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Per la critica della libertà




A fine marzo sarà in libreria, per la collana Input di DeriveApprodi, un nuovo libro di Gigi Roggero: Per la critica della libertà. Frammenti di pensiero forte. Utilizzando differenti registri teorici, armato di spilli acuminati e pazienti riflessioni, l’autore mostra come nella modernità capitalistica la libertà sia diventata un valore e un dogma, legata alla proprietà privata, all’individuo borghese e al totalitarismo democratico. Solo voltando le spalle all’opinione pubblica, si può allora guardare in faccia una libertà che è un campo di battaglia, che ci pone di fronte alle più mostruose paure e alle più grandi possibilità. Anticipiamo la prefazione, l’introduzione e la postfazione del volume.


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Avviso ai naviganti

Questo pamphlet ha cominciato a essere scritto nell’estate del 2021. Da un anno e mezzo la pandemia aveva inghiottito l’attenzione mediatica e dunque dell’opinione pubblica. Sembrava che non si potesse parlare d’altro, che bisognasse velocemente schierarsi tra sì vax e no vax, che fosse necessario scegliere i virologi di fiducia con la stessa cura con cui si sceglie la squadra del cuore. Nei luoghi di lavoro, al bar, sui bus, per la strada, c’era un solo argomento di cui chiacchierare.

Un anno e mezzo dopo, con buona pace del mantra rituale, tutto è esattamente come prima. Maledettamente identico, banalmente normale. La pandemia è quasi dimenticata, ovvero ridotta a trafiletto marginale. Non è passato molto tempo, si potrebbe dire. Ma la durata del tempo dipende dall’unità di misura che si adotta. E questo specifico tempo in cui viviamo, non il tempo presente bensì il tempo del presentismo, pretende di abolire la durata. L’istante è tutto, il processo è nulla. Oggi l’hic et nunc non è più grido di battaglia contro la nostalgia romantica del passato e l’attesa salvifica del futuro. È, meramente, simbolo della liquefazione postmoderna del tempo storico. Presentismo, nostalgia e utopismo hanno questo in comune: privano il presente di genealogie, di prospettiva, di storicità. E dunque di possibilità di rottura e trasformazione radicale. Finché noi ci rifugiamo nel qui e ora e lasciamo la longue durée nelle mani del nostro nemico, non ci sarà partita.

D’altro canto, anche il lettore distratto che voglia intraprendere lo sforzo di percorrere questo testo, si renderà subito conto che pandemia e dintorni costituiscono un semplice attacco retorico. Un casus belli, fugace ed effimero come qualsiasi fatto di cronaca. Terminato l’attacco retorico non ne resta più traccia, abbandonati all’oblio che meritano. Oltre l’insignificanza del caso particolare, resta la questione centrale: come fare la guerra. Le armi della critica, certo, senza cui la critica delle armi è velleitaria. Perché senza pólemos non c’è politica.

Bellum, già. Ora che la guerra ha prepotentemente occupato il centro della scena, gli altri argomenti di cronaca sembrano spariti o non più così rilevanti. O almeno, sarà così finché la merce-guerra non annoierà, diventando notizia quotidiana, allora dovrà essere soppiantata da qualcos’altro in grado di solleticare i volubili appetiti delle masse consumatrici. Del resto, riducendo anche la guerra a cronaca, il bellum viene svuotato di ciò che è: evento tellurico, rimessa in moto di forze impreviste e imprevedibili, immane tragedia e terribile occasione. Anche la guerra, però, immersa nel liquame dell’opinione pubblica, diventa argomento astratto, disincarnato, effimero. Qualcuno, invece, potrebbe rendersi conto che la guerra non è mai sparita, combattuta con armi tradizionali in luoghi remoti, e alle nostre latitudini con altre armi, invisibili e altrettanto micidiali. La guerra della normalità, che abbiamo subito senza rendercene conto.

La guerra, potremmo dire, sprigiona libertà, nel senso che tenteremo di affrontare. Libera, cioè, le più terrificanti paure e le più inaspettate possibilità. Vediamo già facce scettiche, sgomente, irritate. Non ci premuriamo di spiegare. Lasciamo che la spiegazione possa essere trovata nel corso della lettura. Dove si tenterà di mostrare perché la libertà non è né buona né cattiva: la libertà è.

Quindi voi desiderate che libertà e tragedia, libertà e terrore, libertà e guerra vadano insieme? Noi non stiamo qui parlando di desideri. Non ragioniamo in termini di dover essere, laddove il metro di giudizio sono i gusti individuali. Lasciamo tutto questo al mercato capitalistico. Noi diciamo che così è, che lo desideriamo oppure no. O il desiderio, infatti, è radicato nella materialità, oppure è mera consolazione utopica, vuota speranza, pappa del cuore. Qualcosa da disprezzare, certamente da rifiutare.

Chi ragiona nei termini della cronaca, trova esclusivamente lì le proprie unità di misura, i propri schieramenti, i propri scopi. Con gli aggressori o con gli aggrediti, o con la guerra o con la pace, tertium non datur: questo è il ricatto di chi accetta le coordinate temporali dell’opinione pubblica. Quando il dito indica il nemico nella medaglia, gli stolti si accapigliano sulla faccia da scegliere. Non conta quello che c’era prima dell’istante, non conta quello che potrebbe esserci dopo. Quello che conta è parlare e far parlare di sé, qui e ora, anche se non si ha niente da dire. Anzi, proprio perché non si ha niente da dire. L’influencer sta al militante come l’opinione sta alla forza, come la bolla sta alla parte, come l’effimero della moda sta alla materialità dello stile. In termini schmittiani, come il mare sta alla terra. L’influencer è un servo che crede di essere padrone, il militante è chi vuol far saltare per aria quella soluzione dialettica. L’influencer tifa, il militante organizza. L’influencer vende merci, il militante ne distrugge la forma. L’influencer è il prodotto della cronaca, il militante agisce dentro e contro la realtà.

Perché la cronaca non è la realtà. La cronaca è una realtà collassata nel presentismo, priva di storia e di radici, di prospettive e di possibilità sovversive. Allo stesso modo, l’opinione non è il punto di vista. L’opinione è un punto di vista collassato nell’individualismo, privo di riflessione partigiana e potenza collettiva, della fatica del concetto e della costruzione dei rapporti di forza. L’opinione politica è un diritto dell’homo democraticus, scandita dal tempo vuoto della cronaca. L’agire politico è una conquista del militante rivoluzionario, segnata dalla tragica grandiosità dell’epoca. Democrazia o rivoluzione, ecco il punto. Consumare una libertà che impedisce di essere liberi, oppure al contrario cercare di essere liberi criticando la libertà. Questo è il problema. Qui bisogna costringere la materialità del pensiero ad avanzare.



A mo’ di un’introduzione. Voltare le spalle all’opinione pubblica


Nella tempesta fra tutte più sacra / cada in rovina il muro del mio carcere / e avanzi il mio spirito / sovrano / libero / nella terra sconosciuta. F. Hölderlin, Le liriche


Questa la sapienza della cella. Io perdo il mio tempo e guadagno il mio spazio. C. Schmitt, Ex Captivitate Salus



«Libertà, libertà!» – urlano no vax e dintorni. «Libertà fa rima con responsabilità» – rispondono sì vax e dintorni. Politici, filosofi, tastieristi anonimi si «scannano». La gente, insomma, questa vecchia parola diventata insulso neologismo. Le virgolette sono d’obbligo, perché in questi tempi fagocitati dal diritto all’opinione nessuno si scanna sul serio. Il vuoto della chiacchiera è la misura della cronaca contemporanea. E in quel vuoto non succede mai niente di sostanziale, per quanto – o meglio proprio perché – ogni giorno si annunci che nulla sarà più come prima. Allora niente di tragico, si dirà: ecco, è proprio questo il problema. Che tutto è sempre come prima, che questo mondo vorrebbe cancellare il tragico e imporci una gioia inebetita. Lasciamoli «scannare» dunque, perché non è la nostra battaglia. Anche le radici materiali dei comportamenti, quando arrivano a essere opinione pubblica, sono sciolte nel mare acido della massificazione democratica. Non è lì che possiamo afferrarle, organizzarle, deviarle, rovesciarle. E prendere posizione nel vuoto della cronaca, significa semplicemente farsi inghiottire da quel vuoto – un vuoto incluso nel pieno del capitale e da esso prodotto.

Non è un caso che destra e sinistra, assi ormai esausti della dialettica dell’illuminismo, si riallineino attorno alla cronaca della pandemia. E tuttavia riavvolgono, dal loro grottesco crepuscolo, la storia della modernità. Sovranità dell’individuo versus sovranità dell’interesse generale. L’attacco ai no vax porta a un rinnovato oggettivismo scientista, così come l’attacco ai sì vax a una rinnovata esaltazione della chiacchiera. Comte o Habermas, il risultato non cambia. Fiducia nella razionalità della scienza da un lato, fiducia nella razionalità dell’informazione dall’altro. O entrambe, insieme: i no vax fanno appello all’autorità della loro vera scienza, i sì vax all’autorità della loro vera informazione. In salsa moderna o postmoderna sono tutti figli minori dell’Illuminismo, mescolati nel soporifero cocktail di uno status quo in cui ognuno può quotidianamente cambiare la propria identità, più facilmente di come si cambia un vestito o uno smartphone. Perché l’identità è una merce, anzi è oggi una delle merci principali. E, come si sa, la merce ci rende liberi. Ci illude di poter sfuggire alla miseria e al vuoto della nostra vita, proprio nella misura in cui riproduciamo quella miseria e quel vuoto. Cambiate tutte le identità che volete, purché non cambi mai l’identità del dominio.

Per diversi anni le opzioni cialtronescamente definite «populiste», da chi del populismo non conosce la nobile tradizione, sono state etichettate come fasciste, da chi del fascismo non conosce l’ambigua storia. Si può usare il termine fascista come insulto, allora ce ne sarebbero di più fantasiosi ed efficaci; ignorandone il significato si può usare il termine populismo per indicare chi «parla alla pancia» del popolo, ma almeno prima andrebbe definito cos’è il popolo. Nulla di tutto questo. Più che fascisti, queste macchiette sono degli estremisti liberali. Nella pandemia le destre, che fino a qualche anno fa venivano ritenute inarrestabili e magari torneranno a essere ritenute tali, avrebbero potuto giocare la carta dello Stato forte, al contrario hanno giocato l’opzione dell’individuo debole. A sinistra, l’ordine del discorso è ancora una volta patetico e ideologicamente valoriale. Ci vacciniamo per i nostri nonni, così come difendiamo l’ambiente per i nostri futuri nipoti. Gli uni almeno li abbiamo conosciuti, gli altri non sappiamo neppure se mai esisteranno. Ma tant’è, l’interesse generale è per definizione astratto. E in quanto generale e astratto, è sempre l’interesse del capitale.

Ci diranno. Non rompete le scatole con le vostre dissertazioni, ci fate solo perdere tempo: e di tempo da perdere non ce n’è, la cronaca incalza e si misura in nuove unità di tempo – i post, i tweet, i like. Non arrivare un instagram dopo, ecco l’imperativo. Per arrivare dove? Da nessuna parte, ecco il dramma. Ci muoviamo esclusivamente sul giorno prima o sul giorno dopo, entrambi inutili peraltro, un anno diventa un’era geologica, genealogie e processi storici sono annullati. Il tempo dell’opinione non è il presente: è l’istante. E l’istante non è la contingenza in cui colpire, il troppo presto o troppo tardi leniniano, ma la sua neutralizzazione, una quotidianità molle e indistinta. Del resto, immaginazione e desiderio di ricerca non sono qualità proprie di questo piccolo tempo, tanto piccolo da non poter aspirare a essere un’epoca. Perché con l’immaginazione e la ricerca si potrebbe trovare ciò che non ci aspettiamo, che ci spiazza, che ci inquieta. Potremmo aprire il campo della libertà, cioè un grande campo di possibilità del tutto differenti e contraddittorie. Una libertà terrificante e potente, un mostro pauroso e affascinante, con cui tutto può succedere. Una libertà né buona né cattiva, perché buono e cattivo appartengono a giudizi morali che quella libertà tentano di edulcorare e mistificare.

Ecco di cosa tratta questo pamphlet: la libertà come problema, non come soluzione. Ovvero, afferma che quando la risposta è la libertà, la domanda è sbagliata.

Li sentiamo, li vediamo. Si scansano indispettiti, indignati, irridenti. Di chi ride senza ironia, cioè senza capacità di andare fino in fondo alla tragicità del mondo. Di chi galleggia sulla superficie, naviga nella propria bolla, si rifugia nelle piccole tribù. Perché la superficie ci tranquillizza, la bolla ci rassicura, la tribù ci riconosce. Allontanatevi, e lasciateci vivere nel mercato delle identità open source.

Hanno ragione, almeno in questo. Anche per noi è meglio, molto meglio allontanarsi. Voltare le spalle alla cronaca e all’opinione pubblica, prendere le distanze dal tempo. Non per rinunciare ad agire su di esso, ma al contrario per poterlo meglio aggredire. Lo diciamo subito: questo pamphlet è nemico dell’opinione pubblica e irriducibile alla cronaca. Anche quando sembra avvicinarsi, addentrarsi, discuterla, lo fa per marcare la distanza. Perché questo è il punto: prendere parte, rispetto al vuoto della cronaca, significa marcare la distanza. Chi vuole potrà intuire dei confronti con discorsi esistenti, potrà cogliere critiche e contrapposizioni. Ci sono, nella misura in cui sono utili; sono superflue, se non lo sono. Non concediamo nulla all’economia politica del sapere e al vezzo accademico della continua citazione, cioè alla volgare contabilizzazione ed esibizione narcisistica delle supposte conoscenze. Ci limitiamo a usare, piegare e perfino brutalizzare le citazioni che ci servono, perché il resto distrarrebbe dal nostro obiettivo: provare ad andare fino in fondo alle cose, alla loro radice. E la radice è sempre in alto.

Con ogni probabilità non ci riusciremo, quasi certamente falliremo. Quando si ragiona in termini collettivi, di parte appunto, non si può essere spaventati dal fallimento: a spaventare, semmai, è l’accettazione di riuscire individualmente. Così, quando le due dimensioni che ci circondano sono il labirintico carcere della libertà d’opinione, per dire ciò che gli altri non vogliono sentire non ci resta che provare a volare. Anche con le nostre precarie ali di cera. Non per dare l’esempio, né tanto meno per testimoniare qualcosa. Esempi e testimonianza, infatti, appartengono all’egocentrismo dell’individuo liberale, ciò che noi vogliamo distruggere. Se pensate che ci sia in queste parole un rifugio utopistico, non avete capito nulla. Il realismo rivoluzionario ha sempre significato non farsi catturare dai padroni della realtà. Il punto è che dal labirinto della servitù democratica non se ne esce accettandone il campo di gioco. O proviamo noi a imporre il campo, oppure il campo ci imporrà quello che ora siamo. O proviamo a costruire il tempo, oppure il tempo costruirà noi.

Ci viene, ancora una volta, in aiuto il nostro Nietzsche: «per esercitare in tal modo la lettura come arte, è necessaria soprattutto una cosa, che oggidì è stata disimparata proprio nel modo più assoluto – ed è per questo che per giungere alla “leggibilità” dei miei libri occorre ancora del tempo – una cosa per cui si deve essere quasi vacche e in ogni caso non “uomini moderni”: il ruminare…».



Post scriptum. Elogio della militanza

Dopo aver concluso, prima di ricominciare da capo, ancora qualche parola su libertà e militanza. Parole probabilmente superflue per chi ha avuto voglia non solo di leggere ma di capire. Perché in questo pamphlet non si parla d’altro. Perché non siamo capaci, non vogliamo e non abbiamo alcun interesse a parlare di altro. Perché non potremmo parlare di altro.

I demoni dostoevskijani, dicevamo. L’individuo che va in analisi quei demoni li vorrebbe scacciare, l’individuo che si sente un vincente crede di poterli controllare. Il militante si limita a nutrirli, con metodo. «Si è rovinato la vita», quante volte avrete sentito parlare così di un rivoluzionario, soprattutto in periodi in cui, ufficialmente, quella che si chiama rivoluzione non c’è. Esattamente, questo fa un militante: agisce per rovinare la vita a sé e agli altri, con metodo e progetto, cioè rovinare il destino che il capitale cuce addosso a ognuno di noi, come una seconda natura. Solo rovinando quella vita se ne può costruire un’altra, radicalmente differente, contrapposta, rovesciata.

E il militante, lo spirito libero, anche quando si declina al singolare, quando è smarrito o addirittura apparentemente solo, non è mai un individuo moderno: in ogni tempesta, sempre, agisce ed è agito, pensa ed è pensato dalla propria parte, esistente o da costruire. Al di fuori della parte cessa di essere, perde il suo spirito libero, cioè torna tra le mura del suo carcere individuale.

No, nulla di eroico. E non è neppure, semplicemente, un problema di sacrificio, per quanto il sacrificio sia parte della militanza. È la costruzione di una natura innaturale, imprevista, di un destino che rompe con il destino a noi prescritto. La militanza è infatti una libertà che diviene necessità. Una necessità cui non si può più sfuggire, perché significa divenire quello che siamo. Libera volontà che diventa volontà necessaria, fato soggettivo di chi ha spezzato le leggi del fato. Quando un militante comprende questa necessità, la assume fino in fondo e cerca di esserne continuamente all’altezza, ricordando che questa necessità viene dalla libertà, può essere in pace con se stesso. Per andare, ogni volta dal principio, in guerra con il mondo.



Immagine

Arrigo Lora Totino, “l’eèillì”, 1967 (l’editore resta a disposizione per eventuali aventi diritti)


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Gigi Roggero è ricercatore militante. Collabora con la rivista «Machina» e cura la collana Input. Tra le sue pubblicazioni con Deriveapprodi: Elogio della militanza (2016), Il treno contro la Storia (2017), L'operaismo politico italiano (2019).

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