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«Perché mi chiedi di leggere Edward Said se non vuoi che lo usi?»

Intervista a Giovanni Semi sulle mobilitazioni pro Palestina nei campus statunitensi




Le proteste nei campus Usa

Abbiamo posto alcune domande sulle mobilitazioni nei campus statunitensi a Giovanni Semi che, per ragioni di lavoro e di studio, si è trovato a New York nei giorni delle proteste. L’impressione che si ricava dall’intervista è che la guerra in Palestina e Israele sia diventata un nuovo terreno di espressione di quella polarizzazione della società che abbiamo osservato negli ultimi anni. Per ora le proteste sono confinate nei campus e interessano una composizione studentesca che ha scoperto una certa politicizzazione del sapere, a nostro parere problematica ma in ogni caso degna di interesse. 


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AA: Le proteste studentesche contro il genocidio dei palestinesi stanno infiammando le università statutinitensi e in qualche modo si stanno affermando come soggetto politico, tanto che lo stesso Netanyahu è intervenuto per accusarle di antisemitismo, paragonando quello che sta accadendo a quanto accadeva nelle università tedesche negli anni Trenta. Per iniziare ti chiederei di darci un quadro delle università maggiormente interessate.


GS: Faccio intanto una premessa di metodo e di sostanza, un po’ professorale. Mi trovo a New York per un periodo di studio che mi ha visto qui nei mesi di ottobre scorso e aprile. Quindi, per puro caso, ero qui quando l’attentato del 7 ottobre ha riacceso l’orrore in Israele/Palestina ed ero nuovamente qui quando le proteste studentesche hanno ripreso vigore e alzato la posta. Quindi per quanto frequenti spesso gli Stati Uniti, di questa ultima parte di movimento studentesco ho una visione estremamente limitata e concentrata. Nell’università dove sono poi io, che è il Graduate Center di Cuny (una specie di sede centrale dei dottorati e centri di ricerca delle università pubbliche newyorchesi), c’è stata qualche mobilitazione a ottobre e invece un singolare e diffuso silenzio in questo mese. Per quello che ho capito e visto di quello che sta succedendo soprattutto a Columbia, Nyu e New School, la protesta è sostanzialmente studentesca, con un po’ di sostegno esterno da parte di qualche docente (il cui numero però aumenta con l’aumento della repressione). Nel corso degli ultimi mesi, non va dimenticato, importanti e ricche università private del calibro di Harvard, University of Pennsylvania e MIT hanno dovuto difendersi davanti al Congresso dall’accusa di antisemitismo o comunque di non protezione degli studenti ebrei e filo-israeliani (li terrei distinti per ragioni di pulizia concettuale), e questo ha portato le prime due a licenziare i propri presidenti. Nell’ultimo mese, una sorte quasi simile è toccata all’attuale presidente di Columbia, Nemat «Minouche» Shafik, che nonostante la pubblica abiura sembra possa cadere da un momento all’altro. Ecco, in questo quadro di fortissima instabilità nel governo di atenei blasonati, ricchi e molto visibili, altre università si stanno aggiungendo, come Yale, Brown, Berkeley, Austin, Ucla e altre californiane. L’impressione è dunque che la protesta si stia espandendo.



AA: Attorno alla composizione studentesca si sono aggregate anche altre figure sociali oppure si tratta di una lotta prevalentemente universitaria? In questo secondo caso qual è il rapporto con le altre figure universitarie (docenti e ricercatori)?


GS: Al momento sembra essenzialmente una protesta di matrice studentesca, molto radicata dove è anche presente una forte componente arabo-musulmana, e in una saldatura piuttosto chiara con quelle aree di studio e di ricerca che sono a cavallo tra le scienze umane e quelle sociali, che qui negli Stati Uniti, soprattutto le prime, hanno da anni una forte impronta critica, sia essa di matrice post/de-coloniale o femminista e queer (lo spauracchio, per intendersi, della destra repubblicana e di quel caos discorsivo che loro designano come woke). I docenti, che qui possono essere molto più radicali che da noi, anche se non necessariamente più marxisti o strutturalisti o comunque non in maniera «ortodossa», mi pare intervengano poi a sostenere e proteggere, più che ad alimentare la lotta. Una studentessa l’altro giorno a Columbia aveva un cartello che mi sembra esemplificativo e chiaro: «Columbia, perché mi chiedi di leggere il Prof. Edward Said se poi non vuoi che lo usi?». Altri legami con l’esterno onestamente non si vedono o sono minoritari. Ho parlato con alcuni tassisti, baristi e commercianti arabi che ho incrociato in questi mesi e mi pare che, al netto di un loro posizionamento chiaro e tutto sommato scontato sulla vicenda, non riconoscano di avere granché in comune con gli studenti. Aggiungerei, a ragione. Nel senso che se guardiamo la composizione di classe degli studenti e degli atenei in questione, in moltissimi casi siamo precipitati in mondi dell’upper class globale. Certo, ci sono diverse borse di studio e alcuni percorsi che consentono a pochi fortunati e poche fortunate di studiare quasi gratis, ma sono una goccia rispetto ai paganti e alla condizione incredibilmente favorita che condividono. E non è quella di tassisti di Uber o dei cassieri di 7Eleven.


AA: Quali sono le forme di lotta più diffuse e quali sono le contromisure adottate dalle istituzioni?


GS: Sulle forme politiche adottate, direi che qualche occupazione simbolica e molto temporanea di alcuni spazi chiusi, la richiesta di gruppi di studio e di dibattito e molta politica digitale sono stati gli strumenti più diffusi. In ottobre c’erano anche diverse manifestazioni per la strada o in piazze «storiche» come Union Square o Times Square, qui a New York, e queste erano decisamente più partecipate e multiformi. In questo mese non si sono viste, e direi che la protesta è tutta interna ai campus. Sono tutte proteste estremamente pacifiche, più di resistenza passiva che di altro, come è il caso delle tende che spuntano un po’ ovunque nelle aree verdi dei campus. A questo dobbiamo aggiungere un clima però molto teso, interno agli studenti, tra gruppi filo-israeliani e anti-israeliani che hanno usato, soprattutto i primi, la gogna pubblica per diffamare i secondi. Per esempio, come ormai è prassi universale, girano continuamente documenti da firmare, con questa e quella posizione, soprattutto nei primi tempi. Ecco, i nomi dei firmatari che chiedevano la fine immediata del primo assedio di Gaza si videro diffamati da camioncini che circolavano all’esterno dei campus e che avevano degli schermi digitali sulle fiancate dove comparivano nome e cognome degli estensori e si chiedeva di espellerli o peggio. Questo uso dei camion-schermo è stato usato e pagato dall’estrema destra americana soprattutto all’inizio.

Le istituzioni hanno gestito queste proteste in maniera sparsa e con un certo disorientamento, perché da un lato il tema del «freedom of speech» qui è costituzionale, ed è nel primo emendamento, quindi si è aperto quasi immediatamente un vaso di Pandora sulla sua interpretazione. Va detto poi che veniamo da diversi anni, non mesi, di dibattito su questo tema, proprio perché è stata l’estrema destra a usare come cavallo di troia il primo emendamento, sostenendo le peggio teorie cospirazioniste, creazioniste, razziste o semplicemente false, con il solo scopo di mettere le università in difficoltà e inventandosi quella colossale bufala che è il wokismo, qualsiasi cosa voglia dire. Quando è accaduto il 7 ottobre, un vaso di pandora già ampiamente fessurato, è andato in mille pezzi.



AA:Che impatto stanno avendo queste proteste all’interno dei campus? Quali dinamiche si sono aperte?


GS: Le università americane non sono né identiche tra loro, né monolitiche al loro interno. Ci sono college sperduti negli stati centrali che vivono nelle loro piccole bolle periferiche e dove non succede nulla o quasi, e poi grandi università private e pubbliche che invece vedono lotte intestine e proteste alimentarsi a vicenda. Una cosa molto importante da non perdere di vista su questi mondi, è il ruolo che la filantropia e le donazioni hanno nel completare il budget complessivo, nell’orientare le scelte strategiche, nel costituire una sorta di consiglio di amministrazione fantasma che nei momenti importanti, come quelli che stiamo vivendo, alza la voce e ottiene risultati concreti. Ne ha scritto in maniera fondata e interessante Marco D’Eramo in Dominio, ed è una lunga storia di finanziamenti privati di questa o quella fondazione, questo o quel gruppo di interesse, questa o quella personalità del mondo industriale, della finanza, e ora del tech. I donors, cioè i donatori, sono tanto più cruciali quanto più rilevante è l’università e una loro minaccia di ritirare finanziamenti o, peggio, di spostarli altrove, fa cadere amministratori, determina la fine o l’inizio di programmi di ricerca, accende infinite diatribe su temi generali (come appunto il diritto d’espressione) per giungere poi a risultati particolari, direi anzi «di parte». In questi mesi, diversi di questi interessati finanziatori hanno espresso con forza e rabbia il proprio disappunto su quello che, a loro dire, stava minando la tradizione liberale delle università dove hanno studiato (un’usanza spesso rispettata qui è di mantenere una relazione con gli ex studenti, gli alumni, riunendoli in associazioni che, a loro volta, sono sede di contrattazione per finanziamenti e donazioni). Alcuni donors hanno esplicitamente chiesto il licenziamento di questo o quell’amministratore, talvolta riuscendoci. Aggiungiamo a questo quadro già complesso e ambiguo, il fatto che ci sono due questioni politiche tra loro legate e in corso in questi mesi: le elezioni presidenziali americane e i processi a carico di Trump (in corso, mentre scrivo, proprio a New York). Non ci poteva essere tempesta più perfetta, tanto che è ragionevole pensare che molta della conflittualità e della repressione che le proteste studentesche hanno incontrato, dipenda più da queste due questioni che dalle proteste in sé. Di sicuro, ci sono quotidiane manipolazioni di quello che accade negli atenei da parte di eletti e candidati. Quando il ciclo politico incrocia delle istituzioni in crisi, il risultato non è mai positivo. La reazione istituzionale è dunque estremamente rigida e poliziesca, con centinaia di arresti sino a qui (mal contati oltre 700, ma in aumento), e un clima interno ai campus estremamente teso. Il semestre didattico finisce tra pochi giorni e maggio è mese di studio che porterà poi agli esami, ma in alcuni atenei come Columbia, la dirigenza ha prima imposto il passaggio di tutti gli insegnamenti in modalità remota, per poi concedere quella ibrida, ma dando soprattutto l’impressione di non essere in grado di tenere una posizione per più di due o tre giorni di fila. Questo uso emergenziale della didattica digitale, credo meriterebbe una riflessione a sé stante e dovrebbe suggerirci di rivedere criticamente alcuni passaggi della gestione pandemica, quando l’accelerazione a favore di questi strumenti ha anche aperto la strada ad usi repressivi molteplici, che si dispiegano con tutta calma da quel momento in poi. Diversi dipartimenti hanno raccolto firme e argomentato molto chiaramente la loro netta contrarietà alla gestione degli eventi di queste due settimane e si sono presi la briga di mettere nome e cognome dei docenti e di uscire pubblicamente anche senza posizioni unitarie (diversamente da come accade spesso in Italia dove pare che sia uno scandalo se non c’è la firma di tutti i docenti su un documento e si passano ore a cercare mediazioni bizantine). Ho visto, per mia comodità e vicinanza, quelli dei sociologi e sociologhe di Nyu e Columbia, dove non è che insegnino Kim Jong Un o il fantasma di Rosa Luxembourg, ed erano espliciti e diretti: le loro università stanno correndo un enorme rischio di stabilità, le violenze contro gli studenti non sono accettabili, nessuna sanzione ulteriore è ammissibile e diverse delle accuse sono puramente pretestuose. Si chiede di reintegrare gli arrestati il prima possibile e di tornare a tutelare il diritto a manifestare le proprie idee. Quest'ultima cosa è quello che chiede però anche la destra, con la solita aggiunta di manette, carcere e (interessati) cambi ai vertici. Il primo emendamento vibra nell’aria, con usi e risultati imprevedibili.


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Giovanni Semi è professore associato di Sociologia all'Università di Torino. Nelle sue ricerche si è  occupato di fenomeni migratori, mutamenti della struttura sociale  italiana e trasformazioni urbane. Breve manuale per una gentrificazione carina (Mimesis, 2023) è la sua ultima pubblicazione.


Antonio Alia ha coordinato la redazione di commonware.org, con cui ora cura l'omonima sezione. La sua formazione da militante è iniziata con il movimento dell'Onda.




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