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Nota introduttiva alla ristampa di «classe operaia»





Nel 1979 Machina Libri decideva di ristampare «classe operaia», affidando l’introduzione a Toni Negri. Riproponiamo qui il testo per dare seguito al dibattito ex post su quell’esperienza, perché esso non si limita affatto a uno scritto di circostanza. Al contrario, Negri riflette criticamente sui limiti e sulle impasse di «classe operaia», per non tramutarla in un’inutile reliquia o in un vacuo simbolo di rassicurazione «in tempi così atroci». In particolare, sostiene che la trasformazione della composizione di classe e del soggetto di riferimento, ossia il passaggio dall’operaio massa all’operaio sociale, necessita nuovi strumenti per affrontare le inedite ambiguità e contraddizioni che le lotte hanno fatto emergere.


* * *


Perché ristampare «classe operaia»? La decisione non è stata mia: alcuni compagni ritengono utile intraprendere questa iniziativa e mi chiedono di fare una introduzione. Debbo comunque rispondere alla proposta, in maniera affermativa o negativa. Tanto vale dunque fare l’introduzione. Ma solo per argomentare: che cosa?

Il mio consenso o il mio dissenso. Sfoglio le pagine della rivista: mi ci ritrovo, il mio ricordo ci si ritrova. Quante riunioni, quante amicizie fatte e disfatte, quante giornate di tipografia (sì, perché eravamo io e Manfredo Massironi a impaginarla e a farla in tipografia per un paio d’anni). Quante emozioni. Dunque, «classe operaia» va ripubblicata; per quale ragione? Perché è la dimostrazione di una nobile ascendenza delle posizioni politiche che gran parte del movimento svilupperà negli anni successivi? Perché è, con i «Quaderni rossi», la solida pietra sulla quale una nuova corrente del pensiero politico italiano, marxista e proletaria, è venuta costruendosi? E non sono in Italia? Perché dunque ha una particolare importanza scientifica e le persone che hanno collaborato alla sua fattura, fanno – in una maniera o nell’altra – parte della storia del movimento proletario chez nous?

Non mi soddisfano queste ragioni. Che «classe operaia» sia un pezzo di storia, va bene: ma allora ne va verificata politicamente la sua attualità, o meno, direttamente, senza soffermarsi sul feticcio «rivista» degli «anni Sessanta»: feticcio favoloso quanto per certi versi fuorviante. Quanto all’importanza scientifica di «classe operaia» va notato che coloro che vi hanno collaborato sono andati avanti, su da quella esperienza: e hanno fatto i loro libri nei quali con maggiore ampiezza e con maggior rigore hanno sviluppato il loro pensiero politico. Studiamo dunque i loro libri, direttamente. E allora perché, di nuovo, ristampare «classe operaia»?

Debbo sinceramente riconoscere di non saper dare una risposta, dal punto di vista di uno degli autori di quell’impresa. Rivediamo allora la questione dal punto di vista dell’utenza. «classe operaia» va ristampata perché i militanti politici di oggi possano avere a disposizione un testo al quale confrontarsi e sul quale misurarsi. Ma direi che questa ragione non giustifica affatto la ristampa. Infatti i militanti del proletariato, oggi, son persone fortemente diverse da quel ceto politico che allora esprimeva una rivista come «classe operaia». Il discorso «operaista», in senso stretto, della rivista non corrisponde neppur lontanamente a quelle che oggi sono le concezioni della lotta di classe che il militante medio, autonomo, l’operaio sociale degli anni Settanta e Ottanta posseggono: all’orizzonte che si sono costruiti con tante lotte e con una riflessione critica così profonda. Già negli anni scorsi, quando feci vedere a militanti tedeschi o americani, la mia collezione di «classe operaia» (oggi questa collezione, rubatami da qualche poliziotto, giace nella polvere di un archivio giudiziario), le reazioni erano già affascinate ma distaccate. Per i nuovi strati di militanti, «classe operaia» è in realtà una reliquia. Come tutte le reliquie può avere effetti di rassicurazione sulle anime belle, certo – e perché negare l’utilità della rassicurazione teorica, in tempi così atroci? Ma, dal punto di vista della lotta politica, questa rassicurazione rischia persino di essere mistificante. Dove sono più infatti le categorie stesse sulle quali il lavoro di «classe operaia» si fondava? Dove i rapporti, ambigui e sotterranei, con il movimento operaio ufficiale che «classe operaia» comunque supponeva? Qual è più oggi il modo di leggere le ambiguità delle quali «classe operaia» ridondava? Quel bell’operaio massa, che a tutto tondo veniva fuori dalle pagine della rivista, era indubbiamente allora, nel panorama della pubblicistica della sinistra rivoluzionaria, una figura nuova: ma oggi dov’è più? Oggi l’attenzione critica e trasformatrice si basa su ben altri, corposi e nuovi soggetti: anche noi, uomini e proletari di oggi, abbiamo il nostro carico di ambiguità nei confronti del nuovo soggetto, ma sono ambiguità esse stesse non riferibili a quella realtà degli anni Sessanta. Non c’è omologia possibile fra «quella» figura dell’operaio massa e l’attuale vivacità del soggetto sociale proletario.

A guardar bene, poi, quella figura a tutto tondo dell’operaio massa che emergeva dalle pagine di «classe operaia» era già una figura vecchia. Noi, di «classe operaia», eravamo un po’ delle nottole di Minerva che apparivano all’imbrunire: scoprivamo la novità della figura dell’operaio massa quando questa figura si era già storicamente consolidata (da almeno trent’anni), era già del tutto matura, era – e questo è quello che più conta – già in corso di superamento. In realtà non scoprivamo una categoria della lotta di classe ma solo denunciavamo il ritardo storico del movimento operaio ufficiale nell’identificare una strategia fondata sulla centralità dell’operaio massa. Di qui una serie ulteriore di ambiguità: quest’operaio massa che venivamo tirando fuori dai dimenticatoi del movimento operaio ufficiale, quest’operaio massa che intagliavamo come figura distinta dall’operaio professionale, in realtà poi lo dipingevamo con vecchi colori. Il nostro operaio massa puzzava di officina Putilov in maniera indecente. Non che nel discorso di «classe operaia» non esistessero momenti di superamento di questa ambiguità non sto dicendo questo.

Risulterebbe comunque molto difficile oggi riconoscere se era più forte l’ambiguità o il suo superamento. Solo il dopo, solo la vicenda storica che comincia appunto quando l’esperienza di «classe operaia» termina, solo questo può dare una risposta.

Ma sicuramente in «classe operaia» manca un gusto per lo stato nascente della soggettività proletaria. C’è il gusto teorico della analisi oggettiva, della identificazione della crisi: l’operaio massa che forza, colto nella sua piena maturità, lo sviluppo capitalistico fino a rovinarne proporzioni e compatibilità. Ma quello che manca è il senso delle relazioni complesse che costruiscono, nella crisi, nuova energia soggettiva, nuovi bisogni, nuovi comportamenti. Certo, la forma della lotta a «gatto selvaggio» è colta ed esaltata: ma riportata a che cosa? Era progettata sul vuoto, non innestata dentro un meccanismo costitutivo di soggettività nuova. I discorsi sull’organizzazione furono, in «classe operaia», prima fumosi, poi unilateralmente rivolti a riscoprire una chiave dialettica nei confronti del movimento operaio ufficiale. Quando, fra il ’66 e il ’67, «classe operaia» chiude definitivamente i battenti, essa aveva sicuramente previsto l’addensarsi della crisi nell’immediata fase successiva. Ma la forma della soggettività nella crisi, la rivolta studentesca, l’impatto del terzomondismo, l’apparizione della povertà proletaria, l’emarginazione, insomma tutte le componenti dell’operaio sociale, tutto questo le sfuggiva, veniva meccanicamente e immediatamente ricondotto alla guida dell’operaio massa. E ciò proprio nel momento in cui tutto si stava rovesciando: era infatti la soggettività sociale del proletariato che conquistava la centralità politica del processo, e aggrediva la fabbrica stessa e il lavoro produttivo, prima dall’esterno, poi dall’interno, modificando la natura stessa del lavoro produttivo e imponendo, nella fabbrica capitalistica, dentro di essa, l’egemonia dei comportamenti nuovi dell’operaio sociale. «classe operaia» aveva registrato la maturità della figura dell’operaio massa, non ne aveva inteso la vera natura però: l’operaio massa non era altro che un termine del passaggio all’operaio sociale, un primo prodotto della dissoluzione capitalistica del mercato del lavoro e un primo agente della trasformazione dell’interesse operaio e del suo trasferirsi dal terreno della produzione a quello della riproduzione. Molti di noi, d’istinto però e non tanto dal punto di vista di una riflessione matura, intendemmo questo: molti anni ancora erano tuttavia necessari perché l’intuizione raggiungesse un’adeguata figura teorica.

Proprio la forza dell’esperienza teorica di «classe operaia», direi la consistenza soggettiva e intellettuale dei collaboratori della rivista, costituì un freno, pesantissimo, allo sviluppo dei germi di analisi nuova che andavano al di là delle esaltazione (storicamente postuma) dell’operaio massa. «classe operaia» è da questo punto di vista un’opera coscientemente, consapevolmente incompiuta. Volutamente incompiuta, in sé: assomiglia all’Ulisse.

Ma come appunto l’Ulisse rischia di castrare, per il paradosso della sua interna compiutezza, ogni ulteriore tentativo dell’avanguardia letteraria, così «classe operaia» blocca lo sviluppo dei temi nuovi che pure comprende. Quali sono questi nuovi temi? Sono essenzialmente quelli che vengono fuori dalla fenomenologia delle lotte, sono quelli che fissano i meccanismi del «superamento» dell’operaio massa, che determinano l’oscillazione delle dinamiche di lotta fuori dal tessuto dello scontro sul salario e cominciano a considerare il rapporto fra produzione e riproduzione. Sono in secondo luogo quei motivi che vengono fuori dalla paradossale inversione della parola d’ordine operaista «Operai senza alleati»: vale a dire che se la fabbrica sociale esiste, in essa non si dà semplice estensione del comportamento dell’operaio della singola fabbrica, bensì si dà una nuova figura sociale, un salto dalla quantità alla qualità, nei comportamenti sovversivi. Infine sono quelli che vengono fuori dell’approfondimento implacabile della critica del lavoro capitalistico, dall’enfasi sul tema del «rifiuto del lavoro»: tema, questo, che non può essere limitato alla casistica sociologica della analisi dei comportamenti, di fabbrica e sociali, ma deve svolgersi in progettazione alternativa della produzione, deve incarnarsi nella tematica della transizione comunista, deve immediatamente trovare un rapporto con lo sviluppo di comportamenti di massa autovalorizzanti. Certo, a volerle leggere oggi, queste cose ci sono tutte in «classe operaia», in seme, con aurorale potenza: ma non è un caso che non emergano, che non diventino da subito elementi fondamentali. È l’organizzazione complessiva del discorso del giornale che lo vieta, è il suo storico ritardo sulla complessità dei movimenti che registra e che «classe operaia» in effetti riconduce alla sola critica dell’operaio professionale, all’identificazione dell’inadeguatezza del sindacato professionale nei confronti dell’operaio massa. Qui il nuovo si autolimita. La ricerca si sbarazza solo a metà dell’ideologia. Di qui l’impotenza pratica. Perché l’intervento, che pure – come già nei «Quaderni rossi» – il corpo redazionale della rivista svolge, attorno alle fabbriche, non riesce a trovare una continuità organizzativa. Non riesce a trovare continuità organizzativa perché l’intervento è puramente definito su scadenze oggettive e non sulla continuità di processi soggettivi. Si stabiliscono scadenze di fabbrica, scadenze di settore, scadenze politiche generali: lo scheletro delle interdipendenze dell’economia dello sfruttamento è evidentemente chiarissimo a «classe operaia», meno evidenti sono i passaggi soggettivi, di organizzazione, il peso dell’intervento come iniziativa continuata, come progetto sul quale non si scarica solo l’intelligenza strategica ma soprattutto la tattica, la partecipazione, la microiniziativa quotidiana. Come le pagine di «classe operaia» documentano (cfr. in particolare le pagine di documentazione del n. 3 del 1965) l’intervento è molto ampio: ma non residua un solo livello organizzativo (salvo alcune eccezioni). L’operaismo si collega a un atteggiamento illuministico che non ha in realtà alcuna speranza di mordere il reale. Dentro queste difficoltà la polemica della rivista, e quella condotta nel corso dell’intervento, si limitano sempre di più alle sole tematiche sindacali. Con comportamento classico della vecchia sinistra terzinternazionalista, l’attacco al sindacato è accompagnato dalla mano tesa nei confronti del partito. E questo proprio quando il fondamentale punto di partenza, sia nei «Quaderni rossi» che nella nuova rivista, era stato il riconoscimento dell’identità del contenuto dell’azione sindacale e dell’azione politica nella società fabbrica della pianificazione capitalistica. Le contraddizioni presto si ritrovano tra i compagni stessi promotori dell’iniziativa: non era infatti possibile diluire la radicalità del progetto senza determinare delle conseguenze pratiche che sarebbero immediatamente ricomparse sul livello teorico. L’impotenza pratica diviene ragione sufficiente di scissioni teoriche.

Alla fine del ’64, un anno appena dal suo inizio, la rivista è in crisi. Le ambiguità si accumulano soprattutto sul passaggio «intervento – sviluppo generale del discorso politico – sue varianti tattiche» per la mancanza di una teoria dell’organizzazione qualsiasi. Nel 1965, anno secondo della rivista, la polemica si apre ferocemente nella redazione. Non sono tanto gli insuccessi pratici dell’intervento a determinarla quanto la riflessione, sempre più pesante, che solo una teoria dell’organizzazione poteva permettere di andare avanti. Ma non solo una teoria dell’organizzazione non c’è: non la si vuole. Una parte consistente della redazione comincia infatti a considerare l’intervento operaio e politico come un puro e semplice strumento di pressione sul livello politico: sul Pci.

Si teorizza l’«entrismo di tipo nuovo». Non più quell’entrismo miserabile che è tradizione dei gruppi minoritari della Terza Internazionale, non più la critica e la pressione politica che si sviluppano sugli snodi dell’organizzazione formale del partito: una pressione e una critica che si vogliono di massa, invece, nella convinzione che il partito, il Partito comunista italiano nella fattispecie, sarà costretto a recepire questa critica e a modificare la sua politica di conseguenza. Il giudizio portato sul sindacato è drastico: nulla può venire dal sindacato, esso è, rimane, ed è bene che rimanga, una pura cinghia di trasmissione del partito. L’intero sforzo del nuovo entrismo va dunque rovesciato sulla lotta politica di partito. Questo è dunque quello che sostiene una parte della redazione della rivista. Sulla base di questo progetto essa si espone sempre più coerentemente in un lavoro di trattativa e di infiltrazione nel sindacato e soprattutto nel partito. Un giudizio molto ottimistico sulla base operaia del Pci tende a elidere ogni considerazione circa il funzionamento del centralismo democratico: rozzamente si considera il rapporto di forza all’interno del partito come omologabile al rapporto di lotta di classe! Lo spessore dell’ideologia di partito, la forza materiale della centralizzazione burocratica, la violenza distruttrice dell’ideologia del lavoro vengono permanentemente sottovalutate. L’entrismo di massa, dentro questo gioco che tende a diventare sempre più e solamente intellettuale, si trasforma presto in entrismo individuale, di vecchio tipo. Alla fine del 1965, dopo che la crisi interna alla rivista aveva già durante l’anno bloccato il suo lavoro, la scissione della redazione è praticamente data. I numeri del ’66 sono già interni all’operazione entrista e impegnano solo una parte di compagni.

Di contro all’entrismo e alla sua storia, dentro al gruppo redazionale di «classe operaia» se ne apre tuttavia un’altra. È la storia dell’operaismo militante, della lotta contro il revisionismo, della lunga marcia per l’organizzazione dell’autonomia operaia e proletaria. Questa storia è ormai molto nota e non val forse la pena di sottolinearla, di tornarci ancora sopra, qui. Chi sostiene questo indirizzo sono i compagni direttamente impegnati nel lavoro politico e di agitazione attorno alle grandi fabbriche del Nord. La geografia operaia degli anni ’68/69 si stabilisce a questo punto. Fiat, Pirelli, Alfa, Porto Marghera: questo adagio di milioni di volantini comincia a costituire l’ipostruttura della coscienza del militante. Ora, già durante l’ultimo anno di redazione di «classe operaia», la vicenda di questi compagni si autonomizza. Formidabili quadri operai prendono la direzione del movimento di contestazione già a partire dal ’65/66.

Ogni compromesso diviene quindi impossibile. Ma non è appunto questa storia che va qui rinarrata. Si deve piuttosto insistere su un fatto, negativo e residuo, che anche l’esperienza e il discorso di questi compagni contengono. Ed è l’incapacità di proporre, per un lungo tempo, di nuovo trovandosi prigionieri delle ambiguità essenziali del discorso teorico di «classe operaia», una tematica dell’organizzazione. Le caratteristiche del gruppo di compagni redattori di «classe operaia» che rifiutano l’opzione entrista (entrismo di vecchio e di nuovo tipo), sono tali che, mentre da un lato l’enfasi sulla forza teorica della prassi è massima, dall’altro la riflessione specifica in proposito è minima. Certo, si punta tutto sull’organizzazione di base ma senza intendere la complessità dei rapporti dialettici che a questa si presentavano. L’organizzazione di base poteva costituire la rifondazione del movimento comunista solo nella misura in cui fosse in grado di dominare la complessità dei rapporti che si stendevano dinanzi a lei. Dentro la lotta continua, dentro la mancanza o la carenza di un’iniziativa adeguata di ristrutturazione del dominio da parte dell’avversario di classe, era possibile immaginare un meccanismo organizzativo che sviluppasse potenzialità complessive, nel senso appunto della continuità.

Ma la lotta di classe non è un continuo. La sua discontinuità poneva inevitabilmente il problema della centralizzazione, della direzione. Questi problemi vengono posti, ma con estrema prudenza: solo con il ’68 entreranno al centro della tematica di massa. Ma troppo tardi. E d’altra parte, nel ’68, paradossalmente (anche) troppo presto: perché infatti, con la ristrutturazione, con la formidabile lotta di resistenza che si apre nei primi anni Settanta, con il trasformarsi della figura operaia egemone, lo stesso problema dell’organizzazione comincia a porsi in maniera diversa, – comincia cioè a porsi come problema di una massiccia e compatta forza operaia che sviluppa la sua autonomia mediando al suo interno azione di avanguardia e azione di massa in termini del tutto nuovi e originali, in termini di autovalorizzazione. Torniamo a noi, torniamo a quegli anni ’65/67, anni immediatamente precedenti il più grande sommovimento di classe che mai le nostre generazioni abbiano conosciuto. Bene, eravamo allora completamente coinvolti in una problematica insolubile: da un lato ci indicavano come via d’uscita realistica quella dell’opportunismo, dell’entrismo, della ripresa di contatto con il movimento operaio ufficiale; ci chiedevano insomma la dichiarazione dell’impossibilità di ogni alternativa organizzativa per la classe operaia e proletaria. Dall’altro lato c’era il rifiuto di tutto questo ma anche l’impossibilità di dare una risposta che coprisse i problemi reali che avevamo davanti. Si scelse l’attesa attiva e operante, si scelse il contatto di classe, la vita interna del movimento, – nel ’65/66/67 nulla sembrava mutato rispetto alla grande crisi del movimento operaio che ci perseguitava dal 1956/58, nulla «sembrava» essersi modificato. E invece, l’attesa, quali che fossero i suoi limiti attuali, quali (e certamente ingiustificabili) che fossero i limiti di discorso e di approfondimento che comportava, pure si rivelò non utile ma eccezionalmente feconda.

D’altra parte, perché farsi prendere dall’impazienza proprio allora, attorno alla fine del 1965? Un decennio era appena trascorso da quando la «grande crisi» s’era aperta nel movimento comunista. 1956-58: attorno alla crisi ungherese, attorno alla prima rivolta operaia contro il regime del socialismo realizzato. Nel 1953 erano stati gli edili di Berlino a muoversi ma l’odio antitedesco non aveva permesso di cogliere la pesantezza della cosa. Nel ’56 non c’erano invece possibilità di confondersi.

In Ungheria la classe operaia in armi non contestava altro che il tradimento e la propria miseria. In Italia siamo al centro della crisi del movimento nella sua forma postresistenziale. Dalla sconfitta del 1953 (alla Fiat) al ’56 il movimento aveva faticosamente tentato di riprendere una figura politica: la lotta operaia ungherese ci ridà fiato e speranza. Esiste ancora un comunismo per il quale lottare. La formazione dei «Quaderni rossi», alla fine degli anni Cinquanta, è il primo coagulo di una speranza comunista che comincia a rivivere, articolandosi con nuove tecniche di ricerca e nuove prospettive di critica radicale. Tutto doveva muoversi: tutto si muove. Genova: 1960. Piazza Statuto: 1962. Il movimento operaio ufficiale e il ceto capitalistico stesso corrono ai ripari: ormai il movimento si è dato gambe per muoversi, occorre quindi stabilire nuovi schemi, nuove linee dentro le quali inglobarlo.

I primi tentativi di riammodernamento capitalistico e riformistico sono però fin dall’inizio inseguiti da una coscienza critica, articolata alle lotte, che costituirà nei successivi decenni la grande dignità del movimento operaio rivoluzionario in Italia.

Gli anni Sessanta sono un grande laboratorio nel quale la sintesi di un nuovo ceto politico rivoluzionario e del movimento reale della lotta operaia cominciano a funzionare assieme. La «grande crisi» comincia a dare i suoi frutti. Certo, malgrado le molte faticose iniziative, malgrado l’altissimo livello del dibattito, il movimento operaio tradizionale resta impermeabile. Vi sono piccoli momenti di crisi, deviazioni, ma la centralizzazione burocratica resiste impavida. Eppure lo sconvolgimento è fondamentale e marcia anche quando non lo si vuol vedere. Personalmente odio tutte le concezioni teoriche che vedono la rivoluzione uscire matura dal cervello di Giove, e cioè dalla casualità. Che la rivoluzione sia un’arte non significa che sia irrazionale, che il suo ritmo sia discontinuo non significa che la sua formazione non abbia le caratteristiche di continuità di tutti i processi materiali. La crisi della fine degli anni Sessanta risponde alla crisi politica del ’56-58: chi l’aveva subita, i vecchi militanti comunisti, gli intellettuali del dissenso ungherese ne sono probabilmente fuori, spiazzati; la dirigenza del movimento operaio tradizionale sembra presentarsi compatta. Ma che cosa è avvenuto di nuovo?

È avvenuto che è stato distrutto il patrimonio ideologico del movimento operaio tradizionale, che il rapporto con la lotta è inventato daccapo, che nuove generazioni si presentano alla lotta non preventivamente mistificate da un’educazione politica arcaica. I «Quaderni rossi» sono il frutto rivoluzionario della crisi politica del ’56-58. Inventano un nuovo metodo di approccio alla realtà delle lotte. Un metodo insufficiente? Certo. Ma è un terreno sul quale la pratica rivoluzionaria diventa possibile, sul quale l’invenzione politica, la fantasia diventano obbligatori. I limiti di quest’approccio sono immediatamente visibili. Opportunismo nei confronti dell’azione sindacale, oggettivismo ed economicismo estremi, confusione sui fini della lotta rivoluzionaria, socialismo latente. Ma la modificazione avviene nella pratica: «Quaderni rossi» portano la rottura – effettuata, stabilizzata – con la linea del movimento operaio ufficiale nell’educazione politica delle nuove generazioni. Le «magliette a strisce» del ’60, i nuovi emigrati cominciano ad avere un cervello.

I limiti di quel movimento non erano superabili all’interno del discorso di «classe operaia». Si sono fatte infinite esercitazioni letterarie per andare a identificare le distinzioni, le differenze, le contraddizioni fra il movimento dei «Quaderni rossi» e quello di «classe operaia»: esercitazioni letterarie, appunto! Tutto si riduce ad alcune incompatibilità e, soprattutto, a un meccanismo di selezione di gruppo dirigente. Con «classe operaia» i «Quaderni rossi» continuano: continuano sulla strada della radicalità, ma continuano anche sulla via dei limiti e delle passività che a qualsiasi attività minoritaria non potevano che derivare dal movimento reale. Continuano girando attorno al problema che era stato, per così dire, solamente annusato: quello dell’impatto sociale dell’operaio massa, quello della socializzazione della sua figura e della sua lotta. Il paradosso e il blocco del discorso sono lì tutti lì: e oggi, guardandoli a distanza, sembra quasi impossibile che si siano dati in quella forma. Ora, da un lato la critica dell’economia politica conduceva alla definizione della società fabbrica; dall’altro l’attenzione politica si confinava su una retorica dell’operaio di fabbrica che, prima di tutto, a questo faceva torto. Da un lato la potenza dello sviluppo capitalistico mostrava la sua forza di espansione mondiale; dall’altro la fantasia politica non sapeva vedere il cumularsi delle lotte dell’operaio metropolitano e del proletario del «Terzo mondo». L’identificazione teorica della centralità della fabbrica si rovesciava in una concezione del lavoro produttivo (del lavoro sfruttato per il plusvalore) che quasi riconquistava toni populistici di esaltazione del lavoro manuale. In «classe operaia» la retorica operaista diviene sempre più forte quanto più diminuisce la capacità di progettazione del gruppo. Su queste incredibili contraddizioni il dibattito ristagna. Eppure bastava andare avanti insistendo sulle premesse, scavandone il presupposto. «classe operaia» non ci riesce. Ci riescono tuttavia i compagni del movimento. Il «buon senso» proletario non s’arresta ai sofismi della teoria. Quando il movimento scoppia e si diffonde in forma massificata tutti questi problemi vengono fusi nell’iniziativa unitaria. La verginità del credo operaista è subito fottuta. «classe operaia» giustamente archiviata. I suoi incredibili limiti non potevano essere superati che da un movimento di massa, da un movimento che dislocasse praticamente il quadro del discorso cui eravamo stati condannati dalle caratteristiche della crisi degli anni Cinquanta: di quella crisi di cui eravamo figli. Ma ora il quadro muta. Ora, con il ’68, una formidabile possibilità di espansione teorica e pratica si dà: prima pratica, poi teorica. Ma dalla pratica è necessario ricavare il massimo: malgrado tutti gli errori precedenti, malgrado tutti i limiti, la maggior parte di noi riesce a ricollegarsi a questa realtà.

Ricollegarsi alla realtà attraverso la pratica significa essere presto in grado di rinnovare anche il livello della teoria. Abbiamo già segnalato alcuni paradossi di cui il discorso di «classe operaia» era ricco. Fondamentale è ovviamente quello che si distende fra concezione della società-fabbrica, dell’espansione ristrutturante dell’iniziativa capitalistica (da un lato) e (dall’altro) la definizione della composizione di classe. Abbiamo già sottolineato come la seconda fosse, inspiegabilmente, arretrata rispetto alla prima: l’unica giustificazione c’è sembrato poterla ritrovare nel fatto che i problemi di «classe operaia» non erano in realtà ancora stati dislocati rispetto alla tematica della crisi del movimento operaio negli anni Cinquanta. Vi sono però degli elementi nel discorso della rivista che possono, più di altri, sostenere il passaggio al superamento delle contraddizioni. Quando il ricollegamento alla pratica, quando il salto che la lotta impone, sono dati, allora questi elementi più di altri contribuiscono allo sviluppo della teoria, – e nella fattispecie allo sviluppo della teoria della composizione di classe. Ora, tutti questi elementi progressivi ed espansivi si collegano proprio al concetto della «centralità operaia». Perché? Perché questo concetto non è inteso in maniera empirica e burocratica (così come ricorre spesso, a tutt’oggi, nel dibattito) ma in maniera scientifica: vale a dire che la concezione del lavoro produttivo operaio era data, in «classe operaia», come idea di un’attività soggettiva, come una realtà insieme intensiva ed espansiva. Intensiva perché appunto il lavoro è la base di tutto il valore possibile e immaginabile, estensiva perché questa concezione del lavoro riconquistava la continuità del ciclo espansivo sociale della riproduzione operaia e proletaria. La pregnanza del concetto di salario nella tematica di «classe operaia» non consiste solamente nell’insistenza della sua variabilità indipendente a fronte della rigidità del comando pianificato, ma anche nella sua potenza collettiva su tutte le articolazioni dell’organizzazione pianificata della società. «Centralità operaia» eguale «potenza sociale del lavoro produttivo», eguale «espansività della soggettività operaia». È ben vero, dunque, che questi elementi restano a lungo nascosti, nella loro potenza, all’interno di un décalage storico e teorico: ma non appena i comportamenti operai riprendono il luogo che debbono avere nella teoria, non appena la lotta operaia riprende per mano e guida il pensiero rivoluzionario, di nuovo, direttamente, questi elementi subito trovano modo di rappresentarsi teoricamente in tutta chiarezza. La forbice che, in «classe operaia», si dava fra concezione oggettivistica della società-fabbrica e soggettività mal sviluppata della composizione, si chiude: la soggettività operaia si eleva al livello, e ben oltre, la capacità capitalistica di controllo sociale. Di conseguenza un altro elemento confuso ma fecondo della problematica di «classe operaia» viene, per così dire, alla luce: si libera cioè delle ambiguità che lo contraddistinguono. Ed è la concezione dinamica del rapporto di capitale. Si era detto che lo sviluppo capitalistico era frutto delle lotte operaie: questa affermazione era rimasta a lungo incapace di produrre teoria, poteva di contro indurre effetti estatici o addirittura mitologie tecnocratiche. Bene, dentro la pratica delle lotte e non appena la pratica rivela la soggettività di classe operaia e il suo grado di espansione sociale, allora si intende che non solo lo sviluppo ma soprattutto la crisi dello sviluppo, e a pari titolo, è frutto della lotta operaia.

Di fatto il rapporto di capitale doveva man mano dimettere la sua forma dialettica, per assumere figura antagonistica, solo e interamente antagonistica, fra due opposte polarità soggettive: classe e capitale. E qui s’intende infine che solo uno sviluppo tematico di questo genere, così imposto dalle lotte, poteva spazzar via l’illusione di riproporre il problema dell’organizzazione operaia nei termini nei quali l’avevamo ereditato dalla tradizione terzinternazionalistica e dalla crisi stessa degli anni Cinquanta. Ma con questi problemi siamo ormai ai nostri giorni, al tessuto della riflessione quotidiana del movimento: le contraddizioni di un vecchio dibattito non risuonano più con intensità.

Vale allora la pena di ristampare «classe operaia»? chiediamocelo infine di nuovo. Mi sono riletto quanto ho scritto fin qui e, forse con contraddizione (ma certo perdonabile), mi sembra di poter dire: sì, pubblichiamola. Ma se lo facciamo, avvertiamo tutti di leggere quell’antica rivista dall’altezza dell’esperienza fin qui fatta, a partire dagli anni ’68-69 fino a tutte le lotte degli anni Settanta. Avvertiamo i compagni che solo in questa prospettiva «classe operaia» ridiventa un testo importante da leggere: poiché costituisce una pietra di quell’edificio dell’organizzazione autonoma del proletariato che stiamo costruendo. Ma una pietra sola, ed essa stessa, per essere utilizzata nella continuità della nostra esperienza di lotta, ha dovuto essere tolta dalla vecchia calce che l’imbrattava, ripulita, scalpellata, e infine ricollocata nelle fondamenta dell’edificio, con un nuovo cemento.

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