La Germania, perno geopolitico d’Europa, epicentro industriale e capitalistico del continente, sta attraversando senza dubbio un passaggio di crisi. Le fondamenta del suo modello economico, politico e sociale sono profondamente scosse dalle ostilità belliche che hanno trasformato le vicine pianure oltre il suo confine orientale in trincea, separandola traumaticamente dagli idrocarburi moscoviti; soprattutto, però, è il conflitto epocale soggiacente la ridefinizione dell’architettura globale, quello tra Stati Uniti e Repubblica popolare cinese, che già sta rideterminando drammaticamente il ruolo tedesco nel sistema mondo. E con esso, a irradiarsi, quello dell’Europa. L’Unione europea come la conosciamo, infatti, si costruisce intorno allo spazio tedesco. A questo spazio, e alle sue catene del valore, sono legati a doppio filo territori periferici e semiperiferici, tra cui la non secondaria fabbrica del Nord Italia, in particolare la piattaforma lombardo-emiliano-veneta, cuore pulsante del capitalismo industriale (e non solo) italiano. Abbiamo visto, a partire dallo shock del 2008-2011, la crisi percorrere un arco meridionale, mediterraneo: Grecia, Spagna, Italia. Cosa succede quando, invece, la crisi colpisce forte al centro? La Germania, grande malato del Continente, crediamo vada osservata con attenzione. Anche per questo, abbiamo intervistato Lorenzo Monfregola, giornalista residente a Berlino, su ciò che si sta muovendo nel cuore d’Europa.
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Energia a basso prezzo dalla Russia; industria leader votata alle esportazioni, in particolare verso la Cina; avanzato sistema di welfare che coesiste con un austero rigore dei conti – il tutto coperto, dal punto di vista della sicurezza, dallo scudo militare americano: questi sono stati, per sommi capi, i pilastri del modello socio-economico della Repubblica federale tedesca dalla riunificazione in avanti, che abbiamo visto agiti al loro massimo grado nell’era Merkel. Qual è oggi lo stato di salute del patto sociale tedesco di fronte alla disgregazione, accelerata e violenta, di queste condizioni strutturali? Che momento di crisi sta passando la Germania all’interno della più ampia crisi della globalizzazione a trazione americana?
Innanzitutto va detta una cosa: l’erosione di questo scenario era già più che comprensibile e prevedibile durante l’era Merkel. Ma Merkel non ha saputo affrontare le evoluzioni in arrivo, perché è sempre stata una politica molto abile sul breve periodo e nella gestione delle crisi – a partire dal suo riassorbimento delle contraddizioni politiche e sociali in un certo estremismo di centro – ma non ha mai avuto una particolare capacità e visione sul lungo periodo. Anche sul tema della Russia, non bisogna chiedersi con un approccio da tifoseria geopolitica se Merkel facesse bene o male a dire che il Nord Stream fosse solo un progetto economico, ma chiedersi come sia possibile che Merkel non abbia saputo organizzare il proprio Paese per uno scenario come quello della guerra in Ucraina e per la necessità di Berlino di muoversi all’interno della sua appartenenza all’alleanza atlantica. Il compito di un leader politico è saper fare un’analisi previsionale per l’interesse del proprio paese nella geometria di forze ed equilibri in cui è inserito. E, alla prova degli ultimi anni, Merkel non è stata in grado di farlo bene, qualunque fossero le sue intenzioni.
Detto questo, passando a oggi, il patto sociale tedesco per ora regge ancora abbastanza, ma rischia di saltare progressivamente proprio perché per anni non sono stati fatti sufficienti investimenti interni. Ora che il mercato globale rallenta, non basta più l’export tedesco a tenere a galla il patto sociale. Nel frattempo, l’inflazione crea squarci nella società tedesca, il cui ceto medio tradizionalmente non conta su un consistente capitale privato (basti pensare alla poco diffusa proprietà immobiliare privata tra i tedeschi). L’attuale governo Scholz ha in realtà provato a impattare le difficoltà con un ampio piano di molteplici investimenti, sfruttando l’onda lunga dei fondi contro la crisi Covid e la crisi energetica per aggirare il freno al debito costituzionale (che era stato sospeso dalla crisi Covid in poi). Ma una sentenza della Corte Costituzionale ha poi cassato l’aggiramento del freno per il Fondo per il Clima e la Trasformazione (Klima- und Transformationsfonds, Ktf) e, potenzialmente, per altri fondi e misure future. Una mossa giuridico-istituzionale formalmente quasi automatica, che ha riattualizzato e riprodotto la questione dell’auto-imposizione dell’austerity. La Corte ha per ora riaffermato l’essenza della costituzione materiale tedesca degli anni Duemila, basata sullo storico terrore della perdita di controllo dei conti. Non è che Berlino non potrebbe quindi accedere a più credito per fare più investimenti, ma si autoimpone di non farlo. Torna in mente l’Alamagna di Machiavelli, in cui si «è ricchi perché si vive da poveri». Ma anche l’auto-imposizione del rigore di bilancio, per funzionare, ha bisogno di un certo mercantilismo che esternalizzi ugualmente nel surplus commerciale dell’export le conflittualità sociali interne. Se questo schema salta, iniziano ugualmente le difficoltà, ad esempio in favore di un partito come l’ultra-destra AfD, che punta consapevolmente all’etnicizzazione dell’insoddisfazione e delle rivendicazioni sociali. In un’eventuale e reale crisi economica, non c’è niente di più semplice che scagliare i tedeschi più colpiti o insoddisfatti contro le comunità straniere o di origini straniere in Germania.
Il sabotaggio, subito passivamente senza colpo ferire, del Nord Stream 2 e l’inaugurazione di una storica e massiccia politica di riarmo (Zeitenwende), che però sembra avviarsi con enormi difficoltà, sono alcuni dei fattori che potenzialmente giustificherebbero un nuovo protagonismo geopolitico tedesco, oggi tuttavia soffocato nella morsa tra Stati Uniti-Russia-Cina e messo in discussione dalle debolezze interne della coalizione di governo guidata da Scholz. Come si riverberano le sfide esterne, provenienti dalla mutata fase, nella politica interna tedesca? Quali sono le instabilità che coinvolgono il sistema di governo tedesco e i suoi attori (partiti, istituzioni, sindacati, ecc.), in particolare quelli facenti parte della Ampel-Koalition?
Non direi che il sabotaggio del Nord Stream 1 e 2 sia stato subito passivamente. È così pubblicamente, ma non sarà obbligatoriamente così nella realpolitik e nella diplomazia. La Germania sta facendo le sue indagini interne sull’operazione che ha fatto saltare le pipelines nel Baltico. Le indagini interne sono le sole di cui si fidi l’hard power tedesco, ma sono indagini che hanno i tipici tempi e modi giuridico-burocratici tedeschi. In Germania per il Nord Stream sono state ipotizzate intanto diverse matrici, ma almeno una ricerca giornalistica, della tv pubblica Ard e altri media mainstream, ha fatto emergere una pista polacca-ucraina (che ruota intorno alla barca denominata «Andromeda»). La ricerca non fa mai dirette citazioni o indicazioni su apparati nazionali ucraini. Ma se questa pista fosse mai confermata in sede legale tedesca, sicuramente Berlino non mancherà di presentarne ugualmente delle conseguenze indirette a Kiev. Questo potrebbe ad esempio avvenire quando e se mai il governo ucraino dovrà sedersi a un tavolo delle trattative. Ma siamo ancora nel campo delle ipotesi, su tutto.
Che la Germania non reagisca con grandeur in certe situazioni è storicamente noto. Pochi anni fa, nel 2019, nel parco Kleiner Tiergarten di Berlino, è stato ucciso il comandante-miliziano ceceno-georgiano Zelimkhan Khangoshvili, che aveva chiesto asilo in Germania. Per l’omicidio è stato arrestato il cittadino russo Vadim Krasikov. A lungo, dopo il delitto, Berlino è stata accusata di permettere passivamente operazioni con esecuzioni nel centro della propria capitale, tra l’altro a poche centinaia di metri dal Parlamento tedesco, facendosi di fatto umiliare internazionalmente. Nel frattempo, però, a fine 2021 Krasikov è stato condannato all’ergastolo da un tribunale tedesco e nella sentenza è stato dichiarato che l’uccisione di Khangoshvil è stata un’eliminazione state-contracted dello Stato russo. Quindi non è che Berlino non si muova, ma lo fa solitamente per vie giuridiche e lente.
Proprio in merito alla Russia, dopo la guerra in Ucraina, la Germania ha saputo assorbire, seppur traumaticamente, l’abbandono del legame energetico-diplomatico con il Cremlino. L’interruzione del legame infrastrutturale del gas è emblematicamente quasi definitiva, almeno negli attuali assetti storici. Quelli che un tempo erano i più aperti nel dialogo con Mosca, si veda lo stesso presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, oggi hanno tagliato i loro ponti con la Russia e hanno fatto più volte forme di pubblica ammenda. Quello che però Berlino dice all’interno dell’alleanza atlantica, quello che Scholz comunica quando ad esempio viaggia a Pechino, è che ora non deve venir chiesto alla Germania di tagliare con la stessa decisione con la Cina. La compenetrazione tra economia tedesca e cinese è ben altra cosa della convenienza del gas russo. Se costretta a un decoupling generale con la Cina, Berlino e, ancora di più, Francoforte, non reggerebbero molto. Si potrebbe addirittura sospettare che Berlino abbia acconsentito a tagliare così drasticamente e in modo accelerato con la Russia proprio per preservarsi sul dossier cinese. Non che la Germania non si stia organizzando per una maggiore indipendenza dall’economia cinese, ma è eventualmente una faccenda di anni e anni.
In quanto alla Zeitenwende militare, per ora è solo il tentativo di rendere la Bundeswehr tedesca all’altezza di un paese dalla forza economica-industriale come la Germania. Quindi non si tratta di una fuga in avanti sul piano militare o tantomeno di un «riarmo» da mobilitazione generale jüngeriana. Per ora si tratta solo di un recupero rispetto a diversi partner europei, inclusa l’Italia, per non parlare ovviamente della Francia. Berlino cerca di superare la rinuncia decennale al dossier militare, sacrificato e delegato per motivi storici più che noti, in un processo che aveva invece concentrato tutte le energie geostrategiche sulla diplomazia-supremazia economica, con l’obiettivo di imporsi come prima della classe nel mondo globalizzato. Ovviamente, più passa il tempo, più il dossier militare sarà comunque importante e potenzialmente ingombrante anche nei corridoi di Berlino. Questo significherà inserire sempre di più il soggetto militare nell’equilibrio istituzionale della Berliner Republik, che aveva sempre tenuto le uniformi molto lontane dalle stanze del potere. E non è certo un caso se, proprio in previsione di questo nuovo ruolo, da anni le istituzioni tedesche cercano di epurare le sacche di estremismo di destra nella Bundeswehr. Gli estremisti di destra o gli ultra-nazionalisti sono quasi fisiologici in quasi tutti gli eserciti, ma in Germania c’è ora un’attenzione particolare su questo tema, proprio perché si prevede che ci dovrà essere un crescente e inedito ruolo militare negli equilibri istituzionali dei prossimi anni. Nel novembre 2020, del resto, è stato attivamente sostituito il capo del MAD, l’intelligence militare tedesca, che si occupa anche e proprio delle infiltrazioni di estrema destra, molto probabilmente in nome di un nuovo corso nella gestione della repressione interna dell’estremismo nella Bundeswehr.
Venendo al governo, Olaf Scholz è ancora espressione della più classica realpolitik tedesca, con i suoi tentennamenti e le sue prudenze tattico-strategiche da egemone riluttante. In questo continua la linea Merkel, anche se formalmente declinata nel programma Spd e, soprattutto, con una reattività obbligatoria a eventi sempre più pressanti. La Spd ha estromesso certamente la vecchia guardia schröderiana sul piano della politica estera, ma resta un partito legato alle sue tradizioni, ha ancora una certa voglia di bipolarismo da Grosse Koalition e si trova oggi talvolta appesantita in un governo a tre.
La politica estera tedesca viene fatta spesso in cancelleria, ad esempio su temi decisivi come l’export di determinate armi verso l’Ucraina, un tempo erano i panzer, ora sono i missili da crociera Taurus. Sui Taurus e con le dichiarazioni contro qualsiasi forma anche lontana di «boots on the ground» tedeschi e Nato in Ucraina, Scholz ha ribadito anche solo idealmente la sua linea molto cauta, anche rispetto a qualsiasi ipotesi di «ambiguità strategica» del linguaggio. Al massimo, la linea di Scholz viene poi modificata dopo lunghe valutazioni e tramite soluzioni laterali, come ad esempio la fase dello «scambio circolare» dei carri armati, e superata solo dopo. Per Scholz, sull’Ucraina, i tentennamenti e le cautele non sono un accidente dell’impostazione tattica, sono una parte integrante, quasi strutturale della sua stessa strategia attendista di fatto post-merkeliana. Per questo motivo Scholz affronta una forte contestazione politica in patria, sia dall’opposizione che da parti della sua maggioranza. Ma il cancelliere si dice convinto di esprimere il sentimento della maggioranza dei tedeschi e, nelle discussioni con alleati e avversari, fa sempre perno su questo aspetto. Non è un gioco facile.
La ministra degli Esteri, Annalena Baerbock dei Verdi, può permettersi di dedicarsi a dichiarazioni dal forte valore idealistico, ma ha talvolta un’influenza superficiale. A Baerbock questo compromesso torna comunque utile per profilarsi a livello nazionale e internazionale, visto che punta sempre alla cancelleria. Ma è spesso Scholz a fare la politica estera. Anche il presunto recente veto di Scholz sulla tedesca Ursula von der Leyen come Segretario Generale della Nato, che sarebbe stato comunicato direttamente a Joe Biden a fine 2023, è indicativo in questo senso.
Il terzo partito del governo sono i liberal-liberisti di Fdp. Sul piano internazionale sono un partito molto atlantista. Al tempo stesso sono un partito profondamente legato al mondo industriale e produttivo tedesco. Quindi, anche se raramente verbalizzano simili dubbi, possono poi avere delle titubanze quando l’atlantismo mette in difficoltà il modello di interessi dell’export della Germania, soprattutto in prospettiva sul fronte cinese. Oggi la Fdp è comunque in crisi e i sondaggi la danno addirittura sotto allo sbarramento del 5%. Un disastro politico. Il partito paga molto l’alleanza con il centrosinistra, probabilmente soprattutto quella con i Verdi. Nel 2021, forse, la Fdp aveva raccolto anche una parte di quel voto che si definisce oggi «liberale classico», quindi liberal-conservatore, di centrodestra, spesso ostile agli aspetti woke-liberal d’ispirazione USA di cui sono invece chiara espressione i Verdi. Si tratta di un voto che nel 2021 era ancora alienato dalla Cdu a causa del centrismo di Angela Merkel, ma che ora sembra pronto a tornare a sostenere i cristiano-democratici, a scapito appunto della Fdp. Con il nuovo segretario Friedrich Merz, che è un cristiano-democratico letteralmente anti-Merkel da sempre, la Cdu è tornata decisamente su posizioni di centrodestra, a partire dai dossier immigrazione, multiculturalismo e rapporto con la narrazione anticoloniale non occidentale.
A fronte dello scenario di crisi, la Germania è attraversata dall’ascesa, in ritardo rispetto agli altri Paesi europei, di un partito «antisistema» di massa, Alternative für Deutschland (AfD), che ha nei Länder dell’ex Repubblica democratica tedesca la propria roccaforte sociale. Parallelamente, dalla crisi di quella sinistra «classica» rappresentata dalla Linke, emerge il tentativo di Sahra Wagenknecht di rielaborarne una proposta in chiave «sovranista» (diciamo così per esigenze di sintesi). Che caratteristiche ha AfD e in che misura raccoglie segmenti sociali impoveriti o colpiti dalla crisi oltre il perimetro dell’estrema destra? In che misura rappresenta una contestazione (in chiave populista?) allo status quo renano? Come si inserisce il nuovo soggetto politico di Sahra Wagenknecht nella ridefinizione della politica tedesca e nella contesa per quei segmenti sociali più malcontenti?
AfD nasce nel 2013 come partito anti-euro ma si afferma come partito anti-immigrazione con la cosiddetta crisi dei migranti del 2015-2016 e con l’attacco alla Willkommenspolitik, la politica di accoglienza dei migranti di Angela Merkel in occasione della fuga di massa dalla guerra in Siria. In realtà Merkel poi quella politica l’ha abbandonata molto più velocemente di quanto si creda, ad esempio con gli accordi miliardari con la Turchia di Erdogan per il blocco dei flussi migratori. Ma è stata comunque la Willkommenspolitik a permettere ad AfD di crescere e sfondare nella società civile, cioè a permetterle di rendersi almeno parzialmente «salonfähig», vale a dire accettabile come forza di ultra-destra per una parte non più solo settoriale ed estremamente minoritaria della società. Nel frattempo, negli anni, all’interno di AfD c’è stato un putsch silenzioso dopo l’altro e il partito è diventato sempre più di estrema destra, estromettendo leader e figure che hanno cercato di frenare questo processo e volevano mantenere, almeno nominalmente, uno spirito liberista-conservatore. AfD è innanzitutto quindi un partito anti-immigrazione, anche se per precisione analitica bisognerebbe dire che è anti-immigrazione rispetto alle comunità musulmane. Poi, storicamente, visto che è nel dna della sua cultura politica, è anche una forza tendenzialmente antisemita e anti-liberale. Al tempo stesso, AfD ha mantenuto pezzi di un’agenda liberista sui temi economici. È quindi in verità un partito molto contraddittorio, che mostra spesso forti limiti intellettuali e teorici. I pochi teorici sono quelli più di estrema destra, quindi politicamente meno spendibili e presentabili al momento, come alcuni rappresentanti che si muovono nella Neue Rechte, che possiamo definire declinazione tedesca della Nouvelle Droite francese (con tutte le necessarie distinzioni). Per ora molti benefici per AfD arrivano innanzitutto dalle mancanze tattico-politiche degli altri partiti. Anche qui, il centrismo di Merkel ha creato molto spazio a destra e AfD lo ha occupato, al di là delle sue reali capacità politiche.
Sulla composizione sociale dell’elettorato di AfD si possono dire un paio di cose, senza pretese di completezza. Non è assolutamente vero che sia un partito votato solo dalle persone anziane, anzi, uno zoccolo duro sembra essere tra chi ha 30-50 anni, soprattutto nella popolazione maschile. Il partito raccoglie le istanze di frammenti di ceto medio impoverito così come di ceti più abbienti, in questo caso su base ultra-identitaria e tradizionalista. Un ruolo importante ce l’ha comunque una parte del ceto più economicamente debole e meno istruito. AfD è ad esempio forte nella provincia e nella periferia metropolitana in cui vive quello che possiamo definire un proletariato bianco tedesco. Proletariato bianco le cui tensioni sono stemperate da anni con la distribuzione di welfare, ma in cui lo stato sociale è sia garante di una certa pacificazione di base sia un ostacolo oggettivo alla mobilità sociale e alla realizzazione esistenziale di tante persone. In queste contraddizioni si è inserita abilmente l’ultra-destra, tramite quell’etnicizzazione delle rivendicazioni che dicevamo prima.
C’è poi il fenomeno della territorializzazione di AfD nella Germania orientale. Per motivi storici e culturali, nei Länder della ex Ddr c’è stato un tabù meno solido rispetto allo sdoganamento di un partito che fosse molto di destra. Questo è un dato di fatto. A Est la colpa nazionalsocialista non è stata elaborata come a Ovest, non è stata pietra angolare dell’educazione post-‘45 di intere generazioni, visto che nella Ddr la storia del nazismo era stata sbrigativamente ridotta a una delle degenerazioni del capitalismo, permettendo così una maggiore de-responsabilizzazione e una rimozione più semplice.
Nella Germania orientale, inoltre, esistono ancora segmenti di popolazione che si sentono sconfitti della Riunificazione, su vari piani, così come si sentono traditi dalla promessa della Rivoluzione Pacifica del 1989. Tra queste persone AfD riesce oggi a raccogliere un forte consenso. Non si tratta però solo di ceto medio impoverito o proletariato bianco. C’è anche la questione, molto trascurata, di una mancata élite tedesca-orientale. Esiste tutto un mondo che con la Riunificazione si era aspettato di diventare élite dirigente nei territori tedesco-orientali e invece ha visto un certo colonialismo interno da parte del surplus dirigenziale dell’ovest: manager, professori, politici, alti funzionari, professionisti di vari settori. Su questa dinamica c’è ancora molto risentimento. Quindi ora pezzi di élite mancata, o che magari si considerano tali, flirtano con AfD o ne fanno direttamente parte. Ed è così che nei Länder dell’Est AfD, invece di fermarsi sotto al 15% come fanno di solito i partiti di protesta, sfonda nei sondaggi il muro del 30%, cioè rivendica il sogno di farsi pezzo di classe dirigente locale. Ovviamente, per farlo, AfD ha ancora bisogno di collaborare localmente con altri partiti. Per ora dalle direzioni della Cdu e della Fdp di Berlino, così come dai partiti più a sinistra, viene imposta la Brandmauer, il muro «antincendio» verso destra. Ma a Est c’è chi a livello di centrodestra locale non disdegna un dialogo con AfD. È quindi un fronte molto agitato. Su AfD va detto anche che si è aperto uno scontro chiaro con l’Ufficio per la protezione della costituzione, l’intelligence interna tedesca, e con altri organi garanti dell’ordine liberal-democratico tedesco (la cosiddetta Freiheitliche demokratische Grundordnung). Siccome i partiti non hanno contenuto bene AfD politicamente, ora si è aperta una questione che mette in campo le forze attive stesse della democrazia tedesca, secondo il principio di prevenzione tipico della Wehrhafte Demokratie, la «democrazia combattiva», che secondo la costituzione tedesca deve agire proattivamente per proteggere se stessa. Questo scenario avrà delle conseguenze molteplici e andrà seguito con molta attenzione. Se ne parlerà ancora.
Soprattutto a Est, tuttavia, c’è anche uno spazio per chi è sovranista ma non vuole essere direttamente di ultra-destra. Il partito Bsw di Sahra Wagenknecht porta insieme un certo nostalgismo ortodosso post-comunista con attualizzazioni di istanze anti-americane e filo-russe. Per vicinanza populista all’umore popolare è anche un partito tendenzialmente anti-immigrazione e, diciamo, anti-woke. Si tratta di un esperimento molto specifico, determinato dalla storia particolarissima della Germania e della Germania orientale. Ovviamente Wagenknecht non poteva più stare nella Linke – che fin dalla fondazione cercava già di mettere insieme ex sessantottini occidentali con nostalgici della Ddr – e che oggi candida in Europa Carola Rackete, cioè un simbolo opposto al tendenziale social-patriottismo sovranista di Wagenknecht. Bsw è un partito ibrido e molto specifico, ma al momento tutti gli altri partiti aspettano cosa succederà. Non è detto che ci riuscirà, ma Bsw potrebbe togliere voti ad AfD, soprattutto alle Europee, e questo potrebbe pure andare bene a qualcuno. La vera domanda per Bsw, a un certo punto, potrebbe diventare come distinguersi effettivamente da AfD. Il rossobrunismo, del resto, è un tentativo costante di equilibrio sopra il solo brunismo.
I Verdi, nelle elezioni europee del 2019, raddoppiavano i propri consensi e sorpassavano i socialdemocratici. Nelle elezioni federali del 2021 ottenevano il proprio miglior risultato, raddoppiando la propria presenza nel Bundestag come terzo partito – considerati vicini alle sensibilità di una composizione di riferimento giovane e metropolitana, e investiti delle richieste politiche rispetto alla transizione ecologica. Qual è il ruolo dei Verdi e come si pongono in questo momento di crisi strutturale del modello socio-economico tedesco? Quale la loro composizione sociale di riferimento e i contesti territoriali di maggior seguito? A che punto è davvero e come si sta dando la «transizione ecologica» di cui si sono presi in carico le istanze, rispetto anche a movimenti sociali come i Fridays For Future?
I Verdi sono in difficoltà perché la loro proposta soffre molto un periodo di crisi come questo. Prima delle elezioni del 2021, i Verdi si erano abilmente presentati come i potenziali manager politici di una svolta ecologica che fosse anche business friendly. Non a caso c’era un significativo sostegno per i Verdi nel mondo industriale e manageriale tedesco: era diventato quasi un hype, l’ipotesi di un’apertura a un’alleanza storica. I piani dei Verdi erano considerevoli: rendere la Germania un’avanguardia del capitalismo green, cioè un paese capace di cavalcare meglio di tutti il Green Deal e di rendersi più competitivo degli altri proprio rispettando da primi della classe i nuovi standard ecologici. Un piano a dir poco ambizioso, per cui serve innanzitutto un certo stabile e solido benessere di partenza. Un piano che, in breve, è stato soprattutto gravemente danneggiato dalla guerra in Ucraina e dalla crisi energetica. Paradossalmente, proprio i Verdi, che sono sempre stati i più critici delle relazioni tedesche con Mosca, dipendevano progettualmente dalle garanzie del gas a basso costo dalla Russia (almeno, necessariamente, in un primo periodo). Ora che questa realtà è mutata, la svolta ecologica-industriale diventa potenzialmente più costosa e difficile. Sicuramente la svolta è anche quindi meno vendibile al ceto produttivo e all’industria, che si trovano in una competizione globale in cui l’attenzione ecologica non è considerata valore condiviso e non c’è certo un movimento globalizzato e omogeneo in questo senso. Questa contraddizione è espressa molto dalla figura dell’attuale vicecancelliere tedesco e ministro dell’Economia e della Protezione Climatica, Robert Habeck dei Verdi. La stessa nuova denominazione del suo ministero doveva lanciare nel 2021 l’idea di un’economia che fosse innanzitutto rivolta alla svolta green. Pochi mesi dopo essere entrato in carica, Habeck si è trovato invece a dover cercare in fretta e furia alternative al gas russo, a progettare velocemente impianti per far arrivare il Gnl sulle coste tedesche e a girare per il mondo per trovare nuovi accordi energetici. Nel frattempo, Habeck ha dovuto anche accettare un temporaneo prolungamento del nucleare (ora già terminato), così come la riattivazione e l’aumento condizionato dell’uso del carbone. Ovviamente i grandi piani dei Verdi non sono scomparsi e Habeck non smette di puntare moltissimo sulle rinnovabili: gli investimenti in questa direzione restano massicci. Ma, intanto, è arrivata anche la già citata botta della Corte costituzionale, che ha cassato proprio il finanziamento miliardario per il Fondo per il Clima e la trasformazione Ktf. I piani dei Verdi restano, ma mancano molti più soldi di quanto si credesse. Bisogna qui sottolineare che, come politico, Habeck ha reagito in maniera molto stoica al suo destino. E anche in maniera trasparente, onesta, ammettendo in continuazione le contraddizioni che ha incontrato e non nascondendo mai troppo le difficoltà crescenti. Resta però significativo come quello che era un politico sorridente e quasi piacione si sia ritrovato a fare ripetute conferenze stampa con un volto stanco e triste, in cui con lunghe elucubrazioni ha dovuto spiegare tutte le problematiche contingenti della Germania degli ultimi due anni.
Dall’altro lato, i piani ecologisti possono essere anche portati avanti in maniera anti-capitalista, per usare un umbrella term un po’ superficiale. E qui arriviamo alla domanda sui movimenti sociali ecologisti. Il rapporto dei Verdi di governo con questi poteva essere inizialmente cordialmente conflittuale, in una dialettica quasi propulsiva, ma con l’aggravarsi delle difficoltà i rapporti possono cambiare. Questo definirà anche la realtà di diversi movimenti sociali ecologisti o ambientalisti: sono pronti ad aumentare la conflittualità o erano soprattutto una fase radicale-giovanile della formazione di un nuovo ceto dirigente, il cui destino (storico e anche un po’ consapevole) era inserirsi nella progettualità del capitalismo green? Queste contraddizioni in seno all’ambientalismo-ecologismo nelle sue varie forme non sarebbero emerse in condizioni di maggiore benessere. Ma possono emergere ora e sta già accadendo.
Nel frattempo, l’elettorato di fiducia dei Verdi resta urbano e da ceto riflessivo, quindi, anche in questo caso, spesso legato a un certo benessere o alla politica come espressione morale. In Germania questi segmenti rimangono significativi e quindi i Verdi non perderanno comunque uno zoccolo del loro consenso. La leadership verde ha però chiaramente paura di trovarsi, per così dire, con un grande futuro alle spalle.
Abbiamo visto, negli ultimi mesi, la Germania attraversata da larghe proteste sociali, fatto alquanto inedito per il paese; in particolare, oltre a vari scioperi di categorie pubbliche come ferrovieri e insegnanti, la mobilitazione massiccia degli agricoltori, che con i loro trattori hanno bloccato le strade e le città tedesche, infine «marciato» su Berlino – innescando, sull’onda delle proprie proteste, anche la mobilitazione dei comparti agricoli in Francia e in Italia. Quali sono le condizioni e le istanze che hanno fatto detonare le proteste? Che sentimento medio hanno agglomerato intorno a sé, anche rispetto ai vari fronti di guerra aperti tra Ucraina e Medio Oriente e alle politiche europee dei Green Deal? Quali segmenti sociali e istanze le proteste sono riuscite a raccogliere oltre le semplici richieste di settore?
Si tratta di uno scenario per adesso abbastanza eterogeneo. Le proteste dei trattori, ad esempio, hanno trovato molto sostegno nella Cdu-Csu e nel centrodestra più social-conservatore, con un’operazione politica che a un certo punto ha puntato a riassorbire velocemente un dissenso che stava in parte diventando permeabile a infiltrazioni dell’ultra-destra. Le motivazioni della protesta sono l’eliminazione di alcune agevolazioni per gli agricoltori, a partire da quelle sul carburante agricolo. Si tratta di una protesta potenzialmente europea, come si è visto, e molto di categoria. Sicuramente un bersaglio della protesta sono le politiche del Green Deal e i partiti che le sostengono, che in Germania sono oggi di centrosinistra e di cui i Verdi sono considerati il simbolo più criticato. È per ora difficile immaginare un’uscita a sinistra di questa protesta in Germania. Esiste qui un certo ribellismo piccolo-imprenditoriale senza casa. Il ribellismo è reale, la capacità di saldarsi con altri segmenti resta un interrogativo.
In quanto alle proteste nei trasporti, anche qui si tratta di proteste di categoria per adeguare il salario all’inflazione e migliorare le condizioni di lavoro. I sindacati promotori si muovono all’interno dei paletti delle contrattazioni salariali con le varie aziende, che siano le ferrovie o le compagnie aeree. Il potere contrattuale della categoria dei trasporti è considerevole, quindi permette una contrattazione valida. Il tutto deriva anche dal fatto che c’è una certa mancanza di lavoratori nel settore: da una parte questa è la causa di turni di lavoro sempre più pesanti, dall’altra questa condizione non offre un serbatoio di ricambio alle aziende, esponendole di più alla protesta. In un mondo in cui il lavoratore diffuso è egli stesso merce, anche il trasporto di persone è sul piano di circolazione delle merci, e questo permette comunque scioperi molto efficaci. Ma anche questa, di nuovo, è un’arma a doppio taglio: il sostegno sociale a questi scioperi non è scontato, soprattutto se la protesta non esce dall’identità di categoria.
Non è ancora chiaro se il potere contrattuale della categoria dei trasporti voglia poi esulare la propria contingenza e voglia congiungersi con le rivendicazioni del mondo precario o di altri mondi professionali molto meno sindacalizzati e molto meno protetti. La compartimentazione delle rivendicazioni del mondo del lavoro in Germania non ha mai permesso una vera e propria massificazione di una protesta, è una tradizione che parte dalla cogestione di fabbrica e giunge fino a oggi. È il mondo precarizzato, autonomo, con contratti temporanei compensati dalla garanzia minima del welfare a non avere comunque una sua rappresentanza e a restare tanto smembrato quanto esposto. La notizia sarà quindi se protesteranno altre tipologie di lavoratori: da chi consegna i pacchi con ritmi che sfuggono ampiamente ai diritti a chi lavora freelance e deve pagarsi assicurazioni sanitarie sempre più care e meno efficaci, da chi lavora nei cantieri edili semi-regolari che puntano su manodopera straniera a chi passa da un contratto saltuario all’altro e non può mai uscire dall’erosione del potere d’acquisto. Da un punto di vista prettamente analitico, la notizia in Germania sarebbe se ci fosse uno sciopero non immediatamente istituzionalizzato.
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Lorenzo Monfregola è un giornalista freelance e scrittore italo-tedesco. Collabora da Berlino con l’agenzia Ansa. Scrive per Il Tascabile, Aspenia, Le Grand Continent, Eastwest, Fondazione Feltrinelli e altri. Ha scritto il romanzo Gli annegati, Il Saggiatore, 2021.
Matteo Montaguti, classe 1991. Si è occupato di operaismo, autonomia e forme della militanza negli anni Sessanta e Settanta. Dal 2016 lavora nell’industria editoriale.
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