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L’interno della rivoluzione. Mario Tronti e la «rivoluzione politica paolina» (I)



È piuttosto complesso definire il rapporto che lega, perlomeno dagli anni Novanta, la riflessione di Mario Tronti all’interpretazione di San Paolo. Michele Garau, in questo articolo di alcuni anni fa, affronta un tale compito con un impegno preliminare nell’indagine su una costellazione di categorie che possiede per l’autore straordinaria importanza: quella che annoda il terreno politico, specialmente rivoluzionario, alla dimensione della trascendenza e a quella della profezia. Pubblichiamo qui la prima parte del testo.


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Il Paolo di Mario Tronti e la teologia politica

Definire il rapporto che lega la riflessione di Mario Tronti, dagli anni Novanta a oggi, all’interpretazione di San Paolo, risulta piuttosto complesso. Per rispondere a tale compito occorre infatti un impegno preliminare nell’indagine su una costellazione di categorie che possiede per l’autore straordinaria importanza: quella che annoda il terreno politico, specialmente rivoluzionario, alla dimensione della trascendenza e a quella della profezia. Il pensiero di Tronti addiviene infatti a temi religiosi e spirituali attraverso la constatazione di una crisi catastrofica della politica e dell’emergenza antropologica che la accompagna. Con un sempre più marcato accento tragico nella scrittura e nello stile di pensiero, il padre dell’operaismo italiano incontra l’ambito religioso come «spirito disordinante», come slancio che va dall’interiorità dell’individuo allo spazio sociale aprendo una prospettiva di «ulteriorità» rispetto allo stato delle cose mondane. Il cristianesimo appare dunque come espressione di «differenza umana», come modello storico alternativo, custode di un’idea di uomo radicalmente dissimile e nemica rispetto a quella del capitalismo[1]. La storia del movimento operaio, del marxismo e del comunismo, sarebbe d’altronde stata sconfitta proprio in quanto priva di un paradigma antropologico, di un’immagine dell’uomo altrettanto forte e pervasiva di quella capitalista e liberale dell’individuo egoista e dei suoi «spiriti animali».

Da questo punto di vista il tramonto della politica appare come crisi strutturale dei fondamenti, non battuta d’arresto contingente ma tracollo epocale di quell’idea di trasformazione, di rivolgimento dei rapporti e trasvalutazione dei valori che immette nell’orizzonte rivoluzionario la presenza dell’assoluto, di una trascendenza che informa anche l’agire qui e ora: «Oggi, in uno stato normale, non c’è solo crisi della politica. C’è anche una crisi della teologia. Ricongiungerle è il compito messianico attuale. Se il tempo storico non riprende il tempo messianico, non c’è speranza che si esca dalla crisi della politica[2]». La teologia politica diviene allora un prisma tramite cui rileggere il rapporto tra il marxiano «sogno di una cosa», l’altezza di tensioni ideali e profetiche dispiegate dalla promessa senza tempo della liberazione umana, e le alterne vicende storiche in cui si è cercato drammaticamente di incarnarla, con un titanismo che non di rado ha trascurato i limiti soggettivi della «materia umana» che doveva costruirne le fondamenta nei tempi lunghi della storia terrena. Un pensiero rivoluzionario del tempo che viene, come una qualsiasi proposta di resistenza teorica e pratica, deve quindi necessariamente misurarsi con il problema antropologico come precondizione essenziale alla sua stessa intellegibilità: «Si impone una nuova idea dell’uomo, un’antropologia rivoluzionaria che vada a misurarsi con la situazione del mondo, qui e ora. Tutto il resto, lo stesso modello di un’altra società come obiettivo per cui richiamare a combattere, non può che passare attraverso questa porta stretta»[3]. La figura di San Paolo acquista entro tale scenario un rilievo particolare, in quanto portatrice di un atteggiamento profondamente politico che pone in modo radicale e inedito il rapporto tra fede e legge, il tema decisivo di un agire libero nella contingenza, volto a trasformarla e superarla. La «rivoluzione politica paolina» è definita, secondo Tronti, proprio da questa combinazione singolare di elementi: da una parte c’è l’interpretazione sovversiva della Lettera ai Romani, che nel solco di Jacob Taubes[4] attribuisce a Paolo una teologia politica negativa incentrata sulla dichiarazione di guerra a Roma e ai Cesari, dall’altra c’è invece il nuovo nomos, che inscrive il messaggio universale del Cristianesimo nella struttura geopolitica del potere imperiale romano, ponendo le basi per la fondazione di un nuovo popolo e della sua forma istituzionale, la Chiesa. L’importanza di Paolo è quindi legata al connubio, all’operazione duplice che tiene insieme una prospettiva escatologica alla via realistica per la sua realizzazione: «Paolo di Tarso, nell’immagine realistica che io ne ho, viene avanti come una grande figura di trasformazione del mondo, come ordine costituito e come mentalità indotta da questo mondo»[5]. La lettura trontiana si inserisce in un plesso tematico centrale non solo per l’esegesi del testo paolino, ma per la significazione stessa di quel corpo teorico che viene definito «teologia politica», a cui risultano essenziali sia il percorso analitico di Taubes e il suo confronto con la posizione di Carl Schmitt, che il riferimento specifico alla Lettera ai Romani e al suo tredicesimo capitolo. L’approccio proposto da Taubes ravvisa, come si è detto, in Paolo e più specificamente nella Lettera ai Romani un attacco diretto all’autorità imperiale, in cui il nómos è negato e reso inoperante in nome di colui che dal nómos è stato crocifisso:


Questa trasvalutazione rovescia la teologia ebraico-romano-ellenistica dell’élite, tutta questa accozzaglia dell’ellenismo. Certo, anche Paolo è universale, ma solo passando per il discrimine del crocifisso, e ciò significa: trasvalutazione di tutti i valori di questo mondo. Il nómos come summum bonum è del tutto fuori questione. Di qui deriva la sua carica politica, il fatto di essere un esplosivo ad altissimo potenziale, e ciò traspare dal suo stesso linguaggio[6].


L’intervento di Paolo stravolge il valore teologico del concetto di legge, immettendosi in modo radicale e provocatorio nelle aspre dispute che dividono non soltanto ebrei e cristiani, ma, all’interno del Cristianesimo, la componente giudeo-cristiana, ancora legata al valore discriminante dei precetti, dei riti e dell’elezione veterotestamentaria, da quella pagano-cristiana. Paolo di Tarso, appellandosi all’ingiunzione dei pasti comuni e alla dimensione universale della vita comunitaria, dell’agape, sostiene un superamento della legge tradizionale in nome di una nuova comunione basata sullo spirito, il pneûma. A essere rinnovato è lo stesso significato dell’elezione di Israele, che non viene quindi cancellata o invalidata, ma illuminata in una nuova luce, separando «Israele secondo la carne», cioè la discendenza ebraica di stirpe a cui lo stesso Paolo appartiene, dal suo resto, la fetta che forma il popolo secondo lo spirito: «Se anche il numero dei figli di Israele/ fosse come la sabbia del mare, / sarà salvato solo il resto»[7].

Nell’ottica di Taubes è necessario evidenziare innanzitutto l’elemento della vita comunitaria, affrontato nel capitolo dodicesimo della Lettera ai Romani, in cui il nuovo legame improntato ai princìpi del pneûma e dell’agàpe è illustrato dall’immagine organologica del corpo di Cristo: «Come infatti in un solo corpo abbiamo molte membra, ma non hanno tutte la stessa azione da fare, così noi, molti, siamo un solo corpo in Cristo e, singolarmente presi, membra gli uni rispetto agli altri»[8]. L’altro aspetto determinante è il permanere fino all’ultimo di una prospettiva apocalittico-escatologica in nome della quale, nella contrazione dei tempi che precedono l’avvento, le identità sociali e politiche precedenti si svuotano di significato. Si tratta del concetto paolino di «os me», ovvero un atteggiamento che, pur non abolendo direttamente i vincoli gerarchici e le differenze di posizione, prescrive di vivere «come se» questi non esistessero, dismettendoli e privandoli di effettività:


La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. (…) Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri. (…) Il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo[9].


Questi passi riecheggiano inoltre il messaggio di eguaglianza assoluta contenuto nella Lettera ai Galati, laddove a essere dichiarate nulle sono le differenze cardinali di carattere religioso e culturale, tra giudei e greci, sociale, tra liberi e schiavi, e infine umano, tra maschi e femmine: «Non vi è giudeo né greco, né servo né libero, non vi è maschio né femmina, perché tutti voi siete uno solo»[10]. Inoltre Taubes evidenzia un’esplicita contrapposizione polemica, nella Lettera ai Romani, al doppio precetto enunciato da Gesù, il quale poneva come dettame più importante, al contempo, sia quello di amare il signore che quello di amare il prossimo. A tale duplice insegnamento Paolo oppone l’unico piano immanente dell’amore verso il prossimo, affrontato nel dodicesimo capitolo, che si ricollega al legame di comunione già sottolineato:


Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto: «Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare», e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: «Amerai il prossimo tuo come te stesso». L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore[11].


Nella lettura del capitolo 13, oltremodo controverso sotto il profilo politico, Taubes riprende l’intuizione del teologo Karl Barth, che lo collega all’ultima frase del capitolo 12, stravolgendo in questo modo la tradizionale interpretazione che vede in questo passo la chiave di un quietismo cristiano improntato al rispetto aprioristico dell’autorità mondana in quanto sancita dal volere divino. In quest’ottica l’accettazione del potere terreno è invece collegata al precetto di «non lasciarsi vincere dal male», e in ultima istanza ricondotta alla prospettiva apocalittica secondo cui l’Impero è un danno transitorio su cui incombe la scomparsa, contro cui non vale quindi la pena ribellarsi: «Bisognerebbe forse insorgere contro ciò che comunque è destinato a tramontare? Non vale la pena muovere un solo dito, tanto scomparirà da sé»[12].

É importante considerare come il profilo di tale teologia politica negativa debba essere letto, secondo Tronti, in una costellazione indivisibile con altri due autori, ovvero Walter Benjamin e Carl Schmitt. Tronti si posiziona in tale dibattito ricostruendo innanzitutto gli spostamenti terminologici che ne scandiscono lo sviluppo, a partire dalle divergenze tra Benjamin e Taubes sul significato politico della teocrazia. Il primo infatti, nelle righe icastiche del Frammento teologico-politico[13], nega recisamente questo utilizzo, conferendo all’idea di teocrazia un valore puramente mistico-religioso, e individua nella direttrice della felicità come «aspirazione al tramonto» l’unico criterio di orientamento dell’agire politico, mentre Taubes afferma la politicità di ogni concetto teologico e introduce un’altra dicotomia per specificare la singolarità del suo approccio: quella tra una teologia politica dall’alto e una dal basso[14]. Le due tesi sono insomma accomunate dalla visione paolina di un trascorrere del mondano, di un carattere effimero della dimensione storica e terrena, espresso nella Lettera ai Romani dall’immagine di un «gemito della creatura» e dalla formula già evocata dell’os me. Tuttavia per Benjamin quest’ottica si traduce nell’ipotesi puramente negativa di una «nichilismo come politica mondiale», mentre in Taubes lo «sguardo nichilistico di Paolo» sembra alludere a un approdo, ritenuto da Tronti più politico, in cui i rifermenti religiosi trovano ancora uno spazio di realizzazione storica: «Tutti i concetti cristiani a me noti hanno un potenziale politico dirompente o possono comunque acquisirlo in determinate circostanze»[15].

Abbiamo a questo punto due fronti contrapposti intorno alla coniugazione politica del linguaggio di Paolo: da una parte c’è infatti l’apocalittica controrivoluzionaria dall’alto di Carl Schmitt, in cui la mancanza di fondamento del potere si risolve nella dichiarazione dittatoriale di uno «stato d’eccezione» inteso come katechon[16], come limite ultimo, argine al disordine e alla guerra civile che ne costituiscono anche l’unico presupposto; dall’altra parte ci sono invece Benjamin e Taubes, i quali malgrado le loro divergenze condividono una concezione messianica della storia che è l’esatto rovesciamento di quella schmittiana, poiché dal comune presupposto di una critica alla concezione liberale del diritto traggono l’idea di un vero «stato d’eccezione» come escathon, come fine della decisione sovrana. Taubes esprime d’altronde chiaramente la suddetta antitesi:


Schmitt è guidato da un unico interesse: che il partito, che il caos non venissero a galla, che permanesse lo Stato. A tutti i costi (…). Il giurista è quello che egli chiama katechon, colui che trattiene, che impedisce al caos di emergere. Non è questa la mia concezione del mondo, né la mia esperienza. Come apocalittico immagino che direi: vada pure a fondo. I have no spiritual investment in the world as it is[17].


In cosa, dunque, la posizione di Tronti si distingue dagli autori a cui fa riferimento? Nel tentativo di conglobare i poli delle coppie concettuali che ha identificato, tenendo insieme il punto di vista dall’alto e quello dal basso, la teologia politica positiva e quella negativa, l’atteggiamento «catecontico» e conservativo con quello messianico e rivoluzionario:


Taubes diceva di Schmitt che era un apocalittico controrivoluzionario, mentre lui, Taubes, era un apocalittico rivoluzionario. Questo è da tenere sempre sullo sfondo: è importante, perché ci permette di correggere Schmitt con Taubes e Taubes e Schmitt con Benjamin. Ecco il senso dell’operazione intellettuale qui presentata[18].


Tale sintesi possiede un carattere evidentemente politico che fa emergere in primo piano, oltre al novero di pensatori citati, ancora una volta la figura di Paolo, il quale si misura con Mosè come fondatore di un popolo e rappresenta, secondo Taubes e Tronti, il vero iniziatore del Cristianesimo. Nella visione paolina il «politico» assume infatti un duplice significato: l’ambivalenza tra un dentro e un fuori, laddove il lato interno consente di sottrarsi al peso temporale dei troni, dei poteri costituiti e delle classi dominanti. Interno ed esterno, rallentamento e accelerazione, sono i termini che per Tronti rendono Paolo di Tarso una fonte di ispirazione centrale per una politica degli sfruttati, in quanto capace di tenere insieme un’apocalittica «cratica», in grado di confrontarsi con la sfera indispensabile del potere, e una emancipativa, quindi la rivoluzione come «locomotiva della storia» e come «freno d’emergenza», l’escathon e il katechon in un unico orizzonte di conflitto. Soltanto il lato interno del politico, la sua componente spirituale, permette di radicare nella realtà storica tale binomio:


La teologia è una necessità della politica. Ripeto, non della politica en géneral, che è quella delle classi dominanti, dei padroni del mondo, ma della politica dei subalterni, dei dominati. Questi ultimi – ultimi in tutti i sensi – devono però capire che non basta un’apocalittica dal basso: ci vuole anche un’apocalittica dall’alto. Possedere la politica di chi comanda è assolutamente indispensabile per chi non vuole più obbedire[19].


Si potrebbe inoltre cogliere la suggestione, evidenziata da alcuni interpreti, di trasporre quest’insieme di riflessioni sul fondo teologico della politica alle vicende del movimento operaio, della militanza comunista e della particolare forma di spiritualità che la anima. Un simile intreccio tematico rappresenta l’autentica linea direttrice del pensiero di Tronti, in quanto interroga alla luce del registro religioso non soltanto la storia del Novecento come teatro di una «grande politica» irrimediabilmente decaduta, ma più nello specifico il comunismo come forza collettiva e come «forma di vita», coinvolta attraverso lo stesso passaggio epocale da una crisi profonda e attraversata da tendenze contraddittorie. Proprio la sensibilità temporale della militanza comunista si è trovata, lungo il corso della propria storia, divisa tra una propensione «accelerazionista», volta allo sviluppo oltranzistico della forza tecno-industriale e dei suoi mezzi di produzione, e una improntata al rallentamento, come argine e freno verso l’intensità distruttiva del progresso capitalistico. Tali rimandi, densi di ascendenze paoline, alla duplice percezione teologica del tempo quale cono d’ombra delle istanze emancipatrici novecentesche e più propriamente del comunismo, accomunano Tronti al drammaturgo tedesco Heiner Müller[20], che prima di lui vi si era soffermato:


La crisi della militanza deve essere letta dentro la crisi della politica, questa è una banalità, ma la politica che ci interessa è in crisi – dice Tronti - perché è andato in crisi il paradigma teologico-politico che la sosteneva, questione invece non banale e che andrebbe affrontata molto seriamente. Quella crisi ha travolto il concetto stesso di militanza comunista e non poteva essere altrimenti perché non stiamo parlando di discussioni che servono giusto a riempire un convegno ma, appunto, di una forma di vita. C’è da dire che, per la maggior parte, i militanti del ’900 sono stati di due tipi, come lo stesso Tronti (…) mette in luce: il militante escatologico-apocalittico e quello katechontico, che spesso si sono scambiati i ruoli oppure li hanno mescolati in un cocktail micidiale. Ciascuno di essi si riferisce a una certa sensibilità temporale e dunque a un certo modo di agire: l’uno proiettato tutto verso il futuro, l’altro impegnato a trattenere la Storia. Il militante accelerazionista e quello del rallentamento. Il katechon della rivoluzione socialista del ’900 è simboleggiato dal Muro di Berlino, questa astrazione concreta diceva Blanchot. Tuttavia il problema vero è stato che l’accelerazionismo stesso è diventato il leitmotiv dell’URSS, ossessionato dal voler superare tecnicamente il capitalismo occidentale. L’esperimento sovietico è crollato per non aver saputo interpretare quell’altra temporalità, quella del rallentamento della Storia, e così ha neutralizzato il comunismo attraverso il suo concentrarsi esclusivamente sulla pretesa di accelerare lo sviluppo tecno-industriale. Stalin è stato un accelerazionista, lo diceva Heiner Müller, un grande comunista del tempo che viene, e lo diceva giusto dopo il crollo del katechon[21].




Note [1] A questo proposito è interessante rilevare come Tronti indichi nella teologia e in un certo femminismo due varianti complementari di questa «differenza umana» da opporre alla crisi generale della politica e del pensiero: «La rivendicazione della differenza diventa a questo punto la nuova frontiera per la rivolta del soggetto. La politica come organizzazione delle differenze è l’unica che conservi oggi un segno eticamente sovversivo. Il pensiero femminile è stato qui pensiero profetico. Ha annunciato l’avvento di un mondo umano duale, conflittuale, contro la millenaria oppressione dell’uomo, neutro e indistinto. Per questo la differenza umana torna a fare i conti con il modello storico alternativo della differenza cristiana». M. Tronti, Con le spalle al futuro, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 14; «Essere, e sentirsi dentro, cristiani oggi, in questa forma di mondo, è una condizione umana tragica. Io non so se (…) il comunismo sia addirittura un’eresia del cristianesimo. So con certezza che la contrapposizione frontale tra questi due orizzonti grandemente umani è stata una sciagura per la modernità, che l’attuale sempre più degradante disagio di civiltà ci mette quotidianamente sotto gli occhi.». M. Tronti, Dello spirito libero, il Saggiatore, Milano 2015, p. 151 [2] M. Tronti, Il nano e il manichino. La teologia come lingua della politica, Castelvecchi, Roma 2015, p. 33. [3] Tronti, Con le spalle al futuro, cit., p. 14 [4] J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, Adelphi, Milano 2008 [5] M. Tronti, La teologia di San Paolo può interessare il politico?, 18 maggio 2009, http://www.centroriformastato.it/la-teologia-di-san-paolo-puo-interessare-il-politico/. [6] Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit.,p.55. [7] Is, 10, 22 [8] Rm, 12, 3 [9] Rm, 13, 11-14 [10]Ga, 3, 26 [11] Rm, 13, 1-7 [12] Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit., p. 82. [13] «Per questo nulla di storico può volersi da se stesso riferire al messianico. Per questo il regno di Dio non è il télos della dynamis storica; esso non può essere posto come scopo. Da un punto di vista storico, esso non è scopo, ma termine. Per questo l’ordine del profano non può essere costruito sul pensiero del regno di Dio, per questo la teocrazia non ha alcun senso politico, ma solo un senso religioso» (W. Benjamin, Frammento teologico-politico, in Sul concetto di storia, Einaudi, Torino). [14] «Non teocrazia mistica contro teocrazia politica, ma teocrazia dall’alto contro teocrazia dal basso: ecco l’antitesi decisiva». [15] Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit., p. 136 [16] Il temine katechon, che si riferisce a un concetto biblico, ha origine nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi, dove indica appunto il potere che trattiene l’Anticristo in attesa della fine escatologica dei tempi, dell’avvento messianico. Si vede dunque come il contesto escatologico e quello «catecontico» siano in buona parte sovrapponibili, o comunque complementari. [17] Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit., p. 186. [18] Tronti, Il nano e il manichino, cit., p. 56. [19] Ivi, p. 57. [20] Sull’affinità tra Tronti e Müller, tra gli altri: A. Cavazzini – F. Carlino, Situation d’Ouvriers et Capital, in M. Tronti, Ouvriers et Capital, Entremonde, Paris-Genève 2016; A. Girometti, Althusser e l’operaismo di Mario Tronti: un incontro mancato? Appunti sulla riesizione di Operai e Capitale, «Cahiers du GRM», numero 9. [21] M. Tarì – A. Russo, Come si diviene un militante?, 30 aprile 2016, http://commonware.org/index.php/gallery/690-come-si-diviene-un-militante.



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Michele Garau è assegnista di ricerca all’Università di Torino. Il suo lavoro di ricerca è concentrato in particolare sulle genealogie di una politica anticapitalista estranea alla tradizione del movimento operaio e socialista, sul fenomeno delle rivolte urbane e sulle relazioni tra pensiero post-metafisico e critica rivoluzionaria, privilegiando il concetto di «destituzione» come lente interpretativa.

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