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La potenza dell’anticipazione



Guido Bianchini è stata una figura decisiva nella vicenda teorico-organizzativa dell’operaismo politico italiano, in particolare della sua matrice veneto-emiliana. Centrale è stato il suo apporto alle elaborazioni collettive e alla formazione di una generazione militante, benché la sua scarsa produzione letteraria, elemento controcorrente rispetto a un ambiente intellettuale in certi aspetti fin troppo prolifico, lo ha reso apparentemente clandestino alla dimensione cartacea, soprattutto se firmata. È stata quindi una figura fino a oggi colpevolmente trascurata dalla ricerca degli storici e dei militanti, cui finalmente, grazie al volume della collana Input di DeriveApprodi a cura di Giovanni Giovannelli e Gianni Sbrogiò, Guido Bianchini. Ritratto di un maestro dell’operaismo, e allo Scavi pubblicato su «Machina», Socrate a Porto Marghera. Inchiesta, anticipazioni e metodo militante di Guido Bianchini, si comincia a dare giustizia. Partendo da questi materiali Matteo Montaguti mostra le basi di un metodo calato nella prassi, per trasformare la potenza dell’anticipazione in forza organizzata, materiale e collettiva. Come probabilmente avrebbe pensato Guido, moltissimo c’è ancora da fare: moltissimo è possibile fare.


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«Non potevamo rimanere a rimorchio dei fatti»

Guido Bianchini


Sgombriamo subito il campo. Guido Bianchini è stata una figura decisiva, baricentrale, nella vicenda teorico-organizzativa dell’operaismo politico degli anni Sessanta, in particolare della sua matrice veneto-emiliana: un nodo importante nel filo che si dipana dal laboratorio delle riviste «Quaderni rossi» e «Classe operaia» e che arriva alla sperimentazione di Potere operaio – veneto-emiliano prima, gruppo nazionale poi – nei primi anni Settanta; un filo le cui fibre avrebbero continuato a intrecciarsi, volenti o nolenti, con le varie forme di conflittualità sociale organizzata – tra cui le esperienze dell’Autonomia – fino al termine (e oltre) del decennio.

Una figura fino a oggi colpevolmente dimenticata dalla ricerca degli storici e dei militanti, cui finalmente, grazie al volume della collana Input di DeriveApprodi a cura di Giovanni Giovannelli e Gianni Sbrogiò, Guido Bianchini. Ritratto di un maestro dell’operaismo, e al dossier complementare pubblicato dalla rivista «Machina», Socrate a Porto Marghera. Inchiesta, anticipazioni e metodo militante di Guido Bianchini, si comincia a dare giustizia con un libro e un approfondimento necessari, che speriamo possano essere alla base di ulteriori e proficue ricerche.

La pubblicazione, infatti, si presenta come il tentativo di tracciare un suo profilo biografico, politico e intellettuale – aspetti inscindibili l’uno dall’altro nel vissuto militante di Bianchini – attraverso un caleidoscopio di fonti eterogenee, divise in due parti: la prima composta da inediti ed estratti degli scritti lasciati da Guido, la seconda da testimonianze e riflessioni di amici e compagni che hanno condiviso, anche solo per un tratto, la strada percorsa da «uno dei fondatori del pensiero operaista»[1].

Nonostante l’alto profilo umano, intellettuale e politico che emerge dalla raccolta, infatti, la ricerca storiografica si è dovuta scontrare con un basso profilo dal punto di vista della produzione e pubblicazione di scritti firmati[2], che ha portato Bianchini a essere una presenza spesso evanescente, comparendo, in filigrana, nelle ricostruzioni storiche quasi come un personaggio secondario o posto sullo sfondo dell’affresco generale – quest’ultimo, occorre dirlo, spesso trasformatosi in agiografia di maniera o schiacciato su una narrazione superficiale e consuetudinaria, poi ripresa come canone. La caratura di Bianchini è riuscita a emergere, piuttosto, in testimonianze e memorie raccolte attraverso interviste, prese di parola, stralci di ricordi, e non è un caso, data la sua preminente «dimensione orale»[3]: la sua scarsissima produzione letteraria, elemento controcorrente rispetto a un ambiente intellettuale in certi aspetti fin troppo prolifico, lo ha reso apparentemente clandestino alla dimensione cartacea, soprattutto se firmata, fattore in contraddizione con il proprio apporto determinante a elaborazioni collettive e condivise lungo tutti gli anni Sessanta e Settanta. Come scrive Adone Brandalise nel suo intervento, esiste uno «scarto vistosissimo» tra «il volume e la qualità di quanto venne prodotto intellettualmente da Guido, all’interno dei diversi contesti di lavoro politico, sindacale e anche scientifico, e quanto resta di lui leggibile e citabile. […] Guido, volontariamente, si è profuso all’interno di percorsi di ricerca che hanno trovato esito in scritture che non recano il suo nome […], fu propenso a dissipare da un lato, e da un altro a diffondere, la sua riflessione all’interno di una miriade di conversazioni»[4]. Questo primo elemento ci pare fondamentale per riuscire a inquadrare lo stile indicato da Bianchini, che è anche oggi un insegnamento di stile politico: rifiuto dell’affezione al riconoscimento della propria firma, del proprio individualismo, o della speculare autoreferenzialità accademicamente rifinita e legittimata, ma preminenza del contributo di sé nella dimensione collettiva e cooperativa dedicata alla ricerca, alla formazione, alla lotta, senza ritorno in termini personalistici, carrieristici o reputazionali.

Elemento, questo, che lo contraddistinse, e contraddistinse il suo lungo rapporto – vero e proprio sodalizio, dal momento in cui si trasferì a Ferrara tra 1963 e 1964 – con i modenesi Paolo Pompei e Marcello Pergola, anch’essi in piena sintonia con quello stile. Non si può, infatti, parlare dell’eredità di Guido senza far risaltare il legame stretto, indissolubile, fondativo con i due insegnanti geminiani dall’«aria di distinti professionisti» che, come ricorda Bifo, alle riunioni mettevano soggezione, ma sapevano anche rapire l’attenzione, ai giovani studenti-militanti come lui[5]. Una relazione, quella sull’asse estense Modena-Ferrara – solo evocata in alcuni interventi del libro ma introdotta nel dossier –, sviluppatasi con «Classe operaia» e cementatasi dentro il Potere operaio veneto-emiliano di cui, insieme a Padova e Marghera, costituiva articolazione e intervento di primo piano. È attraverso questa amicizia politica e ricerca comune, dettate dalla condivisione del punto di vista e dal particolare aspetto che classe operaia e controparte assumevano in Emilia, che venne elaborato il nucleo di un peculiare «operaismo emiliano» fin dalla metà degli anni Sessanta (precipitato poi nel 1970 nel documento Materiale di analisi sulla situazione emiliana e proposte politico-organizzative di Potere operaio, pubblicato sul giornale del gruppo come La classe operaia emiliana di fronte al problema dell’organizzazione. Analisi della struttura produttiva in Emilia[6], presente in versione modificata successivamente nel volume), dotato di propria coerenza interna, prospettiva politica e proposta organizzativa – ma soprattutto di «autonomia operativa» rispetto alle direttive nazionali del gruppo extraparlamentare. Insomma, un operaismo con un proprio stile, che avrebbe partecipato al dibattito interno di Potere operaio con ruolo strenuamente oppositivo alla riproposizione di una stretta partitica e all’impiego della violenza politica in funzione di avanguardia, significativamente influenzando il percorso dei suoi spezzoni militanti tra Modena e Ferrara rispetto a determinate scelte compiute negli anni Settanta. Da questo punto di vista, i nuclei emiliani di Potere operaio riuniti intorno a Bianchini, Pompei e Pergola contribuirono a formare una generazione di giovani quadri politici che avrebbero poi finito per animare, dalla fabbrica alla scuola, dalle strutture rinnovate del sindacato alle lotte dei soggetti sociali emergenti, una conflittualità radicale ma non estremista, diffusa ma non armata, sempre ben attenta a misurarsi sul «livello di massa» del movimento complessivo e del contesto locale, e ad «aggiornare la scelta dell’autonomia, cercando la via della ricomposizione di classe dentro la fabbrica sociale, nella nuova società fabbrica del capitalismo mutato»[7].


Il catalizzatore militante

Bianchini non è stato solo protagonista militante della storia politica dell’operaismo fin dai suoi prodromi (e partecipe, suo malgrado, degli esiti, nonostante il suo graduale allontanamento da Potere operaio fin dal 1971-72 e il rifiuto di partecipare alle esperienze dell’Autonomia), ma dentro i ben più complessivi processi di maturazione di conflittualità sociale che videro nel ’69 operaio un punto di discontinuità, sia soggettiva che oggettiva: discontinuità soggettiva per quanto riguarda la riflessione sul ruolo, la strategia e l’organizzazione di una militanza politica che esprimesse adeguatamente l’«attualità della rivoluzione» di fronte alle trasformazioni del capitalismo, della classe operaia e dei suoi comportamenti imposte dal lungo passaggio di fase; discontinuità oggettiva per ciò che il biennio ’68-69 sarebbe stato in grado di dispiegare e proiettare, per tutta la «stagione dei movimenti» del decennio successivo, sul terreno della lotta di classe, non solo in fabbrica ma lungo tutto lo spettro sociale.

Il ruolo di Bianchini, in questa storia, si può dire sia stato quello di catalizzatore – termine che confidiamo avrebbe saputo apprezzare in quanto di formazione professionale chimica, come chimica era la classe operaia di Marghera e Ferrara con cui ebbe maggiormente a che fare –, ovvero quello di un innescatore di processi, un acceleratore di reazioni, un formatore di elementi, situazioni, soggetti aggregati: in sintesi, un potente anticipatore di tendenze. Nella sua lucida ed effettuale capacità di anticipazione politica, come dimostrano i suoi scritti, si può ravvisare la cifra di un metodo della militanza e di un pensiero del conflitto ancora oggi preziosi: non «rimanere a rimorchio dei fatti», rischiando di rimanere all’inseguimento di uno sviluppo la cui catena rimane saldamente in mano al nemico di classe, ma individuare e anticipare tendenze – di minoranza ma non minoritarie – che possono diventare egemoni e segnare scarti decisivi nei rapporti di forza per poterle agire, intervenendo soggettivamente quando esse non sono ancora a compimento ma si contorcono tra ambivalenze e ambiguità, per deviarne il processo ai propri fini di parte.

Ne è esemplificazione plastica il ricordo di Ferruccio Gambino, contenuto nel volume: durante uno snodo cruciale per le avanguardie che precedette lo scoppio dirompente della conflittualità operaia dell’autunno caldo, il convegno studenti-operai di Venezia del giugno 1968, la «testimonianza dal vivo» di Guido spiazzò l’assemblea, occupata a discutere sull’opportunità o meno di riportare il Pci sulla «corretta linea», lanciando l’indicazione di lotta sull’aumento di salario e l’orario uguali per tutti, «120.000 lire di salario garantito, 40 ore pagate 48». Lo sgomento che provocò negli astanti, come riporta l’autore, era anche «il lascito di venticinque anni di moderazione salariale». Qualche mese dopo quelle parole d’ordine sarebbero state sulla bocca degli operai in sciopero di tutta la penisola, contro gli stessi sindacati e funzionari della sinistra. Il paziente lavoro politico di Guido e dei militanti di Potere operaio fuori dalla distesa di fabbriche venete ed emiliane – l’attività che Alquati chiamava «conricerca» – aveva permesso di individuare la leva su cui unificare orizzontalmente gli operai e far valere la loro autonomia verticalmente contro il padrone – ricomposizione di classe non solo tecnica, ma politica – dando in quell’occasione «una svolta al movimento che allora andava crescendo in Italia e che sarebbe durato ben oltre gli anni Sessanta»[8]. Il salario operaio come variabile indipendente dalla produttività, dal profitto, dal capitale, infatti, con il dispiegarsi delle lotte autonome degli studenti, delle donne e delle nuove soggettività, si sarebbe trasformato successivamente in richiesta di «salario politico», investendo tutti gli aspetti del vivere sociale, dalla scuola ai trasporti, dall’affitto alle mense, dalla nocività del lavoro al lavoro femminile dentro casa.

Ci pare questo, dunque, l’essenziale: il punto di vista operaio, il posizionamento parziale – di parte – da cui osservare la realtà, alla ricerca di una forza, o di una sua potenzialità materiale, per rovesciarla e trasformarla, contro ogni logica riformista e progressista. Senza aspettare liberatori o sollevazioni lontane, ma dall’interno dei processi in cui ci si trova situati. Senza nessun amore per la debolezza, la miseria, la subalternità dei soggetti, senza nessuna mitologia pelosa o ideologia caritatevole su di essi: «La classe operaia è una gran cosa, soleva sentenziare, ma gli operai singoli ciapai uno a uno i xe soltanto mona»[9].

L’incontro con Bianchini, per un’intera generazione di giovani militanti di Ferrara formatisi alla «scuola» di Potere operaio, rappresentò il radicale capovolgimento del proprio punto di vista, come ricorda Giovanni Giovannelli: l’abbandono delle precedenti certezze, legate al contesto ingessato dei partiti della sinistra (questi sì «a rimorchio dei fatti») o alle fascinazioni esotiche delle lotte nel Terzo mondo, e la scoperta di una «meravigliosa incertezza», quella legata alla «ricerca sperimentale per fini di sommovimento sociale»: «Non per moralismo ma perché questo era l’unico modo per cogliere il possibile (non necessariamente il probabile) evolversi degli eventi, la possibile (non necessariamente probabile) modificazione dello stato di cose che ci paravano davanti»[10]. È la lezione dell’operaismo, il tentativo di recupero della rivoluzione in Occidente, nel «cuore della bestia». Che, nelle date condizioni di quel passaggio di fase, per chi volle approfondirne la traiettoria, non poté non passare attraverso una rottura con le istituzioni del movimento operaio, comprese le forma-partito e le forma-sindacato cristallizatesi – dopo il ritirarsi della marea rivoluzionaria dell’Ottobre – in un contesto capitalistico contrassegnato dall’arretratezza e su una composizione tecnica e politica di classe ormai radicalmente mutata, non più centrale nelle nuove lotte che, negli anni Sessanta, cominciavano a rompere la pace nelle fabbriche imposta nel dopoguerra anche con il beneplacito delle sinistre: «apparati obsoleti», in sintesi, rispetto alla rinnovata iniziativa autonoma di parte operaia.[11] Quello degli operaisti era un ritornare a Marx e Lenin, dunque, contro il marxismo e il leninismo di maniera, ossificati e sclerotizzati, per andare oltre gli stessi Marx e Lenin, rimanendone coerenti con il metodo rivoluzionario. Nelle parole di Bianchini: «[Eravamo interessati] a un marxismo che in qualche misura fosse depurato da quella che noi allora chiamavamo ideologia del sottosviluppo. […] Il Pci e il Psi, che si trascinavano (chi più chi meno) le scorie terzinternazionaliste, erano quindi i partiti della crisi, del sottosviluppo, raccoglievano spesso intorno a sé gli strati meno avanzati di operai e proletari. Quella sinistra che subiva il fascino stalinista della parola d’ordine “raccogliere le bandiere lasciate cadere dalla borghesia” era stata sopravanzata dai fatti, incapace di seguire gli avvenimenti che avevano condotto il paese a darsi strutture industriali moderne e funzionanti»[12]. E ancora: «Siamo stati un gruppo di intellettuali entrato in conflitto, aperto e duro, con il partito; in quegli anni dimostrammo anche che la struttura del partito – quello dei funzionari onnipresenti sul territorio, cristallizzato – era la negazione della effettiva capacità di interpretare presente e futuro. Stato e partito erano participi passati. Il partito era il passato, si riferiva a una classe operaia del passato. Per interpretare la classe operaia di quegli anni occorreva non essere istituzione, noi accettavamo di camminare sull’onda portante di non essere istituzione, di essere all’interno della fenomenologia per descriverla, interpretarla, diffonderla, non recitavamo il breviario marxista della domenica. […] Qualcuno si è dannato a ragionare sui nuovi fatti che accadevano; una volta scoperto che il leninismo non teneva più hanno buttato via Lenin invece di storicizzarlo, e questo è stato il Pci. Noi non criticavamo Lenin, criticavamo un partito come intelligenza delle masse, struttura kantiana che organizza il mondo in modo razionale, per categorie. La nuova classe operaia avanzata, con le sue avanguardie e la sua varietà, non aveva bisogno di mediazioni e di medietà, ma di una struttura che esprimesse autonomia, diversità (tecnici Olivetti, operai di catena, braccianti). C’era un progetto unificante, le lotte erano intense, ma il difetto stava nella mancanza di uno strumento unificatore».[13]È quest’ultimo un nodo fondamentale, l’enigma dell’organizzazione, con cui si confronteranno – sempre in modo irrisolto – le esperienze militanti generate o influenzate dalla matrice operaista, da «Classe operaia» all’Autonomia, passando per Potere Operaio[14].


Dentro e contro la via emiliana allo sviluppo

Su questo passaggio, al centro del dibattito dopo la firma dei contratti seguita all’autunno caldo, Bianchini e i modenesi cercarono di avanzare una linea politica e una proposta organizzativa alternative al «ritorno del partito», modellate sulla composizione di classe e sulle tendenze individuate in un contesto estremamente differente rispetto ai territori «tradizionali» delle lotte dell’operaio-massa quali Torino, Milano o Porto Marghera. Se, ad esempio, nelle grandi concentrazioni fordiste e metropolitane della Fiat la conricerca di Romano Alquati aveva avuto a che fare con «contadini o braccianti che avevano lasciato la terra del Sud», in Emilia – regione di antica tradizione agricola e rurale – l’operaio aveva mantenuto un rapporto con la terra: come spiega Sergio Bologna, «era un soggetto sociale ibrido, che teneva insieme nella stessa persona varie figure – il contadino, il bracciante agricolo, il muratore, l’operaio di fabbrica – passando dall’una all’altra e combinando di ciascuna le caratteristiche tipiche. Precario a tempo indeterminato, stanziale e mobile contemporaneamente, quasi un ossimoro vivente»[15]. Insomma, «fabbrica verde» – rapporto città-campagna e agricoltura integrata ai cicli industriali – e metalmezzadri. Il contesto era quello della «virtuosa via emiliana allo sviluppo», dove i processi di modernizzazione, governati dal Pci, in superficie si erano composti in forme equilibrate, armoniose, socialmente controllate attraverso modi che andavano «assumendo crescente importanza quali modi generali di sviluppo e di gestione della complessiva società italiana»[16] – e non solo, come certi vettori della globalizzazione avrebbero mostrato.

Nel documento del 1970 La classe operaia emiliana di fronte al problema dell’organizzazione – che il volume riporta nella sezione inediti ed estratti nella sua versione rielaborata per il numero 1 della rivista «La fabbrica diffusa», aprile 1977 – vengono sollevate, con «un’anticipazione teorica e un’attualità politica»[17] di incredibile lucidità, questioni non secondarie che solo in un successivo momento, nella seconda metà inoltrata degli anni Settanta, sarebbero emerse come centrali e patrimonio di discussione comune dei movimenti di classe[18]: la fabbrica diffusa e l’organizzazione territoriale delle lotte, la decentralizzazione produttiva e la ricomposizione della frammentazione e stratificazione operaia; la gestione sociale che di questa disseminazione riuscivano a fare il sindacato con le sue compartimentazioni contrattuali e categoriali, il Partito comunista con la sua politica di alleanze con i ceti medi produttivi e le amministrazioni locali rosse con i loro programmi di welfare e promozione della piccola impresa artigiana; l’uso antioperaio del sottosviluppo, la cogestione dello sviluppo e l’uso capitalistico delle riforme, della partecipazione democratica, del progresso; la governance riformista della «borghesia rossa» e il «farsi Stato» delle sinistre, compatibili e anzi non alternative allo sviluppo del capitale.

L’Emilia rossa era «vicenda esemplare» di come quest’ultimo potesse tranquillamente percorrere una via «socialista» e propugnare un’ideologia «democratico-popolare»: un capitalismo dal volto umano, certo, ma sempre dalle medesime viscere fatte di produttività, interesse generale, sfruttamento operaio. È qui, dopo l’offensiva autonoma degli operai nell’autunno, che si metteva a verifica la capacità di una nuova, possibile, compagine governativa fondata sul recupero delle lotte in funzione dell’innovazione capitalistica, sulla gestione e pacificazione dei processi di trasformazione da parte del Partito comunista: «Il piano del capitale in Italia si chiama uso del salario come volano per lo sviluppo, si chiama integrazione dei sindacati in fabbrica in funzione dell’autogestione operaia dello sfruttamento, si chiama socializzazione dello sviluppo attraverso la consociazione partecipativa, attraverso cioè l’integrazione del Pci nel sistema politico italiano, che prevede ormai l’ideologia del Pci, l’equo canone d’affitto, l’equo profitto. L’area dell’iniquità è ridotta a comprendere solo i monopoli e le rendite parassitarie. [Nell’originale: si chiama integrazione degli sfruttati attraverso l’idea di progresso. Ma partecipazione, progresso, equità (del profitto come del canone di affitto) sono appunto interamente ideologia del Pci, nda]. Il partito diviene un interlocutore valido del piano del capitale in grado di gestire fino in fondo gli strumenti di controllo politico sui quali il piano è basato: sindacati, enti locali, cooperative, forme di partecipazione di massa. Il discorso della nuova maggioranza nato nella pratica reale dell’Emilia rossa, tende a oltrepassare i confini e a proporsi come modello di gestione sociale dello sviluppo capitalistico a livello nazionale»[19]. Come chiarisce Steve Wright nel suo testo contenuto nel dossier, «nella loro lotta contro un regime “socialista” di accumulazione sotto l’egida del Partito comunista, gli operai emiliani stavano colpendo lo “sviluppo” stesso oltre a intaccare il tentativo del Pci di costruire un nuovo ordine nazionale basato sulla pace sociale nella “propria” base»[20]. Contro lo «sviluppo stesso»: una Kultur pagana contro la Civilization del capitale, nella più filosovietica delle province dell’impero. Dello scritto risalta ancora oggi l’indicazione di metodo: attorno all’anticipazione apparentemente astratta su che tipo di risposta e sviluppo capitalistici stessero emergendo come trainanti – in quella che sarebbe divenuta una porzione fondamentale, insieme al Veneto cattolico, della cosiddetta «terza Italia» – era in gioco la concreta possibilità di prospettiva e organizzazione dei rivoluzionari, non solo emiliani.


Afferrare il futuro anteriore

I nodi strategici introdotti nel saggio sull’Emilia sono ripresi e letteralmente fatti esplodere nella loro dimensione storica e globale in Tecnologia e organizzazione di classe[21], presente nel volume a chiudere la prima parte del libro: un testo ricco di futuro lungo che, letto oggi, lascia sbalorditi per la sua incredibile potenza anticipatrice, se pensiamo che la sua data di pubblicazione è il 1974. Esso rappresenta un punto alto del discorso portato avanti da Bianchini, coerentemente inserito nella traiettoria della sua riflessione e prodotto dagli strumenti metodologici elaborati nella fucina dell’operaismo emiliano. Qui, abbandonando il piano delle proposte legato alla politica contingente e mischiando aspetti tecnico-scientifici e politici, si prefigurano le prospettive future di un capitalismo mondiale che quasi cinquant’anni dopo possiamo per gran parte vedere sotto i nostri occhi, e le difficoltà, sperimentate e irrisolte, di riconquistare una ricomposizione politica di classe al livello che esso impone. Bianchini inizia ripercorrendo il rapporto tra innovazione tecnologica e produzione industriale nel Novecento attraverso la lente politica delle lotte operaie. La trasformazione della fabbrica ottocentesca in fabbrica moderna, con l’introduzione della razionalizzazione taylorista e della catena di montaggio fordista, è la risposta capitalistica al quinquennio che, dopo l’Ottobre del ’17, aveva fatto tremare il mondo. Fermato alle porte di Varsavia, sulle sponde della Vistola, il tentativo di portare la rivoluzione in Occidente e ricacciati i barbari a cavallo verso le piane dell’Asia, al potere delle aristocrazie operaie capaci di dominare l’intero processo produttivo e sostituire il comando del singolo padrone con quello dei soviet, dei consigli, degli shop stewards il capitale aveva opposto la massificazione del lavoro e la sua dequalificazione: «I contadini senza terra e i disoccupati che Lenin aveva scagliato contro il regime zarista potevano e dovevano essere usati come motori di un balzo in avanti del sistema»[22].

Lo stesso movimento di fondo, di distruzione di una specifica composizione di classe a partire dalle sue avanguardie, si ripresentava ora negli anni Settanta, dopo il decennio precedente di lotte internazionali dell’operaio-massa che aveva rotto «un coprifuoco durato trent’anni»[23]. La progressiva massificazione e astrattizzazione del lavoro avevano infatti raggiunto un tetto – molto più evidente ed esplosivo in Italia, dove il processo si era compiuto in poco tempo solo nel dopoguerra – e si era rovesciata in massificazione del conflitto e in rifiuto del lavoro, che la fabbrica aveva finito per esportare nella società, mandando in crisi la funzione di controllo della catena di montaggio. In quel cruciale passaggio d’epoca, Bianchini individuava che le parti in conflitto, operai e capitale, stavano di nuovo cambiando pelle: «Uno sbocco accelerato al presente conflitto sta, forse, in una mutazione epocale, “postindustriale” prossima ventura della composizione tecnica del capitale e della forza-lavoro».[24] Il discorso sulla crisi non poteva che essere un discorso sul nuovo sviluppo. Si trattava, ancora una volta, di una corsa sul tempo tra organizzazione autonoma operaia e ristrutturazione capitalistica, di anticipare la linea di tendenza per attrezzarsi a combattere sul filo della storia e dell’innovazione capitalista che le stesse lotte avevano innescato.

Bianchini, con incredibile lucidità e attenzione a uscire da una visione eurocentrica, prefigurava la direzione generale dei processi materiali che, dalla ristrutturazione postfordista della fabbrica e della composizione di classe, avrebbero portato a ciò che oggi è comunemente chiamata globalizzazione neoliberale. Automazione dei processi produttivi e cognitivizzazione del lavoro sarebbero andati di pari passo per spaccare la ritrovata unità – e forza – della classe operaia, che andava prima di tutto frantumata attraverso la fine del gigantismo industriale, lo scorporamento delle grandi unità produttive e la loro decentralizzazione territoriale come già visto in Emilia («una holding finanziaria, l’impresa multinazionale, anziché realizzare grandi complessi all’interno dei quali l’intero ciclo è tutto percorso, realizzerà delle aziende a ciclo integrato, le quali funzionano come singole aziende di molto minore dimensioni»)[25], in cui le strutture di comunicazione e logistiche avrebbero assunto importanza nodale. La composizione tecnica sarebbe stata ristratificata sussumendo istanze portate dalle lotte ma cambiate di segno e al costo di un’apparente riprofessionalizzazione, affiancata a una diversificazione estrema delle specializzazioni, degli inquadramenti e delle forme contrattuali, come abbiamo visto sempre più precarie e individualizzate («un comando sul lavoro dunque fondato sulla professionalità di esso e non sulla massificazione, sull’autogestione dello sfruttamento – orario flessibile e obiettivi che sembrano rifornire di ossigeno libertario tanti ricercatori e tanti funzionari, autodeterminazione dei ritmi e delle forme di erogazione della forza-invenzione che sembra anticipare quel tanto di socialismo che assicura; da ciascuno secondo le sue capacità – addirittura sull’autonomia, […] l’ambiguità che la professionalità introduce sarà, spesso, esercitata sul tecnico singolo su se stesso; sarà demandato a lui il compito di tagliarsi i tempi»[26] che il sindacato corporativizzato sarebbe stato chiamato a gestire come mera struttura di servizio, consulenza, gestione tecnica.

La nuova organizzazione di fabbrica sarebbe stata imperniata sulla ricerca della cooperazione stessa dei lavoratori all’impresa, elemento che sarebbe stato individuato come caratterizzante il modello del cosiddetto toyotismo, e una progressiva terziarizzazione della forza-lavoro («formando una classe operaia di nuovo tipo, incapace, per lo meno subito, di riconoscersi e di organizzarsi come tale in quanto incapace di vedere materialmente, fisicamente, l’un operaio vicino all’altro. Il successo di tale progetto è affidato appunto all’ottenimento di un clima e di una struttura di fabbrica tali per cui si sentano diversi sul piano soggettivo; il biologo dal matematico, il progettista dipendente dal progettista “libero professionista”, l’ingegnere della fabbrica dall’ingegnere del laboratorio universitario e tutti questi dall’operaio di linea»)[27] sarebbe andata parallela alla terziarizzazione della società intera («è difficile pensare che i salti tecnologici siano capaci di andare oltre un orizzonte che, tutto sommato, tutti siamo in grado di prevedere, cioè verso l’automazione dei processi, che proprio perché consumano poca forza-lavoro producono poco plusvalore. E dunque l’accumulazione allargata, il processo di sviluppo sono affidati alla produzione di altro – servizi, progettazione, organizzazione, trasporti, ricerca ecc. – oltre che un modo diverso di produrre»)[28], in cui la riforma degli istituti della formazione come scuole e università avrebbero avuto un ruolo centrale.

Bianchini intravedeva, come corollario di questo processo, aprirsi una nuova fase delle relazioni intercapitalistiche globali a carattere neocolonialista e neoimperialista, sull’assunto che «la crisi in un’area capitalistica comporta lo sviluppo in un’altra area»[29]. Mentre la progettazione e la produzione di beni e conoscenze ad alto valore aggiunto sarebbe stata mantenuta nella metropoli occidentale, dentro una «fabbrica a misura d’uomo» («noi non abbiamo ancora l’idea di che cosa un paese imperialista sia capace di esportare, in termini di beni capitali, esportando brevetti, conoscenza. E di quanto poco capitale d’impresa sia necessario per fare operazioni di questo tipo, e d’altro canto, di quanto plusvalore sia capace di produrre una “manodopera” utilizzata a questo livello»),[30] la delocalizzazione della catena di montaggio fordista e delle fasi più povere, massificate e nocive della produzione avrebbero visto una delocalizzazione nei territori del sottosviluppo, ricchi di manodopera a basso costo e priva di autonoma organizzazione operaia.

Il passaggio merita di essere riportato: «i santuari del nuovo sviluppo cresceranno sotto i cieli tersi e all’insegna dell’operazione: acque pulite. Al loro interno gli orrori saranno solo progettati, architettati, ricercati; spetterà alle manifatture africane, latino-americane, asiatiche inquinare i fiumi di Sali di arsenico, di piombo, di cromo, di detergenti non biodegradabili. Nelle regioni alte dello sviluppo le quote di capitale tecnico investito tenderanno a decrescere, ma tenderanno a crescere gli investimenti sociali atti a produrre una casta sacerdotale preparata a produrre know-how, a dare i tempi dello sviluppo altrui. Livelli di occupazione e imperialismo», pertanto, «appariranno garantirsi reciprocamente»[31]. È la tendenza, colta in tempi non sospetti (siamo solo nel 1974), che si sarebbe manifestata più chiaramente negli anni Ottanta, a conclusione del ciclo di lotte operaie del decennio precedente. La nuova divisione internazionale del lavoro e la ristrutturazione delle catene del valore globali, sull’onda della cosiddetta «controrivoluzione neoliberista», sarebbero state l’architettura della globalizzazione che oggi, nel tempo della pandemia, vediamo in crisi, e quindi alla ricerca di rinnovati assetto e sviluppo. Insomma, come altrove ha dichiarato Lauso Zagato ricordando Guido, «su alcune di quelle cose alla lunga, vent’anni dopo, è venuto fuori che aveva ragione».[32]


Anche per questo, in conclusione, possiamo dire che Bianchini sia stato una delle figure maggiormente significative e meno conosciute della parabola operaista, e che avrebbe meritato ben altra attenzione di quella che gli è stata tributata in sede di ricostruzione storiografica e riscoperta militante fino a oggi. Un motivo in più per apprezzare il lavoro dietro al Ritratto di un maestro dell’operaismo e al dossier Socrate a Porto Marghera della rivista «Machina», che speriamo possano essere un punto di partenza e un invito a colmare ulteriormente questa lacuna. La sua, insieme a quella degli operaisti emiliani come Pompei e Pergola, è una vicenda poco conosciuta ma rilevante per la piena comprensione della genealogia, della complessità e degli sviluppi – non meno dei limiti – di un pensiero e di un metodo del conflitto che ha influenzato profondamente la militanza e gli itinerari della lotta di classe lungo la «stagione dei movimenti» degli anni Settanta, e che ancora oggi rappresenta una cassetta degli attrezzi preziosa, di metodo e punto di vista, per muoversi, antagonisticamente e da uomini e donne liberi, nel mondo che ci circonda. Come probabilmente avrebbe pensato Guido, moltissimo c’è ancora da fare: moltissimo è possibile fare. Non per un’estetica dell’intrattenimento intellettuale, ma per gettare le basi di un lavoro calato nella prassi. Per trasformare la potenza dell’anticipazione, finalmente, in forza organizzata, materiale e collettiva.




Note [1] Gianni Mainardi, p. 194 (da qui in avanti le citazioni che riportano solo nome e cognome dell’autore, oppure titolo, e numero di pagina si riferiscono al volume curato da G. Giovannelli – G. Sbrogiò, Guido Bianchini. Ritratto di un maestro dell’operaismo, DeriveApprodi, Roma 2021). [2] Basso profilo dal punto di vista meramente quantitativo, di certo non qualitativo, se pensiamo che sua è la curatela di Sulla Fiat e altri scritti di Romano Alquati (Materiali marxisti, Feltrinelli, Milano 1975), figura a cui Sergio Bologna, nel volume, indica efficacemente uno speculare veneto-emiliano in Bianchini. Due intelligenze in «fortissima affinità», che si stimavano reciprocamente: Bianchini sceglierà come titolo della propria raccolta più famosa Sul sindacato e altri scritti (Edizioni Quaderni del Progetto, Padova 1990). [3] Da qui l’importanza della storia orale, in particolare militante, che sappia confrontarsi e valorizzare l’aspetto della soggettività. [4] Adone Brandalise, pp. 144-145. [5] Franco Bifo Berardi, p. 135. [6] «Potere operaio», n. 13, 28 febbraio-7 marzo 1970, pp. 4-5. [7] Giovanni Giovannelli, p. 186. [8] Ferruccio Gambino, p. 164. [9] Giovanni Giovannelli, pp. 187-188. [10] Giovanni Giovannelli, p. 182. [11] Lo stesso Bianchini, proveniente prima dal Psi e poi dal Psiup (anche i modenesi Pompei e Pergola venivano dal Partito socialista di unità proletaria), uscì dai partiti storici del movimento operaio – rifiutando i suoi scimmiottatori – per non farvi più ritorno. Tuttavia negli anni Settanta, nella fase dopo la dissoluzione di Potere operaio, lo troviamo pragmaticamente attivo nel sindacato dall’interno dell’università di Padova, come i modenesi fecero tra gli insegnanti: «Alla fine degli anni Sessanta e inizio dei Settanta, ho scoperto che era abbastanza strano che andassi davanti alle altre fabbriche, mentre in quella dove lavoravo, l’università, niente. Formulammo allora tutta una serie di discorsi sull’università come luogo di produzione, e ho constatato che non si producevano mai fatti e comportamenti autonomi come quelli che di verificavano altrove. Il pubblico impiego appariva come ingessato e, a mio giudizio, bisognoso di una buona dose di iniziative autonome di lotta. In pratica mi sono dedicato a organizzare questa autonomia dal punto di vista di classe all’interno dell’ambiente universitario. Ho lavorato nel sindacato con quella specie di ambiguità del dentro e contro, cioè dentro la struttura sindacale ma contro le linee ufficiali; dentro per dar spazio alle voci che desideravano venire alla luce, ma contro la loro sterilizzazione». Intervista di Gabriele Massaro, p. 41. [12] Intervista a Guido Bianchini di Gabriele Massaro, pp. 31-32. [13] Intervista a Guido Bianchini di Andrea Del Mercato, dossier «Machina», https://www.machina-deriveapprodi.com/post/socrate-a-porto-marghera. [14] Per approfondire la questione, si rimanda a un precedente scritto dell’autore: http://archivio.commonware.org/index.php/gallery/869-l-enigma-dell-organizzazione. [15] Sergio Bologna, p. 142. [16] La classe operaia emiliana di fronte al problema dell’organizzazione, p. 65. [17] Toni Negri, p. 63. [18] Si veda, a mo’ di esempio, S. Bianchi, Figli di nessuno. Storie di un movimento autonomo, Milieu, Milano 2016. [19] La classe operaia emiliana di fronte al problema dell’organizzazione, p. 75. [20] S. Wright, Stato e partito sono participi passati, dossier «Machina», https://www.machina-deriveapprodi.com/post/socrate-a-porto-marghera. [21] «Quaderni del progetto», n. 1, 1974. [22] Tecnologia e organizzazione di classe, p. 86. [23] Ivi, p. 87. [24] Ivi, p. 90. [25] Ivi, p. 98. [26] Ivi, pp. 111, 116. [27] Ivi, p. 109. [28] Ivi, p. 105. [29] Lauso Zagato, p. 234. [30] Tecnologia e organizzazione di classe, p. 106. [31] Ivi, pp. 101-102. [32] Intervista a Lauso Zagato, primo novembre 2001, in G. Borio – F. Pozzi – G. Roggero, Futuro anteriore, DeriveApprodi, Roma 2002.

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