sia del capitale variabile che della forza lavoro. Veniva meno la dualità forte tra gli antagonismi. Si confondevano le opposizioni e si andava verso una ricomposizione tutta al centro della società. Non a caso c’è stata questa riproduzione allargata di un ceto medio. Il ragionamento che ha fatto Sergio Bologna sul lavoro autonomo di seconda generazione è interessante, ma andrebbe approfondito. C’è questa figura paradigmatica del lavoratore autonomo, che esistenzialmente riproduce una condizione sociale: che cosa è questa se non la figura in cui il padrone e l’operaio si identificano nella stessa persona? Il padrone di se stesso. È venuta meno la scissione tra lavoratore e padrone in un processo di identificazione. Questo però non tiene tutto e lascia fuori molte cose che non riesce ad assimilare, così come le varie forme di lavoro immateriale e basato sul sapere; le lascia fuori, tuttavia, senza la forza di contrapporsi a questa figura totalizzante. E questa figura dominante produce il processo opposto a quello previsto da Marx, che non si è realizzato. Infatti, anziché una proletarizzazione crescente, l’operaio-massa diventò il borghese-massa. Questa figura, tra l’altro, ha occupato gli schieramenti politici. Mentre nel capitalismo industriale anche la sinistra cosiddetta riformista non poteva fare a meno di riferirsi a una forma di lavoratore organizzabile in senso diverso dalle altre forme sociali, in questa forma del borghese-massa non c’è più alcuna forma politica che riesca a distinguersi. Tutti i grandi schieramenti politici formali dell’Occidente ormai descrivono le società divise a metà dal punto di vista del consenso elettorale: ciò è espressione di questa mentalità borghese dominante. Quando vai a votare devi scegliere tra una coalizione di borghesia moderata e una progressista. Queste sono le alternative.

Qui c’è stato un passaggio epocale che noi dobbiamo avere il coraggio di sollevare, anche sulla base del nostro punto di partenza antagonistico. Siamo di fronte al fallimento del progetto moderno. Dobbiamo farlo noi, che veniamo da una posizione radicale e di parte. È un discorso ancora una volta di parte. Dall’idea dell’uomo del Rinascimento, che era una élite aristocratica che doveva diventare un disegno valido per tutti gli uomini, il moderno ha prodotto l’ultimo uomo nietzscheano. Qui, dentro il fallimento del progetto moderno, c’è anche il fallimento della rivoluzione socialista che è parte integrante della modernità. Questo ci fa vedere come quella opzione fosse all’interno della modernità, e come la sua critica implichi una critica ancora più forte del moderno. Ciò per spiegare le ultime mie riflessioni, che altrimenti possono sembrare stravaganti. Credo che a questo punto non possiamo più dire quello che ci dicevamo quando eravamo operaisti, perché la crisi del moderno diventa un’altra delle grandi critiche di parte. La critica del moderno è inoltre anche la critica del socialismo che era parte, conseguenza ed eredità del moderno. E anche forse la forma organizzata di partito era un portato del moderno. Questo ci espone su una frontiera pericolosa, cui ho già fatto riferimento dicendo che la rivoluzione operaia aveva anche un altro tipo di rivoluzione che era quella conservatrice. Non a caso ai tempi dell’operaismo avevamo individuato dei riferimenti culturali nel pensiero della crisi o nel pensiero negativo: perché lì c’erano degli elementi di critica del moderno.

Ora lo dico un po’ scherzando, riteologizzando i concetti secolari. La differenza tra me e Toni Negri non è tanto riconducibile a Spinoza o Hobbes, ma è più profonda: Toni mantiene il paradigma escatologico, io invece assumo il paradigma katechontico. Io penso che noi non possiamo più dire o credere che ci sia un’idea lineare della storia, quindi che comunque sia dobbiamo andare avanti nello sviluppo poiché esso comporterà contraddizioni nuove. Credo che bisogna attendere, non lasciare. Bisogna trattenere l’accelerazione della modernità. Perché questo trattenerla ci permette di ricomporre le nostre forze. Nel frattempo tu puoi organizzare le tue forze, ritrovare le soggettività alternative e comporle in forme organizzate, magari anche nuove. Mentre l’accelerazione produce sì moltitudini potenzialmente alternative, ma queste si bruciano immediatamente. Perché non reggi l’accelerazione, non hai ancora la forza per organizzarle immediatamente.

Quindi, il discorso sulla fine della politica moderna proviene molto dall’istanza operaista, perché ha lo stesso segno di ricerca e scoperta. Ha anche il segno di un qualche cosa che fuoriesce dal discorso corrente e fa capire come quella operaista sia un’esperienza che tutti dovrebbero fare, anche le nuove generazioni. Io consiglio di considerarla come un punto di partenza. L’assunzione di uno stile di presenza propria nella società e nella politica, uno stile che deve essere introiettato profondamente per andare poi oltre. Non bisogna cedere alla tentazione di pensare che i contenuti del discorso possano essere riproposti. Occorre inoltre fare una critica di quanto di mitologico può esserci nel ricordo dell’operaismo, per assumerlo realisticamente come un’esperienza che ha fratturato anche la continuità storica, come esercizio di liberazione da altre cose. Come qualcosa che permette di essere libero per il futuro. Libero sì, senza però mai dimenticare quelle caratteristiche dell’operaismo: il punto di vista, il rapporto tra teoria e pratica, la sua istanza fondamentalmente rivoluzionaria. Tenendo fermi questi punti, poi si può andare ovunque. Perché solo così puoi dire: voi non mi acchiapperete, non mi prenderete. Io sono libero.



Immagine: S.B.


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Mario Tronti è uomo politico, filosofo e scrittore. Negli anni Cinquanta aderisce al Partito comunista italiano. Nella sua riflessione intellettuale accoglie e rielabora politicamente la grande cultura della crisi novecentesca. Con Raniero Panzieri anima la rivista «Quaderni Rossi». Dirige poi «Classe Operaia». Partecipa a «Contropiano». Fonda «Laboratorio politico». Tra gli ultimi suoi libri: Con le spalle al futuro (Editori Riuniti, 1992) e La politica al tramonto (Einaudi, 1998).

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