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Perché profezia e politica? Di questi tempi



Il testo è del 2001 (pubblicato nello stesso anno nella raccolta Cenni di Castella, Cadmo): profezia e politica, due termini apparentemente lontani, un binomio interamente da comprendere, afferrare, praticare. Contro la liquidazione postmoderna del Novecento e il pensiero debole, Mario Tronti afferma la forza del pensiero profetico. Non è l’utopia, il vagheggiare l’isola che non c’è; non è la previsione del futuro, la divinazione dei maghi e dei ciarlatani; non è la fuga nell’intimità del privato. È esattamente il contrario. Profezia significa vedere quello che gli altri non vedono, dire ciò che gli altri non vogliono ascoltare. Profezia politica è pensiero forte, che si arma contro il proprio tempo. Riproponiamo questo straordinario testo per i novant’anni di Mario, che compirà domani, 21 luglio 2021, per continuare a disegnare con lui la misteriosa curva della profezia rivoluzionaria.


Immagine: Christopher Wood


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Perché profezia e politica? Di questi tempi. Dopo la trionfante chiusura del secolo nel segno dell’antipolitica, dopo la tanto attesa, da tutti, rivincita contro le grandi narrazioni che avevano commesso il peccato novecentesco di mobilitare masse di popolo intorno alle utopie del principio-speranza. Ma che lingua parlate? E com’è che non compare la parola globalizzazione? Non c’è universo di senso, se non si usano le parole di tutti. Ora: primo, dell’universo di senso comune, non ce ne importa proprio niente. Secondo, le parole che usano tutti, finiscono per non dire più niente. Io credo che il pensiero, politico, dovrebbe porsi il compito di dettare, in tempi di diffuso conformismo culturale, un altro ordine del giorno.

Allora. Profezia non è pre-dire, non è nemmeno pre-vedere. Il profeta non vede il futuro, vede il presente. Vede nel presente quello che gli altri non vedono, e dice del presente quello che gli altri non vogliono ascoltare. Deve far vedere, far ascoltare. E a volte è necessario il grido nella folla, o il parlare nel deserto. Così i profeti maggiori dell’Antico Testamento, da Samuele a Isaia a Ezechiele a Daniele, con il picco di Geremia, e i profeti minori da Osea a Malachia. In mezzo c’è l’evento tragico, l’esilio e la caduta di Gerusalemme, in cui «il popolo di dura cervice» non vuol prendere atto, né prima né dopo, di ciò che è accaduto. Il profeta dice l’irruzione dell’evento. La parola e la visione sono le armi della profezia: la parola che scuote, la visione che squarcia. «Ecco: io ho messo le mie parole nella tua bocca – dice il Signore a Geremia –. Attento, oggi stesso ti stabilisco sopra le nazioni e sopra i regni, per sradicare e per demolire, per abbattere e per distruggere, per edificare e per piantare» (Gr 1, 9-10). La profezia è pensiero forte. Profetismo ebraico, si dice, per esorcizzare la sua carica dirompente. Ma il profetismo cristiano non è da meno, nella denuncia attraverso il gesto, nella violenza attraverso la parola, nel dramma attraverso la visione. A meno che non si voglia ridurre cristianesimo alla pappa del cuore delle omelie domenicali nelle chiese cattoliche. E non è solo cristianesimo delle origini, da Giovanni Battista a Gesù. C’è anche il seguito, da Gioacchino da Fiore a Sergio Quinzio, per citare solo due nomi. È vero o non è vero che il secondo Testamento, il Nuovo, si chiude con un testo che si chiama Apocalisse?

E qui è il punto essenziale. Il profeta si espone e si arrischia in un faccia a faccia con la storia del suo tempo. Profezia non è utopia. Non è la prefigurazione dell’isola felice che non c’è, del non-luogo da bramare, che è come la finale Salvezza da attendere, magari dall’inarrestabile progresso umano. Il più incatenato dei riformisti lo troverete sempre aperto ai sogni di utopia. L’utopista, infatti, viene accarezzato. Il profeta, invece, nessuno lo ascolta. Perché fa un discorso di verità sul qui e sull’ora. Dice intanto, crudamente, com’è il mondo. E l’evento che irrompe, non lo predica, lo provoca. La storia che vive non l’accetta, la forza nel senso contrario a quello in cui essa spontaneamente va. Nel «deve accadere» sta tutta la potenza della sua parola. Non è messianesimo. O meglio, non lo è, se si predilige la fede nell’attesa di Ciò, o di Chi, un giorno verrà, o ritornerà. Lo è, se interviene, nel mezzo dell’agire, un punto di discontinuità, un atto di rottura, un salto d’epoca. Se si dà risposta politica alla domanda apocalittica. Nulla a che vedere, attenzione!, con il catastrofismo. Benjamin: «che tutto rimanga così, questa è la catastrofe».

Profezia è discorso di libertà. Libertà dal proprio tempo, e da chi lo comanda. I dominatori non hanno bisogno di profeti. Hanno, per servizio, i loro funzionari, tecnici del fare e comunicatori del dire. I peggiori: quelli dal volto umano. Sono gli oppressi ad aver bisogno dell’azione e della parola profetica. Profezia è parlare a nome di una parte, una parte di mondo, perché si riconosca, prenda forza da sé e si sollevi contro.

Badate: questo è un de te fabula narratur per la sinistra contemporanea. Non è forma di intrattenimento per l’anima inquieta di figure stravaganti. Che cosa spiega che si parli politicamente di profezia? È che c’è bisogno di un’altra lingua. Se continuiamo a parlare tutti la lingua dei padroni, come sta drammaticamente accadendo, la cosa è già andata, la prospettiva è già chiusa. Questo poteva farlo, senza cadere in subalternità, solo la classe operaia, con la forza centrale della sua organizzazione. Il problema di oggi, pratico e teorico, è come si esce dalla grande lunga storia del movimento operaio, in avanti, senza tornare indietro, come sta anche qui drammaticamente accadendo. Ci vuole una rottura di linguaggio e uno spiazzamento di orizzonte. Questa commistione del religioso con il politico è solo un esempio. L’altro esempio è il discorso, profeticamente inascoltato, che da anni porta avanti il pensiero femminile. L’attuale ripresa di movimento potrebbe avventurarsi su questo terreno. La politica ufficiale rimane sorda. E finché non sfonderemo qui perderemo sempre. Ma qui valgono le parole della Compièta, che si canta il sabato sera, a luci quasi spente: «la strada è lunga, e già sopra di noi la notte scende».

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