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L’esodo come teoria politica



Nel corso del prossimo gennaio è prevista la pubblicazione per conto di DeriveApprodi del libro di Paolo Virno Negli anni del nostro scontento. Diario pubblico (1988-1991). Un diario pubblico esente da buoni sentimenti, che registra e commenta, giorno dopo giorno, la grande trasformazione del modo di produzione dominante, delle forme di vita, degli stili di pensiero, seguita alla sconfitta dei movimenti rivoluzionari. L’autore, che di quei movimenti fece parte e insieme a molti altri fu imprigionato, dopo la sconfitta si è dedicato alla filosofia. Ma dal 1988 al 1991 ha osservato la controrivoluzione capitalistica: non una restaurazione dell’ordine antico, ma una rivoluzione al contrario, impetuosa e cruenta. Innovazione del processo lavorativo: flessibilità, part-time, prevalenza di prestazioni linguistiche e cognitive. Innovazione della sfera sentimentale, con il dilagare di paura, cinismo, opportunismo. Innovazioni filosofiche, dal «pensiero debole» a teorie della mente ignare di storia e politica. L’autore recensisce il libro di memorie del giudice che lo ha condannato, discute della scomparsa dei flipper, beffeggia Habermas e Vattimo, racconta la fine ingloriosa del Pci e del socialismo sovietico, elegge l’esodo a modello politico. E si trattiene volentieri su piccole cose, incidenti quotidiani, programmi televisivi ridicoli o infami, voci dal sen fuggite: come si addice a ogni diario pubblico che si rispetti. Qui pubblichiamo un testo relativo al tema dell’esodo.


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È possibile concepire l’esodo, cioè la defezione, come un modello etico-politico a tutto tondo, anziché come un imbarazzante caso limite? È possibile, inoltre, considerarlo come il modello più attuale, assai prensile rispetto a fenomeni e comportamenti «complessi»? Prima di azzardare una risposta affermativa, cautela esige che si inventi una minuscola tradizione a proprio sostegno. Pochi testi, che però tracciano un sentiero. Esodo e rivoluzione, di Michael Waltzer (Feltrinelli1986), mostra come tutta la tradizione politica occidentale abbia attinto al biblico libro dell’Esodo, ricavandone un canovaccio soggetto a variazioni infinite. Da Savonarola ai bolscevichi, la trasformazione radicale dell’esistente si è prospettata come abbandono di un Egitto, viaggio nel deserto, speranza nella terra promessa. Ma Waltzer – ecco il punto – sottolinea che l’Esodo ben sopporta una lettura non messianica: l’arrivo a Canaan, «terra del latte e del miele», non è la fine della storia, ma la ratifica delle trasformazioni che hanno già avuto luogo durante il viaggio. Un altro testo, molto noto, è: Lealtà defezione protesta di Albert O. Hirschmann, dove si sottolinea come l’opzione-uscita (abbandonare, se appena possibile, una situazione svantaggiosa) può costituire una via più radicale e più impegnativa rispetto all’opzione-protesta. Dell’Esodo, Hirschmann valorizza soltanto il momento iniziale: il distacco dall’Egitto, anche senza terra promessa, è un buon modo di temperare le pretese degli oppressori. Una terza suggestione: Marx, alla fine del primo libro del Capitale, si sofferma sui guai che all’accumulazione capitalistica provoca la fuga operaia dal regime di fabbrica. Viene meno «l’esercito industriale di riserva » (insomma la pressione ricattatoria dei disoccupati), lievitano i salari, scema la subordinazione. Marx si interessa all’esodo verso Ovest, verso la «frontiera», cui inclinarono gli operai immigrati negli Usa dall’Europa. Costoro colsero l’occasione, davvero straordinaria, di rendere reversibile la propria condizione di partenza.

Suggestioni bibliografiche a parte, la nozione di esodo permette di capire qualcosa di più delle nostre società? Acumina la vista? Va da sé che, oggi, lo spostamento spaziale è soppiantato da una diversione sociale e culturale. L’esodo, metaforico ma non meno incisivo, si compie nelle mentalità e nell’ethos: ci si affranca da ruoli, gerarchie, stili di vita.

Nessuno è in grado di spiegare i comportamenti della nuova forza lavoro, a metà degli anni Settanta, se non tiene conto della defezione. A un certo punto – diciamo attorno al fatidico ’77 – accade che, mentre il padrone rende incerto il lavoro, molti sono coloro che, invece d’intimorirsi, al lavoro si sottraggono quanto più possono. Questa deviazione dal comportamento noto e previsto sbalordisce. Cos’è accaduto? Un Egitto viene abbandonato. Vale a dire: il tempo in fabbrica è percepito come un costo umano eccessivo, da ridurre a disavventura provvisoria. Il lavoro sotto padrone, anziché fonte di dignità, sembra socialmente parassitario. Drastica è l’inversione di aspettative: rinuncia a premere per entrare in fabbrica e restarvi, ricerca di ogni via per evitarla o per allontanarsene. La mobilità, da condizione imposta, diventa regola positiva e principale aspirazione; il posto fisso, da obiettivo primario, si tramuta in eccezione o parentesi.

È a causa di tali propensioni, assai più che non per la violenza, che i giovani del ’77 si resero semplicemente indecifrabili per la tradizione del movimento operaio. Trascurando il moto di migrazione consapevole dal lavoro di fabbrica, si guarderà sempre a quel movimento come a una banda di allucinati. Peccato non veniale. Ogni «fuga», del resto, è fatalmente scambiata per un fenomeno di emarginazione, per un comportamento periferico e ininfluente. Nessun dubbio: c’è sempre uno storico egiziano pronto a redigere una cronaca invelenita dell’Esodo ebraico. E i fuggitivi, agli occhi del paese da cui si affrancano, appaiono come la schiuma della terra.

In precedenza si è accennato all’esodo come a un eventuale, potente modello etico-politico. Se questo è il gioco, giochiamolo tutto, indicando qualche tratto distintivo del preteso paradigma. Peraltro, dare rilievo all’esodo già simula un piccolo esodo dalla teoria politica, assuefatta a progettare miglioramenti fermi restando in Egitto.

1. L’esodo è un’esperienza di conflitto – e di positiva civilizzazione – imperniata sulla continua sottrazione ai ruoli stabiliti. Nel rapporto di forza tra le classi moderne, l’elusione non conta meno dello scontro diretto. Qualche volta, di più. Comunque, il confronto in campo aperto è sorretto, non indebolito, da una concomitante defezione.

2. Esodo significa cambiare il contesto in cui è insorto un problema, anziché affrontare quest’ultimo alle condizioni predefinite. Piuttosto che ritenere tali condizioni una costante, e le mosse da compiere al loro interno come l’unica variabile concessa, si fa l’opposto. Il contesto diventa la variabile principale. Abbandonando ruoli e regole prefissati, si rendono labili i presupposti fino ad allora giudicati indubitabili.

3. L’esodo consiste, innanzitutto, in un mutamento semantico. Se si ragiona accettando l’assioma, consueto ma scandaloso, che il lavoro salariato sia un valore positivo, ne seguono certi programmi e certe lotte. Se si fugge da questo significato prevalente, cominciando a ritenere il lavoro «un genere horror alla portata di tutti», allora la rappresentazione della realtà vigente muta da cima a fondo. Cambiando discorso, si prendono iniziative destinate a sorprendere gli egiziani di turno.

4. Il modello politico dell’esodo si basa sull’abbondanza di possibilità, ora occluse ma vivide. È un processo di trasformazione che fa perno su una ricchezza latente, su una esuberanza, su un’eccedenza. Eccedenza di socialità, di saperi, di coscienza. È il contrario del «tanto peggio, tanto meglio», l’opposto di qualsiasi protesta pauperistica. L’esodo esercita una critica nei confronti tanto di Hegel quanto di Ricardo, perché colloca la crisi dello sviluppo capitalistico in un contesto di abbondanza, mentre il «sistema dei bisogni» hegeliano e la caduta del saggio di profitto ricardiana sono esplicativi solo in relazione alla scarsità dominante.

5. L’esodo richiede di sviluppare positivamente altre relazioni sociali rispetto a quelle esistenti. Ciò che, nelle rivoluzioni politiche, è il risultato augurabile, ovvero la posta in palio, nell’esodo è una condizione preliminare. I fuggitivi difendono ciò che intanto, per strada, hanno costruito. All’antica idea di fuggire per colpire meglio si unisce ora la sicurezza che la lotta sarà tanto più efficace, quanto più si ha qualcosa da perdere oltre le proprie catene.

6. Nelle metropoli contemporanee, l’esodo riflette in sé un acuminato sentimento di sradicamento e una strenua intenzione di appartenenza. L’apparente paradosso cela un punto cruciale. A ben vedere, le «radici» non sono divelte quando si prende congedo dai nostri egitti quotidiani (gerarchie, discipline, regole): già prima di mettersi in viaggio, non ci si sente mai «a casa propria». È per questo, anzi, che si fugge senza rammarichi.

Lo sradicamento, oggi, costituisce una condizione ordinaria, che tutti sperimentiamo a causa della continua mutazione dei modi di produzione, delle tecniche di comunicazione, degli stili di vita. Difettano, ormai, «radici» che vincolino a un luogo, a una tradizione, a un ruolo, a un partito politico. Eppure questo spaesamento, lungi dell’elidere il sentimento di appartenenza, lo potenzia: l’impossibilità di arroccarsi entro un contesto duraturo accresce a dismisura l’adesione al «qui e ora» più labile. Ciò che viene in luce è l’appartenenza come tale, non più qualificata da un determinato «a che cosa». Ora, questa appartenenza senza oggetto può tramutarsi – gli anni Ottanta lo mostrano ad nauseam – nell’adesione unilaterale e simultanea a tutti gli ordini vigenti. Oppure può ospitare un formidabile potenziale critico e trasformativo, provocando una defezione di massa dalle regole dominanti, da quelle regole che ripropongono senza posa surrettizie e temibili «radici».


2 novembre 1989


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