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Liberare l’intelligenza dalla professionalità

Considerazioni a partire da un’inchiesta in università




In questo scritto sono presentati i primi risultati di un’inchiesta condotta dal centro di ricerca «officine della formazione», presso l’università di Bologna. Il punto di partenza e, allo stesso tempo, il punto di arrivo di questo lavoro è la centralità dell’industria universitaria nella formazione di forza-lavoro, intendendo tale processo come produzione e riproduzione di soggettività. L’università, dunque, viene analizzata dal punto di vista della soggettività studentesca in formazione. Quest’ultima, ad un occhio disattento, potrebbe apparire completamente smarrita nell’egoistica auto-valorizzazione di sé in quanto capitale umano tuttavia, come sembra mostrare l’inchiesta, sono presenti ambivalenze, potenziali linee di fuga e di conflitto che rendono la produzione della soggettività studentesca non del tutto determinata e aperta ad esiti imprevedibili. Analisi di questo tipo ci sembrano la condizione necessaria per il rilancio di un radicamento organizzativo adeguato alle istanze della composizione studentesca.


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Non ci dilunghiamo eccessivamente nelle premesse, al lettore basti sapere che la scelta delle domande di ricerca di questa inchiesta si è radicata nel punto di vista della soggettività studentesca. Successivamente l’inchiesta si è avvalsa dei metodi dell’intervista qualitativa in profondità (ad un campione rappresentativo di dieci studenti di facoltà diversificate) e del focus group (organizzati nel contesto di alcune lezioni universitarie). Questo lavoro va inteso come il più ampio sforzo teorico-politico di comprendere quale forma organizzativa universitaria cederà il passo al «collettivo», forma di organizzazione che, pensiamo, non sia più capace di comprendere, intercettare, sedimentare le nuove forme di soggettività. Il metodo dell’inchiesta e della conricerca è stato lo strumento privilegiato per raggiungere questo obiettivo. Vale la pena introdurre la discussione con uno stralcio di una delle prime interviste realizzate ad uno studente triennale di antropologia:


«Ora i miei interessi sono diversi: il fatto che abbia deciso di fare cinese e non giapponese mi ha cambiato le prospettive, prima mi dicevo che volevo fare giapponese, ora lo studio ma la Cina è il mio ambito e ci sto facendo la tesi. Tra l'altro ho scelto cinese perché giapponese, ho pensato “il Giappone è piccolo, non mi dà nulla e lo studiano tutti: studio il cinese così posso fare qualcosa nella vita”. Non so antropologia cosa mi dà, ma il cinese mi farà di sicuro trovare un lavoro. Ho pensato a questo perché vengo da un contesto, come quello delle valli bresciane, in cui ci sono tante aziende che lavorano con la Cina. Al massimo faccio da traduttore, infatti ci sono già dei colleghi di mio padre che mi hanno detto: “senti se poi il cinese lo impari bene vieni con noi in Cina”».


Crediamo che questo sia un esempio paradigmatico di come le scelte della formazione universitaria operate dagli studenti siano il risultato di un compromesso tra inclinazioni, curiosità personali e un ritorno occupazionale atteso (qui ad esempio la rappresentazione del mercato del lavoro gioca un ruolo fondamentale nelle scelte di studio). Anticipando la tesi che intendiamo sostenere, diciamo che non ci sembra possibile rintracciare un residuo autonomo (un «fuori», se vogliamo) dalla volontà e dal desiderio di essere formati in quanto forza-lavoro competente e, soprattutto, desiderosa di vendersi sul mercato del lavoro. Per descrivere questo processo impieghiamo il concetto di professionalizzazione. In altri termini: la produzione – come processo attivo, cioè voluto dal soggetto, e allo stesso tempo passivo, cioè subito (soggettivazione e assoggettamento) – di forza-lavoro specializzata pronta per essere inserita nel processo produttivo. L., studentessa di ingegneria, incalzata sul ruolo dell’Università è molto chiara:


«Secondo me l’Università offre una formazione professionale. Ci andiamo per imparare e acquisire conoscenze e competenze che prima obiettivamente non abbiamo. Per quanto riguarda la crescita personale, essa è appunto personale nel senso che sta alla persona ottenerla o meno e si accompagna alla formazione. Dipende dalla propensione del singolo. Comunque, le due cose non sono slegate ma vanno di pari passo. Nel momento in cui mi formo vuol dire anche che sto crescendo, cresco io e crescono le mie capacità di analisi e di critica».


Per L. l’università ha l’unico scopo di formare una forza-lavoro specializzata. Seguendo questa direzione di ragionamento, abbiamo interpretato le parole di F., studente triennale di mediazione linguistica, che riflette sul fatto che al suo percorso di studi non corrisponde una figura professionale univoca riconosciuta formalmente da un albo. F. mette in luce come la formazione universitaria offra, al contrario, una molteplicità di posizioni lavorative tra cui scegliere e come, in qualche modo, debba «costruire da sé» la propria figura professionale, personalizzando la propria formazione. Queste considerazioni ci hanno portato ad affinare il discorso sulla professionalizzazione. Per le facoltà a cui è associata la produzione di una figura professionale specifica (valga come ulteriore esempio quello delle facoltà mediche) il discorso sembra essere chiaro, tuttavia bisogna domandarsi cosa succeda per i corsi di laurea in cui questa figura non rappresenta un esito formalmente atteso. In altri termini, lo spunto che ci ha dato F. può essere applicato alle facoltà in cui la figura professionale non solo è «sfumata», come quella del traduttore ma è assente (filosofia, lettere…)?

Queste argomentazioni vanno lette insieme alle aspettative degli studenti sul proprio futuro. Ci sembra che le interviste dimostrino un complessivo «innalzamento» delle aspettative rispetto al titolo di studio. In altri termini, si studia poiché si ritiene possibile che il titolo renda favorevole la collocazione nel mercato del lavoro. Naturalmente, parlare di innalzamento delle aspettative non significa dichiarare l’estinzione della «soggettività della crisi»[1]. Tuttavia, non abbiamo potuto ignorare questo filo rosso nelle nostre interviste. E., studentessa di veterinaria, ci racconta di come «tutti» le dicono che guadagnerà poco, lavorerà tanto e sarà difficile trovare lavoro. Ma lei ha scelto veterinaria perché ha una passione personale e conclude:


«Io preferirei mille volte fare una cosa che mi dà passione, é quello che mi dà una soddisfazione enorme nella vita più che avere uno stipendio astronomico da utilizzare per soddisfare la mia insoddisfazione. Dovrò un po' arrangiarmi e trovarmi cose da fare nella mia vita lavorativa, nel senso, trovarmi un posto sperando di riuscire a guadagnare abbastanza. Adesso, io non lo so, sarà uno stipendio basso… ma non così basso. Secondo me la cosa più stancante sono le ore di lavoro… il rapporto tra la paga e le ore di lavoro».


Non è secondario rimarcare come questa predisposizione verso il futuro porti gli intervistati ad accettare il sacrificio dello studio e della formazione. E. è realista verso la futura condizione materiale da veterinaria, ma l’aspettativa di poter fare ciò che le piace funziona da compensazione: il risultato netto è positivo e speranzoso verso il futuro. Allo stesso modo, A. ha scelto di iscriversi a scienze ambientali dopo un anno di architettura perché sentiva le maglie professionalizzanti del corso di architettura troppo strette:


«Non ho un’idea chiara di quello che vorrei fare specificatamente, però so meglio di cosa ho bisogno come elementi base del lavoro. Un aspetto di socialità e avere contatto con altre persone e quindi, sicuramente, un lavoro che non sia tra me e il mio computer [come quello dell’architetto]: avere contatto con gli altri in qualsiasi forma. Che non mi faccia stare ferma fisicamente tutto il giorno e tutti i giorni: è una cosa che soffro tantissimo: queste due cose, penso, siano il punto».


Nei nostri termini si può proprio parlare di rifiuto di una certa professionalità ben definita (architettura) per avere «carta bianca» e costruirsi un’altra professionalità. Alla base di questo discorso c’è una fiducia di fondo sulle possibilità offerte dal mercato del lavoro di costruire una professionalità più affine alla propria persona. Che ci piaccia o no, questo sembra essere l’elemento che caratterizza in maniera forte la composizione studentesca. Bisogna sottolineare che l’innalzamento delle aspettative legate al titolo di studio non viene interpretato dagli studenti come un processo lineare e privo di frizioni. Al contrario, si tratta di una vera e propria battaglia per il riconoscimento, che reca tratti anche culturali e generazionali. Durante un focus group tenutosi presso il corso di laurea magistrale in sociologia e servizio sociale due studenti hanno così problematizzato il rapporto tra riconoscimento e titolo di studio:


«Oppure, uno che ha studiato per i fatti suoi ti può sostituire in un'azienda privata. Secondo me manca il riconoscimento della professione. Basta pensare che non c’è un albo dei sociologi. Sarebbe un riconoscimento istituzionale. Significa che a livello istituzionale il nostro percorso di studi non sfocia in una professione riconosciuta istituzionalmente. […] Vi faccio un esempio: con altri miei compagni all’università abbiamo fatto un lavoro dove si parlava delle piste ciclabili e abbiamo intervistato delle persone che ne sapevano molto. Ci hanno spiegato che a fare queste cose ci va delle gente che non ha le conoscenze, quando ci vorrebbero urbanisti e sociologi. Il fatto di non essere riconosciuti va ad intaccare come certe cose sono fatte in Italia: non è solo un problema all’interno dell’università è un problema più ampio e generale, va ad intaccare cose che non penseresti mai che lo riguardano».


Non mancano ostacoli e incertezze, tuttavia per quel che concerne il titolo di studio sembra esserci davvero la fiducia che l’educazione superiore sia un investimento che possa portare ad una posizione favorevole nella società [2]. Senza dimenticare, tuttavia, che deve essere un investimento attivo, in cui gli studenti profondono un impegno finalizzato alla professionalizzazione.

Infine, a questo discorso si associa un corollario banale, ma che vale la pena esplicitare. La distinzione tra facoltà scientifiche e facoltà umanistiche risulta ingenua e fuorviante. È infatti più interessante soffermarsi sulle loro somiglianze e affinità che sulle loro divergenze: il modo in cui gli studenti delle due facoltà danno senso alla loro esperienza sembra confermarlo. Al contrario, la distinzione importante a cui ancorare le indagini future risulta essere quella tra facoltà professionalizzanti e facoltà non-professionalizzanti, assumendo come discrimine la cifra soggettiva dell’impegno richiesto agli studenti per ottenere quell’agognata formazione professionale.

A questo punto, per ragioni di chiarezza espositiva affrontiamo separatamente un altro tema, pur essendo strettamente connesso a quanto scritto fino ad ora. Questo nodo riguarda la richiesta, da parte degli studenti, di «fare pratica», di «sapere applicato» e di «sapere pratico». In primo luogo cerchiamo di comprendere cosa significano questi termini riferendoci alle interviste. A. (studentessa triennale di scienze ambientali) pone la questione in maniera piuttosto netta:


«Secondo me l’università italiana è un po’ troppo teorica. Serve sapere studiare ed imparare ad affrontare una mole di conoscenze: bisogna essere consapevoli di sapere un botto di roba teorica per poi fare le cose. Ma dopo? Ho imparato tutte queste cose come le posso usare? Studi una serie di roba e dici: “cosa so fare? Boh”. C’è gente che riesce a fare il passaggio teoria-pratica molto facilmente, ma altri no. C’è un botto di gente che sa tante cose, poi quando si ritrova a doverle usare per analizzare un caso concreto non sa da che parte farsi. Secondo me è proprio una cosa che non viene sperimentata all’interno dell’università. Ad esempio, noi abbiamo fatto tutti i laboratori alla fine dell’anno: perché tutti concentrati? E non, del tipo, ho studiato questa cosa teorica e la metto in pratica subito dopo. […] Bisognerebbe associare la parte teorica a cose concrete: puoi farlo in tutte le materie secondo me. Alla fine, come esseri umani abbiamo sviluppato scienze che rispecchiano la realtà. Bisogna portare quello che fai teoricamente e spiegarlo con cose intrise di realtà perché te le fissa in testa in altro modo. Io ho la mente che va per immagini, anche lì, per dire, quando studio per i cavoli miei, se mi creo un disegnino o una storia le cose mi rimangono in testa per tantissimo tempo. Diverso è se uno studia questa roba teorica senza nessuna controparte concreta o che tocca qualcosa che conosci già».


L’applicazione pratica del sapere in varie facoltà è essenzialmente l’esperienza del laboratorio. Nelle facoltà mediche E. (veterinaria) ci parla della dimensione clinica e del rapporto con gli animali:


«Allora, gerarchicamente le cose più importanti sono le lezioni e gli esami. E devi studiarli per bene, devi studiare per l'esame e dopo ricordare le cose. Cosa che io spesso non ho, le cose me le scordo e non le imparo capendole ma solo per l'esame. La gente che le impara capendole sono quelli che, facendo l'internato [esperienza pratica facoltativa nella clinica universitaria del campus, ndr] o il volontariato, le vedono con mano. Poi, una cosa secondo me importante e che ti dà solo l'internato è il fatto di fare delle cose da solo in clinica. Ad esempio, le mie amiche lo hanno fatto nel reparto di riproduzione: noi facevamo le analisi delle urine una sola volta all'esercitazione in laboratorio. A loro davano il campione e dicevano: vai a fare l'analisi delle urine, lo facevi da sola e avevi la responsabilità di farlo e questo ti fa imparare di più. A loro, ad esempio, fanno fare le anamnesi, la visita, anche solo prendere il battito e il respiro, prendere tutta una serie di parametri del paziente e, proprio, sapere come parlare al cliente e come rapportarsi con l'animale. Sono tutte cose che lo studente che studia e basta non ha. Anche se vai a fare l'esercitazione sei con la prof, non hai nessun animale, qualche volta sì, ma è tutto seguito. Non sei mai da solo e con la responsabilità di giostrarti nelle cose. È proprio il fatto di dover fare qualcosa da solo e farlo attivamente: lo studio attivo. Anche se siamo in laboratorio è un apprendimento passivo, fai le cose ma non sempre capisci cosa stai facendo. Non è una realtà vera ma molto simulata, invece, nell'internato sei in una clinica vera. Quella di Ozzano è molto attrezzata, con tantissimi reparti, e ti occupi te attivamente delle cose. Dopo un mese e mezzo inizi proprio a fare le cose autonomamente. I medici ti danno delle responsabilità: e questo è una cosa diversa dal volontariato dove non hai nessuna responsabilità».


Si potrebbero spendere fin troppe parole su questi argomenti: cerchiamo di procedere con ordine. Il primo livello del discorso è il rifiuto della verbosità stantia dell’accademia italiana e, conseguentemente, la richiesta di sapere pratico. Per fugare ogni dubbio, riportiamo le parole di S., studentessa di sociologia (magistrale):


«Bisogna cambiare questo metodo di insegnamento e renderlo più vivo. Io le lezioni in cui ho imparato di più erano quelle in cui i professori che non si limitavano a leggere le slide e a spiegare, ma facevano le domande. ‘Voi ragazzi cosa ne pensate di questo?’ E allora come si dovrebbe fare questa cosa diversamente? Bisogna rendere tutto più interattivo: non c’è solo il prof che viene fissato come uno schermo, ma l’intera classe parla, interagisce e gli viene chiesto di porsi delle domande. Ad una dato problema nella società ci si chiede “perché funziona così, cosa si potrebbe migliorare”? Poi magari le risposte non sono sensate e utili, però intanto sviluppi quel modo di ragionare. Se magari l’università ci riuscisse ad insegnare di più… Non solo la teoria ma anche a come metterla in pratica! Non è che ci devi insegnare a fare questo lavoro, ma ad avere un pensiero critico che sia in grado di elaborare le soluzioni, non solo di analizzarle. È una cosa che ho visto su di me, io mi sono laureata in sociologia e all’università ho fatto vari progetti. Però quando sono arrivata qua all’università mi sono reso conto che la maggior parte di tutte le mie conoscenze erano esclusivamente capacità di analizzare. Se dovevo pensare alle soluzioni non ci riuscivo».


In primo luogo, sapere pratico significa qualcosa di opposto ma, allo stesso tempo, affine al semplice studio teorico. Se riprendiamo la distinzione delle studentesse di veterinaria e di scienze ambientali risulta chiaro come esse individuino una distanza tra lo studio libresco, nozionistico ed astratto ed uno studio più legato, dinamicamente, alla realtà. Si tratta della richiesta di una forma di sapere pratico-teorica, in aperta contrapposizione, ad uno studio impoverito, standardizzato e nozionistico. Riprendendo le parole dalle studentesse, il sapere pratico-teorico ti fa osservare, assieme alla professoressa, un certo fenomeno in laboratorio, al di fuori della dimensione della lezione frontale. Ma accanto a questo tipo di sapere E. ne menziona un altro che costituisce uno scarto: quello che dà forma ad una competenza tecnico-pratica, attiva, secondo le sue parole. Proponiamo di chiamare questa forma di sapere «pratico-tecnico» o, più semplicemente, «tecnico». È proprio questa la forma di sapere reclamata dal desiderio di professionalizzazione degli studenti: il possesso di una tecnica capitalistica professionalizzante, che li formi come forza-lavoro competente.

Pertanto ci sembra lecito domandarsi se dietro la richiesta di un sapere pratico-tecnico, negato dall’università, è possibile che si celino oltre che dei malcontenti, delle potenziali rivendicazioni, ambigue e ambivalenti, ma in tendenza, dentro e contro l’industria-università.

Vi è un altro livello del discorso verso cui prestare attenzione e riflettere. Tagliando con l’accetta, possiamo dire che il sapere della didattica universitaria è così impoverito e standardizzato che l’unica strada percorribile, per gli studenti, risulta essere quella della richiesta di professionalizzazione. La ricerca di sapere e conoscenza per sé non si può dare nella realtà capitalistica, dunque, si sceglie la via della professionalizzazione perché conviene. In altre parole, conviene perché il sapere è talmente impoverito e modularizzato che tanto vale diventare un professionista che applica quel sapere povero allo status quo capitalistico. Ma questo, banalmente, significa che lo studente finisce per contribuire attivamente e soggettivamente a divenire forza-lavoro specializzata o forse sarebbe più corretto dire, a divenire capitale umano, realizzando il compito storico dell’università capitalistica.

A questo punto innalziamo il livello del ragionamento astraendo e forzando il discorso. Ci domandiamo se la richiesta di tecnica non possa essere intesa in senso etimologico, ovvero come intenzione di costruire le strutture per la propria sopravvivenza. Attraverso la tecnica, lo studente vuole accaparrarsi la miglior sopravvivenza possibile, cioè, per banalizzare, vuole diventare un «padrone». Se non si può affermare questo ragionamento con certezza al contrario è sicuro che gli studenti intervistati vogliano sottrarsi al ruolo di servo. Questa è certamente un lato della medaglia della professionalizzazione. Proprio quando la luce della contraddizione sembra essere spenta, ecco che l’ambivalenza ritorna agli occhi di chi la cerca. Un’altra domanda che ci poniamo di fronte ai risultati di questa inchiesta è se il desiderio di tecnica non significhi anche la ricerca di un sapere ricco, contro il sapere impoverito e standardizzato. Un sapere che non richiede stupidamente una procedura standard e una risposta preconfezionata, ma che comporta invece un continuo rapporto dinamico con la realtà, una rielaborazione dei suoi contenuti teorici mentre interviene su quella stessa realtà, per mutarla. Un sapere quindi che cerca e inventa le soluzioni, riprendendo le parole della studentessa di sociologia [3]. Ne derivano altre due domande: questo desiderio di intervenire sulla realtà può essere diretto verso fini alternativi a quelli dell’accumulazione? Dietro alla richiesta di sapere pratico-teorico e pratico-tecnico si può celare (oppure essa può essere piegata verso) quella di un sapere trasformativo in senso rivoluzionario? Dal punto di vista della prassi politica si tratta, dunque, di intervenire nella zona grigia della formazione universitaria, tra il suo completamento e l’inevitabile inglobamento verso fini sistemici a cui essa forzatamente tende [4].

Alla luce di queste considerazioni, possiamo leggere la definizione di sapere pratico avanzata da R., studente di filosofia triennale:


«L’università se la vive un po’ nella sua bolla, non tutti i professori mostrano in modo pratico come applicare i temi trattati, anche nella dimensione del politico, ma non politico-partitico ma politico nel senso: “vedete questo fenomeno odierno Marx lo leggerebbe così Nietzsche cosà”; questa sarebbe già un'applicazione parziale, che ti fa capire come spendere queste conoscenze. Un’altra cosa che non viene fornita, ma questo dipende anche dal tipo di corsi, a volte non si riesce ad entrare nello specifico di una teoria, mi è capitato questo corso monografico su Marx nel quale si poteva entrare più nello specifico; se un pensiero viene ricostruito nella sua totalità, ti lascia qualcosa di più rispetto a trattare tanti estratti da tante cose. Ed è l’organizzazione dei corsi da imputare, ci sono tanti corsi tematici, ma i temi o sono temi spendibili (e quindi sono temi un po’ di attualità e mi dai uno sguardo più insieme, tipo bioetica) oppure non puoi farmi storia della filosofia del 600 e me la fai un po’ all’acqua di rose, no! Vai nello specifico, vai a dirmi esattamente quello che ha detto quello, perché solo così, entrando nello specifico capisci veramente. Dove cercare queste cose? Nello studio da autodidatta sicuramente, anche nel colloquio con i professori, chiedere spunti ma non saprei dirti esattamente un posto specifico dove trovare quello che non viene fornito. Ed è quello che dicevo prima, non ti viene dato un minimo di bussola per navigare la società […] Mi sembra percepire che la facoltà di filosofia viva un po’ nella sua bolla, che i problemi siano le esegesi dei testi, cosa ha detto quel filosofo, ma non vedo troppo il problema del “ma che si deve fare”?».


Ci sembra di poter leggere in filigrana, il potenziale senso trasformativo di questa richiesta di conoscenza. Qui la richiesta di sapere pratico assume chiaramente un connotato etico-politico, per definizione pratico-trasformativo.

In conclusione, proviamo a problematizzare alcuni aspetti e a riflettere su certe questioni aperte. In primo luogo, la formazione universitaria si conferma come un investimento fondamentale, la cui rinuncia equivarrebbe, nell’idea degli studenti intervistati, al declassamento. In secondo luogo questa fase dell’inchiesta ha mostrato come la richiesta di una professionalizzazione, rivolta alla formazione universitaria da un consistente segmento della composizione studentesca, non sia soltanto un modo per accrescere il valore della propria forza-lavoro (o del proprio capitale umano) e quindi per guadagnare posizioni migliori sul mercato del lavoro, ma sia anche una richiesta di «senso» che passa per la rivendicazione di un sapere pratico-tecnico. È possibile dunque trasformare l’inevitabile attrito tra queste richieste e il normale funzionamento dell’università in un conflitto esplicito? È possibile sottrarre la richiesta di senso al destino della professionalizzazione? È possibile piegare la rivendicazione di un sapere tecnico-professionale in esercizio dell’autonomia? Riteniamo che le nuove forme dell’organizzazione, per tornare al problema di fondo che ha mosso questa inchiesta e a cui si è fatto riferimento in apertura, debbano fare i conti con queste domande. Di conseguenza una delle ipotesi organizzative su cui lavorare potrebbe essere quella di costruire strutture organizzative che insistono sulle ambivalenze della professionalizzazione e che intercettano la richiesta implicita di un sapere non impoverito per sottrarre la formazione universitaria alle finalità sistemiche.



Note

[1] Per la definizione di ‘soggettività della crisi’ rimandiamo a questo lavoro di inchiesta: http://archivio.commonware.org/index.php/neetwork/803-inchiesta-come-metodo-politico-vivere-nella-crisi.

[2] Si segnala come questo discorso sia in continuità con l’idea della studente-investimento, per non sovraccaricare questo già denso scritto rimandiamo al seguente articolo: https://commonware.org/articoli/aspetta-e-sclera.

[3] Di nuovo, per non appesantire questo scritto rimandiamo al testo di Romano Alquati, Cultura, formazione e ricerca. Industrializzazione di produzione immateriale per una trattazione del significato dei termini «capacità critica» e «sapere capace di risolvere i problemi». Per una dettagliata spiegazione dei processi di «impoverimento dei saperi» e della didattica rimandiamo a https://www.machina-deriveapprodi.com/post/l-universit%C3%A0-indigesta-note-da-un-inchiesta e a https://www.machina-deriveapprodi.com/post/l-universit%C3%A0-indigesta-2.

[4] Utilizzando un lessico alquatiano diciamo che la ricerca di questo momento altro non è che la ricerca dell’agente-medio in potenza affinché si trasformi in soggetto-umano.


Immagine

Mostra di poesia concreta, Biennale Ca’ Giustinian, Venezia, 1969


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Elia Alberici si è laureato in scienze storiche presso l'università di Bologna con una tesi sull'Operaismo degli anni Sessanta. Ha svolto attività di ricerca con il gruppo londinese «Notes from Below».




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