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Le armi della critica



Nel dare notizia della recente scomparsa di Alberto Asor Rosa, gli organi di informazione lo hanno ricordato come uno dei più grandi studiosi contemporanei della letteratura italiana. L’etichetta, per quanto vera, è certamente riduttiva per descrivere la complessa importanza della figura. Asor Rosa è stato un grande intellettuale militante, protagonista dell’esperienza dell’operaismo politico italiano degli anni Sessanta, critico radicale della tradizione storicistica del marxismo italiano. Per ricordarlo pubblichiamo una recensione scritta da Gigi Roggero e pubblicata nel febbraio 2012 su «alfabeta» del volume di Asor Rosa Le armi della critica. Scritti e saggi degli anni ruggenti (1960-1970) (Einaudi, 2011).


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Cominciamo dal sottotitolo, più precisamente dagli anni indicati tra parentesi: 1960-1970. Non segnalano, infatti, solo l’arco temporale a cui appartengono i testi raccolti nel volume. Contengono innanzitutto la tesi del libro, così illustrata nella prefazione storica dal suo autore, Alberto Asor Rosa: «Tutto ciò che è avvenuto in seguito – dalla metà degli anni Settanta in poi, grosso modo, fino ai nostri giorni – è stato determinato dalle gigantesche spinte positive che allora si erano manifestate e rivelate e, al contrario, dalle altrettanto gigantesche inadempienze e terribili, talvolta sanguinose battute d’arresto, derivate dalle incapacità di ceti dirigenti e intellettuali di dare una risposta ai problemi che allora per la prima volta nella nostra storia si erano manifestati» (pp. xiii-xiv). Dunque, continua, il salto poteva e doveva essere garantito dal nesso tra un forte sviluppo e una forte conflittualità: il tentativo di sopprimere il secondo termine, ha finito per bloccare anche il primo. Le conclusioni, «l’attuale decadenza», sono già inscritte nella premessa.

Ecco perché e come leggere «scritti e saggi degli anni ruggenti», una selezione di testi perlopiù noti: sono apparsi su «classe operaia», su «Mondo nuovo», sui «Quaderni piacentini», su «Rinascita», su «Angelus novus», su «Contropiano». Già i nomi delle riviste chiariscono una parte importante del romanzo di formazione e del percorso biografico di Asor Rosa: dalla giovanile militanza nel Partito comunista e – dopo il trauma del ’56 – in quello socialista, alla nascita dell’operaismo politico, fino al «dentro e contro» il Psiup per poi ritornare, infine, nel Pci. A questo punto siamo nel ’72, una storia per l’autore si sta chiudendo e, sostiene, non solo per lui.

Ma andiamo con ordine, ritorniamo agli «anni ruggenti». Al centro troviamo la rivisitazione che Asor Rosa propone dell’operaismo, efficace e appassionata. Il movimento originario è la rilettura di Marx contro il marxismo, un machiavelliano «ritorno ai princìpi» non per ripristinare una verità filologica ma per costruire organizzazione politica. Insieme a questo Marx gli operaisti definiscono l’autonomia della classe operaia, affermano l’irriducibilità del punto di vista di parte, spezzano l’incantesimo dell’interesse generale e la morale della subalternità – per parafrasare il Nietzsche amato dal giovane Asor Rosa – in cui è rimasta imprigionata la tradizione socialista. Ci voleva un’operazione capace di spazzare il campo, a 360 gradi. Asor Rosa ne ha fatto parte, gli scritti di questo libro dimostrano con quale forza e produttiva irriverenza travolga miti e riti della sinistra, passi sotto gli acuminati ferri della critica la cultura borghese e quella proletaria, non si fermi davanti alla Resistenza celebrata in chiave nazional-popolare. In questo processo fa esperienza della perdita – a dispetto di una sinistra che a ogni piè sospinto la ripropone – di una supposta separatezza della funzione intellettuale, il suo divenire lavoro astratto. Insomma, si trattava di scarnificare le strutture di pensiero consolidate per arrivare fino all’osso dei problemi. Per dirla con il Tronti di Lenin in Inghilterra, occorreva ripartire dal principio: e il principio è la lotta di classe operaia.

Asor Rosa non si pente affatto di quel periodo. Sembra, anzi, quasi rimpiangerlo: definisce quell’esperienza «estremistica», eppure non mostra di aver trovato più nulla di simile nell’età matura. Il presunto «errore» degli anni ruggenti emerge da queste pagine in modo molto più produttivo della «verità» successiva. L’eccezionalità dell’operaismo va colta e, al contempo, posta in discussione: l’autore lo definisce un «vero prodigio», con pochi precedenti e nessun erede legittimo. Ora, si sa che le questioni ereditarie sono sempre odiose, e per di più grottesche quando si tratta di percorsi politici. Che l’operaismo sia un’esperienza storicamente determinata, legata all’insorgenza di una specifica figura operaia, non vi è dubbio. Ciò che va messo in questione è che dopo non cominci una nuova storia, come se finisse tutto o quasi. Proviamo allora a completare la tesi di Asor Rosa, ipotizzando che il ’68-’69 sia un tramonto e anche un’aurora. Dentro le successive tumultuose trasformazioni della composizione di classe l’operaismo si immerge e si modifica, produce soggettività attraverso uno stile, una cultura del conflitto rivoluzionaria, un punto di vista di parte. Diviene compiutamente un movimento di pensiero: per questo, a differenza delle scuole, non ha bisogno di testamenti ed eredità, ma vive nelle prassi politiche e nella capacità di reinvenzione della nuova gioventù – ancora una volta, in termini rivoluzionari e non anagrafici. Allora, invece di attendere un evento che riapra la storia, magari un «1905 in Cina», proviamo a cercare i segni di una nuova soggettività, fatta di precari e proletari intellettuali: se questa composizione non ha ancora avuto le sue piazza Statuto, il problema non è aspettarle in un illusorio «altrove» ma costruirle qui, in questo mondo unificato dall’antagonismo delle lotte e dal comando del capitale.

Majakovskij ci ha insegnato che non abbiamo bisogno delle soavi bellezze dell’ideale: una corona sulla testa della classe operaia, processioni e mausolei con la regola fissa dell’ammirazione offuscano d’aciduli incensi i compiti politici dell’oggi, non meno appassionanti di un tempo. É con questi occhi che consigliamo la lettura del libro di Asor Rosa, per cercare le genealogie del presente, per interpretarlo e soprattutto per trasformarlo. O, se vogliamo, per far ruggire questi anni.



Henri Chopin, Ocean, 1989.

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