Riprendendo alcuni spunti e suggestioni di un articolo di Patrick Cuninghame pubblicato in questa sezione lo scorso dicembre (Negri a Francoforte. La polemica tra la Teoria critica e il marxismo autonomo), Marco Cerotto approfondisce una parte della diversificata genealogia che porta allo sviluppo del cosiddetto «neomarxismo» italiano. Lo fa in particolare attraverso la figura di Panzieri – a cui lo stesso autore ha dedicato un prezioso volume uscito di recente nella collana Input di DeriveApprodi (Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi») – in relazione con le analisi della teoria critica francofortese, a cominciare da quelle di Friedrich Pollock. Per questa strada l’autore individua la specificità dell’operaismo italiano, nelle sue differenti espressioni, rispetto agli intellettuali francofortesi e alle loro tesi sull’alienazione consumistica e sull’integrazione della classe operaia. Il contributo si conclude aprendo un’altra riflessione importante, sulla rilettura marxiana condotta dalla «Neue Marx-Lektüre» e da Hans-Jürgen Krahl. Per approfondire i temi dell’articolo, oltre al testo e al volume già indicati, consigliamo la lettura del contributo di Diego Giachetti Panzieri e le minoranze comuniste del suo tempo e lo «Scavi» dedicato a Panzieri, a cura di Sergio Bianchi e Alessandro Marucci.
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Influenze culturali del marxismo occidentale
Recentemente è stato pubblicato un articolo piuttosto interessante e che ha proposto un’indagine molto accurata sulle influenze degli intellettuali francofortesi sull’operaismo italiano, in particolare su Negri. Si tratta di uno scritto di Patrick Cuninghame, pubblicato su «Machina» a dicembre 2020, il quale tenta di delineare un quadro innovativo delle numerose assonanze e dissonanze tra la «Teoria critica» e l’operaismo italiano. Anzitutto, condivido il punto di partenza individuato da Cuninghame analizzando gli sviluppi politici del neomarxismo italiano, ossia il condizionamento della tradizione consiliarista, ma è utile precisare l’eterogeneità degli operaismi, all’interno dei quali emerge la specificità di scuole politiche e culturali che concorrono a determinare l’evoluzione del pensiero teorico dei diversi intellettuali-militanti del neomarxismo italiano degli anni Sessanta e Settanta.
Eppure, se volessimo concentrarci sulle assonanze teorico-politiche che hanno riunito i protagonisti di quella florida stagione operaista, allora concordiamo con Cuninghame che si possono individuare determinati processi di natura storica e politica, i quali hanno orientato l’indirizzo della scuola nuova del marxismo occidentale. Infatti, seguendo il valido ragionamento di Enrico Donaggio, risulta indispensabile focalizzare l’attenzione su una data che assume un’importanza straordinaria per gli sviluppi della storiografia marxista del secolo scorso, ovvero il 1923. In quello stesso anno vennero pubblicate contemporaneamente Storia e coscienza di classe di György Lukács e Marxismo e filosofia di Karl Korsch, che segnano indiscutibilmente «le coordinate del marxismo occidentale»[1], poiché sviluppano un’analisi critica delle teorie marxiane piuttosto innovative e decisamente dissonanti con l’elaborazione in fieri del marxismo sovietico. Aggiungiamo, inoltre, che in quello stesso periodo l’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte attuava una piccola, ma allo stesso tempo urgente e fondamentale, rivoluzione nell’assetto organizzativo della dirigenza, che da quel momento fu guidata da Max Horkheimer e dai suoi più fidati colleghi, Adorno, Marcuse, Pollock, Fromm, Löwenthal. La successione dell’Istituto francofortese rappresenta certamente un momento di straordinaria rilevanza teorico-politica per gli sviluppi del marxismo occidentale del Novecento, poiché questi intellettuali prendevano nettamente le distanze dalla dirigenza che li aveva preceduti, ovvero da quelle concezioni teleologiche sul socialismo interpretato come meta finale di un processo storico deterministico, in quanto leggevano la storia come «progresso dialettico della ragione» riflettente un approccio sulla «modernità come intreccio di razionalizzazione e reificazione»[2].Da questa impostazione, ne discendeva conseguentemente una dissonanza teorica con la lettura terzinternazionalista, che rincorreva la possibilità del crollo improvviso del sistema capitalistico sotto il peso della «anarchia della circolazione»; eppure, osservava Horkheimer, «la società borghese non è immediatamente andata in rovina a causa del principio anarchico che la governa, ma è invece rimasta in vita», mostrando manifestamente «l’effetto regolatore dello scambio»[3], ossia l’importanza del carattere pianificatorio dell’economia capitalistica.
Influenze culturali del neomarxismo italiano
Durante la metà degli anni Cinquanta il movimento operaio italiano stava affrontando una delicata crisi che coinvolgeva sia il piano della teoria che quello della prassi. Se le canonizzazioni terzinternazionaliste sul crollo del capitalismo e sull’inevitabile passaggio al socialismo impedivano uno sviluppo scientifico delle teorie marxiane in grado di interpretare la fase nuova, gli eventi politici del XX Congresso determinarono ipso facto una stasi nelle strategie di lotta nei paesi occidentali. Consideriamo, inoltre, che in Italia si manifestò una tremenda anticipazione del «trauma del ’56» con l’esplosione del nostro indimenticabile ’55 alla Fiat di Torino, dove la Fiom perse per la prima volta la maggioranza alle elezioni per rinnovare le commissioni interne nel più grande stabilimento industriale del paese.
A tal proposito, Raniero Panzieri si era distinto dalla maggioranza degli intellettuali dell’ambiente del marxismo teorico durante gli anni della sua attività culturale condotta per il Partito socialista (1953-1958), conducendo una seria battaglia politica atta a contrastare la deriva zdanoviana e staliniana del partito-guida e della partiticità della cultura marxista. Ma dopo il 1955 alla Fiat e il 1956 in Unione Sovietica, Panzieri si convinse della impellente necessità di approfondire la dinamica del recente sviluppo capitalistico italiano e, strettamente connesso, indagare sui caratteri di quella forza-lavoro formatasi nel clima nuovo delle grandi fabbriche. Se i riferimenti internazionali possono essere individuati in quelle «coordinate del marxismo occidentale» a cui facevamo riferimento sopra, dobbiamo necessariamente considerare le coordinate del neomarxismo italiano, la cui opera di Galvano Della Volpe concorse a influenzarne l’intero cursus studiorum. L’interpretazione inedita della scienza marxiana avanzata dal filosofo romagnolo nell’immediato dopoguerra ha il merito di concepire il marxismo come un’operazione di rottura totale nei confronti sia dell’hegelismo che dei suoi predecessori proto-romantici, rappresentando perciò una novità teorica di straordinaria importanza che irrompe in un clima denso di ortodossia, all’interno del quale prevaleva l’egemonia storicista e gramsciana. Si può certamente affermare che l’elaborazione singolare di Della Volpe rappresentò una lectio magistralis per tutti quegli intellettuali marxisti che iniziarono a distaccarsi dalla tradizione storicista già durante gli anni Cinquanta, indagando sulle trasformazioni strutturali che stavano dinamicamente plasmando l’intera società italiana e perseguendo la volontà politica di sperimentare nuove vie strategiche con il sopraggiungere delle lotte operaie dei primi anni Sessanta[4]. Se gli intellettuali del marxismo ortodosso sono impegnati nella ricerca di una coerente continuità tra la democrazia liberal-borghese e quella socialista, esaltando le eredità positive del liberalismo per un’affermazione deterministica del socialismo, gli esponenti del marxismo critico rifiutano l’interpretazione teleologica del socialismo come meta finale di un processo meccanicistico e concepiscono invece il socialismo come il momento di rottura contro il caotico movimento del modo di produzione capitalistico. La democrazia socialista appare completamente antitetica alla democrazia borghese e il nesso dialettico che si instaura tra i due termini si rivela infine di mutua esclusione e non come superamento positivo.
Ciò spiegato, si comprendono coerentemente le intenzioni di Panzieri e Libertini quando pubblicano su «Mondo Operaio», nel 1958, le Sette tesi sulla questione del controllo operaio, che animarono un duraturo dibattito nell’ambiente dei partiti di classe. Questi però all’unanimità condannarono le Tesi giudicandole, oltre che anacronistiche, soprattutto pervase di «economicismo corporativo» o peggio di «estremismo storico», che esaltando la lotta operaia al momento della democrazia diretta delegittimavano di fatto il ruolo dirigente del partito. Dopo una meticolosa analisi indirizzata alla ristrutturazione neocapitalistica, la critica principale delle Tesi è rivolta alla democrazia formale che trova nel parlamento la sua espressione più coerente, quando invece bisognerebbe spostare l’asse dell’intervento nei luoghi della produzione dove hanno origine i «rapporti reali e ha sede la reale fonte del potere», come viene specificato nella tesi n. 2, «La via democratica al socialismo è la via della democrazia operaia»[5]. I due socialisti di «Mondo Operaio» rifiutano la strategia gramsciana, che affidava al proletariato la realizzazione della rivoluzione democratico-borghese, soprattutto quando a dominare non era più un capitalismo debole – come emergeva ancora dalle analisi dei partiti di classe –, ma un capitalismo «egemonico», «totalitario», che rendeva inefficace la prassi politica del movimento operaio, sia nella traslazione negli istituti che non rappresentano il centro della lotta di classe, sia nella concezione delle alleanze che si sarebbero evolute in integrazioni per la classe operaia. Panzieri e Libertini criticano aspramente il sillogismo per cui la via democratica corrisponda precisamente alla lotta parlamentare, e rilanciano invece la prospettiva del consolidamento del potere operaio nelle sfere produttive, nella misura in cui la «capacità di esercitare una funzione dirigente all’interno delle strutture della produzione» corrisponderebbe alla reale potenzialità per la classe operaia di colpire nel cuore del potere e dello sfruttamento capitalistico[6].
La pianificazione nel neocapitalismo. Un confronto critico-dialettico tra Panzieri e Pollock
Nel 1961 vengono fondati i «Quaderni rossi» a Torino, la prima reale esperienza teorico-politica del neomarxismo italiano, la cui attenzione principale è rivolta, da una parte, alle ristrutturazioni dell’organizzazione produttiva, da un’altra, alla composizione della nuova classe operaia che aveva manifestato la propria combattività nei fatti di Genova 1960, a cui fa riferimento giustamente lo stesso Cuninghame. In questa sede specifica non vogliamo soffermarci sul testo chiave del primo «Quaderno», Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo di Panzieri, quanto piuttosto analizzare i numeri successivi e gli studi che hanno come oggetto di ricerca la peculiarità del neocapitalismo, ovvero la pianificazione economica e la regolazione dello scambio attraverso un’innovativa forma statuale, dal momento che si afferma un inevitabile confronto critico-dialettico con la «Teoria critica» e con Friedrich Pollock principalmente. Quando Pollock scriveva che «uno dei nostri assunti di base è che il libero commercio e la libera iniziativa del XIX secolo siano condannati a morte. Ogni tentativo di ripristinarli è destinato a fallire per le stesse ragioni per cui sono falliti i tentativi di restaurare il feudalesimo nella Francia postnapoleonica»[7], siamo soltanto nel 1941, ma gli studi francofortesi si erano spinti molto in avanti rispetto al dogmatismo della Terza Internazionale e al successivo ortodossismo dei partiti operai occidentali dell’immediato dopoguerra. La tesi pollockiana aveva il merito di non afferrare esclusivamente gli sviluppi del regime nazionalsocialista, che tra l’altro possedeva altre peculiarità singolari, ma di comprendere l’evoluzione degli stessi regimi liberaldemocratici. L’intellettuale francofortese osservava come il sistema di produzione capitalistico fosse approdato a una fase nuova, tra l’altro studiata dallo stesso Marx nel terzo libro del Capitale, all’interno della quale il mercato veniva esautorato di quelle funzioni che avevano caratterizzato lo sviluppo storico del capitalismo, ossia di «controllo e di coordinamento della produzione e della distribuzione». Studiando la dinamica del nuovo processo tecnico e razionale che regolava la sfera produttiva e quella circolativa, Pollock si soffermava altresì su quello che risultava essere il fattore propulsivo di questa fase storicamente determinata, ovvero il ruolo ricoperto dallo Stato nella gestione economica. Rispetto alla precedente attività di mero amministratore, com’era stata descritta da Marx, lo Stato adesso diventava un nuovo «strumento di potere» in grado di applicare una metodica razionalizzazione della produzione per «coordinarla ai consumi».
Chiaramente, Pollock precisava che questa nuova e moderna «forma totalitaria» era il risultato di una convergente condivisione prospettica di una parte illuminata della formazione economica dominante, ovvero formata dai «massimi dirigenti industriali e finanziari»[8], i quali puntavano a realizzare un modello di sviluppo economico funzionale al superamento della logica capitalistica che puntava al raggiungimento dei massimi profitti, perseguendo piuttosto una visione progressista basata sulla ricchezza come mezzo e sul potere come fine. Recuperando gli scritti emersi sul terzo numero dei «Quaderni rossi», in particolare il saggio che apre il numero, Piano capitalistico e classe operaia, si legge che «nel suo corso, direzione privata e direzione pubblica si sono intrecciate e fuse in un unico disegno, che presupponeva una visione strategica da parte delle forze di guida della borghesia»[9]. La lezione pollockiana sembrava riecheggiare nell’articolo che apriva il terzo «Quaderno», uscito nel 1963, in quanto sosteneva una tesi piuttosto innovativa sul rapporto che andava consolidandosi tra la formazione economica dominante, e fautrice della manovra neocapitalistica italiana, e la compagine governativa dell’Italia del «miracolo economico». A tal proposito, gli intellettuali dei «Qr» individuavano nelle parti più progressiste del capitalismo italiano, come la Fiat e le aziende di Stato, una precisa volontà politica a perseguire i dettami della pianificazione economica, poiché, avendo pilotato la manovra neocapitalista italiana secondo il modello statunitense, avviavano una programmazione economica «incentrata sulla ricerca delle garanzie di sviluppo a lungo periodo»[10]. La caratteristica fondamentale del piano, applicato congiuntamente sia nella sfera produttiva che in quella distributiva attraverso l’intervento attivo dello Stato, si poneva come valida alternativa alla logica della «anarchia della circolazione», poiché la produzione non era ulteriormente sottoposta «all’anonima e infida scelta del mercato, bensì a una decisione consapevole intorno ai fini e ai mezzi generali»[11].
È importante precisare che questo studio specifico condotto dalla redazione dei «Qr» viene elaborato dopo piazza Statuto, con il sopraggiungere delle prime e insuperabili divergenze e il preludio della scissione. Il terzo «Quaderno» avrebbe dovuto infatti esordire con l’articolo di Tronti, Il piano del capitale, che subì invece l’ostracismo da parte di Panzieri e i «sociologi», i quali si opposero alle tematiche affrontate dal filosofo romano, inserendo comunque l’editoriale all’interno dello stesso numero[12]. Si ricordi che non passerà troppo tempo dall’esposizione della cosiddetta «rivoluzione copernicana» di Mario Tronti, la quale fungerà da base teorica per la successiva esperienza dell’operaismo di «Classe operaia». Pertanto, la rottura dei «Quaderni rossi» manifesta una inconciliabile dissonanza sul piano teorico tra Tronti e le recenti elaborazioni panzieriane, le quali si orientavano verso lo studio della razionalità neocapitalistica, e dell’elemento pianificatorio in particolare, che lo allontanavano dalle conclusioni trontiane tendenti a idealizzare la condizione della classe operaia. Questo ragionamento ci aiuta meglio a comprendere la premessa che ho sollevato nel primo paragrafo, rimarcando rispetto a Cuninghame l’eterogeneità culturale e politica dei neomarxisti italiani, la quale si manifesta irreversibilmente nella rottura dei «Quaderni rossi». Il confronto con Pollock, quindi, si propone di collocare le analisi panzieriane in una prospettiva più ampia e non circoscritta all’ambito prettamente italiano.
Analizzando brevemente anche il quarto numero dei «Quaderni rossi» uscito nel 1963 e che riporta il titolo Produzione, consumi e lotta di classe, possiamo osservare le molteplici assonanze teoriche tra questo e le analisi pollockiane, in particolare il testo di Panzieri Plusvalore e pianificazione si pone sulla stessa continuità della lettura dialettica, e non dogmatica, della «Teoria critica». Gli sviluppi economici e sociali degli anni Sessanta sentenziavano la caducità della formula marxiana della «anarchia nella circolazione», sulla quale si era basata l’intera tradizione leninista, risultando inadeguata per comprendere scientificamente l’evoluzione del modo di produzione neocapitalistico, che invece riusciva ad autolimitare la produzione e a estendere il controllo sulla stessa classe operaia regolarizzando il conflitto di classe. La lettura trontiana, in definitiva, divergeva totalmente dall’elaborazione matura di Panzieri della scienza marxiana, la quale si oppone alla concezione deterministica del filosofo romano, viziata dalla tradizione terzinternazionalista secondo Panzieri, che propone infatti di indagare l’elemento della pianificazione capitalistica in quanto avrebbe rivelato l’affermazione di una fase moderna e scientificamente strutturata per mantenere intatta la base di dominio su cui si fondava il potere capitalistico. Ancora sulle tracce della teoria critica francofortese, e di Pollock principalmente, Panzieri sosteneva che la pianificazione svolgesse una funzione fondamentale per lo sviluppo capitalistico nella fase storicamente determinata del «miracolo economico», palesando l’anacronismo teorico del marxismo ortodosso che conservava ancora una visione idilliaca del piano. Nonostante Panzieri affermasse, seguendo il ragionamento di Pollock, che la nuova organizzazione del lavoro tendesse a integrare la forza lavoro nei rapporti privati di produzione, constatando che «di fronte all’intreccio capitalistico di tecnica e potere» le forze produttive venissero «plasmate dal capitale»[13], non sentenziava tuttavia l’avvenuta depoliticizzazione dei conflitti sociali, come l’intellettuale francofortese aveva sostenuto, ma che si verificasse un antagonismo radicalizzato nel rifiuto soggettivo al lavoro oggettivato. Questa particolare posizione teorica enfatizzava la dissonanza operaista dall’interpretazione del neocapitalismo fornita dalla «Teoria critica», e rappresenta la specificità politica operaista di Panzieri, il quale non appiattiva l’indagine sul nuovo modo di produzione all’asservimento e all’integrazione totale della forza lavoro nei moderni rapporti di produzione capitalistici, ma anzi proponeva di analizzare scientificamente l’elemento vivo del processo capitalistico, ovvero la classe operaia.
Questo discorso ci rimanda inesorabilmente all’ultimo intervento pronunciato da Panzieri un mese prima della sua improvvisa scomparsa, ovvero Uso socialista dell’inchiesta operaia, riportato postumo nel quinto numero dei «Quaderni rossi» usciti nell’aprile 1965. La prima parte dell’intervento è incentrata su una serrata critica al dogmatismo marxista, il quale tacciava ancora la sociologia di appartenere alle scienze borghesi, e precisava che la scienza marxiana avesse invece tutti i presupposti teorici per essere concepita come una sociologia politica. La seconda parte dell’intervento rilanciava la necessità di indagare la nuova classe operaia con «un’osservazione scientifica assolutamente a parte»[14]. L’inchiesta diventava il metodo scientifico qualitativamente funzionale per indagare sui processi che agiscono sulla nuova forza lavoro che si è formata negli sviluppi neocapitalistici; in particolare, l’inchiesta a caldo avrebbe permesso di studiare la dialettica conflitto-antagonismo e cioè comprendere scientificamente le esigenze espresse dalla classe operaia, sia nel momento di maggior conflitto dualistico sia, e specialmente, nei periodi più statici, per analizzare infine il grado di maturità e di solidarietà della classe nell’opporre un coscienzioso rifiuto al sistema capitalistico, evitando formulazioni avalutative, ovvero ideologicamente condizionate dalla forte combattività operaia espressa in quegli anni e che avevano contribuito a fuorviare le conclusioni teoriche dello studio trontiano. La nuova soggettività operaia si differenziava nettamente dai precedenti storici e richiedeva un approccio teorico multidisciplinare e l’applicazione di un particolare modus operandi, come l’inchiesta e la conricerca, che avrebbero rivelato i mutamenti sociologici della classe operaia generata da una struttura capitalistica totalitaria.
Il problema della soggettività nel neocapitalismo. Integrazione o rifiuto cosciente?
Dopo un breve soggiorno teorico di Panzieri a Francoforte, si vuole richiamare l’immediato ritorno del militante socialista a Torino, capitale del neocapitalismo italiano e teatro politico di una forza lavoro senza precedenti storici nella storia della lotta di classe tra capitale e lavoro salariato. Se infatti gli eventi di Genova ’60 avevano determinato il corso teorico-politico del primo operaismo italiano, quelli di piazza Statuto del 1962 concorsero a definire i percorsi del filone successivo, con la scelta di Tronti, del gruppo romano, di Negri e di altri di fondare «Classe operaia». Ma anche i nuovi cicli di lotte operaie influenzarono segnatamente i risvolti teorico-politici dell’ultimo operaismo, quando l’incontro inedito delle masse studentesche con quelle operaie, sul tumulto delle esplosioni internazionali, sancirono una nuova e importante tappa nella corrente neomarxista, la quale tentò di risolvere il nodo irrisolto dell’operaismo italiano, ossia quello dell’organizzazione, respingendo sia la tesi panzieriana dell’«avanguardia interna» al sindacato, sia quella trontiana sul condizionamento del Pci, avanzando invece la necessità di una nuova formazione rivoluzionaria.
La «specificità italiana», dunque, influenza e contraddistingue la lettura marxiana fornita dagli operaisti italiani rispetto a quella elaborata dai precursori francofortesi, dai quali ereditarono parte del patrimonio culturale, sviluppando una ricchissima produzione critica nell’ambito del neomarxismo europeo. Se prendiamo in considerazione gli scritti maturi degli intellettuali francofortesi, collocati tra il 1960 e il 1969, emerge indiscutibilmente la prospettiva «pessimistica» per dirla con Panzieri, inerente all’avvenuta integrazione delle forze produttive nei rapporti privati di produzione. Adorno, seguendo il suo ragionamento, constata come «in un mondo che è insieme automatico e pianificato» e da cui discende l’ingente «offerta di merci che li inonda [le forze produttive], come pure l’industria culturale e gli innumerevoli meccanismi diretti e indiretti di controllo mentale», allora si comprende come l’analisi dell’intellettuale francofortese concepisse l’avvenuto «trionfo dell’integrazione»[15]. È il solo pensiero di Marcuse che si differenzia sia da Adorno che da Horkheimer, nella misura in cui individuerà nella formula del «grande rifiuto» rivolto nei confronti di una «società e un pensiero totalmente amministrati» la soluzione più efficiente per opporsi sistematicamente al capitalismo totalitario degli anni Sessanta. Infatti, sull’onda della contestazione internazionale, Marcuse rivolgeva il suo appello a questa massa eclettica di «disperati», «dannati della terra», assegnandole una funzione di «avanguardia rivoluzionaria» per la costruzione di una «umanità migliore»[16]. Mentre Horkheimer, così come Adorno, si convincerà della necessità di «preservare ciò che ha un valore positivo, come per esempio l’autonomia della singola persona: l’autonomia del singolo», ovvero si trattava di salvaguardare ciò che nei decenni precedenti la «Teoria critica» aveva concepito come una nuova forma di sistema totalitario, il «liberalismo»[17]. Questo ripensamento traspare già negli anni precedenti, come testimonia una corrispondenza tra Horkheimer e Adorno, riportata da Donaggio e risalente al 1958, all’interno della quale si esplicita il compito che gli intellettuali francofortesi si proponevano di assolvere nei nuovi assetti socio-politici del dopoguerra, vale a dire la tutela, non più della «realizzazione rivoluzionaria della filosofia ma ciò che resta della civiltà borghese»[18]. Paradossalmente, nello stesso anno della lettera scritta da Horkheimer e indirizzata al collega Adorno, in Italia furono pubblicate le Tesi, come abbiamo sottolineato, le quali indicavano la prospettiva del controllo operaio nelle strutture della produzione per una ripresa concreta di una strategia anticapitalistica negli anni del boom. Lo stesso Panzieri, in un intervento pronunciato al seminario di Agape organizzato dai «Quaderni rossi» nell’agosto 1961, elaborava una critica piuttosto interessante alle formulazioni della «Teoria critica», proponendosi di confutare le tesi sull’integrazione delle forze produttive nei moderni rapporti di produzione neocapitalistici. L’intellettuale socialista affermava infatti che nonostante si fosse imposto un processo tecnico-scientifico nella sfera produttiva e plasmante la stessa sfera circolativa, siffatte «tecniche di integrazione» non assolvevano la medesima funzione razionalizzante per il «capitale variabile». Consideriamo che in ottobre sarebbe uscito il primo numero dei «Qr» concentrato sulle lotte operaie nel neocapitalismo, e Panzieri aveva già elaborato la sua analisi sull’uso capitalistico dei mezzi di produzione tecnologici, ma non perdendo mai di vista la connessione di questi studi con le potenzialità del lavoro vivo, ossia del rifiuto soggettivo al lavoro oggettivato. Pertanto, criticando ancora queste ideologie che esprimevano «l’angoscia dell’uomo medio contemporaneo alienato nei consumi», Panzieri rilanciava affermando che se era constatabile, per una parte, che l’introduzione della tecnologia e la conseguente automatizzazione del processo produttivo comportavano una sussunzione del capitale costante su quello variabile, da un’altra parte si verificava una oggettiva «impossibilità di ottenere una razionalità globale a livello sociale»[19]. La particolarità teorica italiana si evince in questo intervento di Panzieri, il quale, nonostante prenda seriamente in considerazione gli sviluppi delle teorie francofortesi, assume tuttavia una posizione critica nei confronti delle soluzioni politiche indicate negli scritti maturi, poiché enfatizza – marxianamente – la centralità della produzione, concepita come «radice» del potere dispotico del capitalismo. Nonostante l’evoluzione tecnica e scientifica del modo di produzione, Panzieri è un convinto sostenitore della lettura che individua nelle forze produttive la potenzialità di «rovesciare quei processi»[20] privati all’interno della sfera direttamente produttiva e su cui si fonda la struttura del potere diseguale del sistema economico capitalistico.
In conclusione, a differenza di Cuninghame che richiama l’attenzione sui successori francofortesi, come Offe e Habermas, si vuole fare riferimento all’esperienza tedesca della «Neue Marx-Lektüre» per delineare affinità e divergenze tra questa e i francofortesi, e ancora tra questa e l’operaismo italiano. Si tratta di un discorso che richiederebbe di essere approfondito dettagliatamente, ma di limitiamo ad anticipare soltanto una riflessione che interessa lo studio fin qui condotto. Sulle tracce della Scuola di Francoforte, a partire dalla metà degli anni Sessanta, si sviluppavano le riflessioni inedite della «Neue Marx-Lektüre». Anche gli intellettuali di questo filone del neomarxismo tedesco condividono l’avversità nei confronti di ogni concezione storicista del marxismo e propongono un radicale ritorno a Marx, rifiutando sia le interpretazioni economicistiche di matrice anglofona, sia l’interpretazione deterministica del divenire storico di ascendenza hegeliana. Certamente, le principali novità teoriche elaborate dagli esponenti della «Nml» concernono la teoria del valore attraverso una demistificazione delle riflessioni in auge sul valore-lavoro, elaborate sia da intellettuali marxisti sia da intellettuali critici del marxismo, entrambe accomunate, secondo Hans-Georg Backhaus, da un’incomprensione della teoria del valore. La particolarità di una figura emblematica come Backhaus consiste nel posizionarsi sulla stessa linea teorica dei principali neomarxisti europei del triangolo filosofico più espressivo degli anni del boom economico, asserendo la necessità di sviluppare il pensiero marxiano riportandolo nel vivo della realtà neocapitalistica e soffermandosi principalmente sulle incertezze teoriche del Capitale per elaborare una teoria filosofica del valore, del lavoro e delle merci, che richiedeva urgentemente di essere analizzata per comprendere scientificamente i processi affermatisi con i recenti sviluppi del neocapitalismo degli anni Sessanta. Eppure, questo lavoro di analisi dell’opera marxiana attuato dai principali esponenti della «Nml» si collocava, diversamente dagli sviluppi del neomarxismo italiano sopra considerato, su un versante preminentemente teorico evadendo il delicato momento della prassi politica.
Fu il celebre allievo di Adorno, e studioso di Backhaus, Hans-Jürgen Krahl a rompere con il modus operandi dei suoi colleghi e a prediligere la costanza della strategia politica accanto alla rielaborazione teorica. Il leader della sinistra studentesca della Germania occidentale propone una sintesi delle elaborazioni adorniane sulla totalità del rapporto capitalistico con quelle trontiane sull’articolazione dei rapporti sociali come riflessioni implicite dei rapporti privati di produzione, ma opponendo a siffatte interpretazioni piuttosto parziali e unidirezionali la concezione per cui le contraddizioni della dicotomia capitale-lavoro salariato si manifestano in molteplici espressioni all’interno della dinamica neocapitalistica, dagli operai in fabbrica agli studenti universitari, convergendo con la tesi negriana dell’affermazione dell’operaio sociale.
In definitiva, se gli intellettuali francofortesi hanno rappresentato degli importanti punti di riferimento per lo sviluppo della complessità ed eterogeneità delle esperienze neomarxiste delle «nazioni europee filosoficamente più significative»[21], bisogna d’altro canto specificare la distanza che separa gli intellettuali operaisti italiani e la singolare figura della «Nml» Hans-Jürgen Krahl dai precursori della «Teoria critica», in quanto l’operazione di riattualizzare la scienza marxiana negli sviluppi neocapitalistici tendeva a considerare unitamente il processo del modo di produzione capitalistico e l’elemento vivo di quello stesso processo, vale a dire la classe operaia. Certamente, come abbiamo cercato di chiarire in questo contributo, l’attenzione teorica rivolta alla soggettività emergente nel neocapitalismo, e le diverse soluzioni politiche indicate dalle componenti dell’operaismo italiano e dall’esponente della «Nml» Hans-Jürgen Krahl, si differenziano a loro volta poiché forniscono una lettura specifica della condizione della classe operaia condizionata dagli sviluppi della fase economica storicamente determinata, che meritano essere ulteriormente approfondite.
Note [1] E. Donaggio, Introduzione, in Donaggio, a cura di, Adorno Fromm Horkheimer Löwenthal Marcuse Pollock. La Scuola di Francoforte. La Storia e i testi, Einaudi, Torino 2005, p. XXI. [2] Ivi, p. XXIII. [3] M. Horkheimer, Teoria tradizionale e teoria critica, in Donaggio, Adorno, cit., p. 45. [4] M. Fugazza, Dellavolpismo e nuova sinistra. Sul rapporto tra i «Quaderni rossi» e il marxismo teorico, «aut aut», n. 149-150, 1975, p. 127. [5] R. Panzieri, La crisi del movimento operaio. Scritti interventi lettere (1956-1960), a cura di D. Lanzardo – G. Pirelli, Lampugnani Nigri Editore, Milano 1973, pp. 109-110. [6] L. Libertini – R. Panzieri, Sette tesi sulla questione del controllo operaio, in AA. VV., La sinistra e il controllo operaio, Libreria Feltrinelli, Milano 1969, pp. 44-45. [7] F. Pollock, Capitalismo di Stato. Possibilità e limiti, in Donaggio, Adorno, cit., pp. 157-158. [8] Ivi, p. 159. [9] Piano capitalistico e classe operaia, in «Quaderni rossi», n. 3, 1970, p. 1. [10] Ivi, pp. 2-3. [11] F. Pollock, Capitalismo di Stato, cit., p. 162. [12] Per un approfondimento maggiore cfr. il mio volume M. Cerotto, Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi». Alle origini del neomarxismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2021, p. 57. [13] R. Panzieri, Plusavalore e pianificazione, «Quaderni rossi» n. 4, 1970, p. 271. [14] R. Panzieri, Uso socialista dell’inchiesta operaia (dal seminario tenutosi a Torino, 12-14 settembre 1964), «Quaderni rossi», n. 5, 1970, p. 70. [15] T.W. Adorno, Società, in Donaggio, Adorno, cit., pp. 325-326. [16] Donaggio, Introduzione, cit., pp. XLIII-XLIV. [17] M. Horkheimer, La teoria critica ieri e oggi, in E. Donaggio, a cura di, cit., p. 381. [18] M. Horkheimer, Gesammelte Schriften, in Donaggio, Introduzione, cit., p. XL. [19] R. Panzieri, La ripresa del marxismo-leninismo in Italia, a cura di D. Lanzardo, Sapere Edizioni, Milano 1972, pp. 196-198. [20] Ivi, p. 213. [21] G. Cesarale, Filosofia e capitalismo. Hegel, Marx e le teorie contemporanee, Manifestolibri, Roma 2012, p. 86.
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