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Il tempo messianico in Walter Benjamin


Disegno del tempo
Immagine di Sergio Bianchi

Lo studio del tempo ha una lunga storia, fatta di differenti concezioni e posizioni filosofiche, che hanno spesso una diretta rilevanza politica e sociale. Lo studio del tempo influenza il tempo e ne è influenzato, si potrebbe dire. In questo contesto, Giulia Santoro riflette sul tempo messianico in Walter Benjamin, a partire dalle sue celebri Tesi di filosofia della storia, facendo emergere la sua rottura del «tempo omogeneo e vuoto» e la critica del progresso. Bisogna rimanere sempre pronti, questo è l’incitamento benjaminiano, perché i mutamenti o le rivoluzioni non arrivano mai «nel momento giusto», in quanto non si tratta tanto della conseguenza di uno sviluppo ordinato e predeterminato, quanto di un atto di forza, inaspettato.


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Lo studio del tempo risale a tempi antichissimi e da sempre ha affascinato numerosi filosofi scervellatisi per comprendere fino in fondo quale sia la sua vera natura. È nata addirittura una branca della filosofia, denominata «filosofia della storia», intenta a indagare sul significato spirituale della storia e del suo fine teleologico, esaminando inoltre se essa è ciclica oppure lineare e se in essa esiste il concetto di progresso. Questo studio sembra culminare proprio con le riflessioni attuate da Walter Benjamin, filosofo a cavallo tra Ottocento e Novecento fortemente connesso alla Scuola di Francoforte, che intitolò una delle sue maggiori opere proprio Tesi di filosofia della storia, all’interno delle quali raggruppò non tanto delle argomentazioni, quanto, come anche si deduce dal titolo, delle tesi, che si focalizzano su problemi cruciali riguardo alle modalità di intendere la storia e i suoi processi di evoluzione o involuzione.

Walter Benjamin compose l’opera a Parigi tra la fine del 1939 e il maggio del 1940. Il 30 gennaio del 1933 le milizie naziste presero il potere e questo costrinse Benjamin, nato da una famiglia ebraica, ad abbandonare ogni impiego in Germania. Dopo essersi rifugiato in Spagna e Francia, si stabilì definitivamente a Parigi nel settembre dello stesso anno. Nel settembre del 1939, quando iniziò la Seconda guerra mondiale, fu internato in un campo di lavori forzati insieme agli altri rifugiati ebrei, in quanto cittadino di un paese nemico alla Francia. È questa l’atmosfera che respira il filosofo tedesco e che lo porta a riflettere sul rafforzamento e sull’estensione di tali brutalità e, soprattutto, sull’apparente inevitabilità e irremovibilità degli eventi nel corso della storia segnanti per sempre la memoria del nostro mondo e dell’intera umanità. Egli, infatti, non è d’accordo con la constatazione che la realtà è di natura finalistica, contrassegnata cioè da leggi immutabili per gli esseri umani. Tale concezione che attribuisce ogni responsabilità dello sviluppo storico a questa meccanica è tanto antica quanto problematica.

Le sue Tesi iniziano proprio con una metafora, quella dell’automa scacchistico, una macchina che riproduceva perfettamente le sembianze di un vero e proprio scacchista turco ma che in realtà, al suo interno in un antro segreto, nascondeva un «nano gobbo, che era un asso nel gioco degli scacchi»[1]. Benjamin riprende questa immagine bizzarra dal saggio di Edgar Allan Poe, intitolato Il giocatore di scacchi di Maelzel, per individuare immediatamente i due poli di partenza per la formulazione del suo nuovo concetto di storia (quello del materialismo storico, impersonificato dall’automa, e quello della teologia, individuabile nel nano gobbo che lo guida). Infatti Benjamin vuole fare un ritratto del «materialismo storico»[2], il quale altro non è che tale fantoccio destinato sempre a vincere. Per lui, la concezione meccanicista della storia nasconde all’interno la teologia, che, presa al proprio servizio, le permette di «farcela con chiunque»[3], proprio come farebbe l’idea di un Dio invisibile che muove le pedine del mondo. Benjamin sostiene infatti che la teologia, poiché oggigiorno è noto che è «piccola e brutta, e non deve farsi scorgere da nessuno»[4], deve travestirsi da materialismo storico, da vera scienza della storia, nascondendosi al suo interno e comunque permettendogli sempre di vincere, proprio come fa il maestro di scacchi chiuso all’interno dell’apparente automa.

«Articolare storicamente il passato non significa riconoscerlo come propriamente è stato. Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo»[5]. Con questa sententia, Benjamin ci tiene a condannare la ricostruzione storica tipica della storiografia precedente al Novecento, atta a produrre modelli della realtà distaccati e impersonali rispetto alla reale esperienza vissuta. Benjamin pone tutta la propria attenzione sulla storia vissuta dal punto di vista degli uomini, prediligendo non la ricostruzione storica, bensì quella umana e quindi una ricostruzione assolutamente utile, di cui l’uomo può far uso per chiarire il proprio presente, così inquietante e incomprensibile. Benjamin concepisce «l’oggetto storico» come un’immagine dialettica e monade della storiografia materialistica, che rappresenta un’opportunità rivoluzionaria per riscattare il passato. Infatti esso ha il sacrosanto dovere di attualizzare un momento passato che è stato dimenticato, riportandolo alla memoria e redimendolo, cioè salvandolo. Benjamin schematizza i principali punti in cui si snoda la dottrina del materialismo storico. Egli sostiene che in primo luogo la conoscenza si attua come sua redenzione («Il passato reca seco un indice temporale che lo rimanda alla redenzione»[6]), che la storia viene scomposta in immagini e che la concezione materialistica della storia reca in sé una critica al concetto di progresso. Al contrario, a quell’epoca, i socialdemocratici e i comunisti adottarono l’idea che la storia fosse finalistica e che il progresso avrebbe investito tutte le classi, idea che non si atteneva assolutamente alla realtà e che andava a braccetto con la concezione del tempo come omogeneo e vuoto.

La teoria socialdemocratica, e più ancora la prassi, era determinata da un concetto di progresso che non si atteneva alla realtà, ma presentava un’istanza dogmatica. Il progresso, come si delineava nel pensiero dei socialdemocratici, era, anzitutto, un progresso dell’umanità stessa (e non solo delle sue capacità e conoscenze). Era, in secondo luogo, un progresso interminabile (corrispondente a una perfettibilità infinita dell’umanità). Ed era, in terzo luogo, essenzialmente incessante (tale da percorrere spontaneamente una linea retta o spirale). […] La concezione di un progresso del genere umano nella storia è inseparabile da quella del processo della stessa come percorrente un tempo omogeneo e vuoto[7].

Benjamin parla qui di un tempo «vuoto e omogeneo». Quest’ultimo era il tempo di Newton e, in seguito, dei positivisti, un tempo distaccato, asettico e quasi metafisico. A Benjamin viene però da chiedersi come potrebbe l’uomo, in un tempo impersonale, avere sentimenti, avere la possibilità di sfruttare la storia a favore del presente e, ancora più semplicemente, dove si collocherebbe in questo tempo vuoto. Walter Benjamin, infatti, sostiene con tenacia il contrario. Egli afferma che «la storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di attualità»[8]: per lui, il tempo raccontato e vissuto come lineare era quello del Cristianesimo, un tempo vuoto, privo dei conflitti che caratterizzarono quel preciso tempo storico. Il tempo invece di cui parla Benjamin è quello che si misura non per la sua quantità, bensì per la sua qualità: non si tratta di quello che gli antichi greci definivano χρόνος «krònos», il tempo che va avanti inesorabile, o αἰών «aiòn», il tempo ciclico delle stagioni, ma del καιρός «kairòs», il tempo opportuno che va colto.

Dal punto di vista tecnico, le concezioni della storia che interpretano il susseguirsi degli eventi come un processo unico, unidirezionale e portatore di progresso vengono considerate «storicistiche». A questo tipo di visioni della storia, si contrappongono correnti filosofiche che considerano il tempo in modi differenti. Alcune di esse nella storia (e in particolare nel trascorrere del tempo) vedono un regresso. Un esempio di ciò è riscontrabile nel mito delle cinque età (presente nelle opere dei maggiori esponenti della cultura della Grecia antica, come Esiodo o lo stesso Platone), in cui l’età dell’oro corrisponde all’epoca di perfezione a partire dalla quale l'umanità è decaduta fino ad arrivare all’età del ferro, nella quale l’uomo è destinato a sopportare sofferenze, ingiustizie ed è costretto a lavorare per sopravvivere. Altre intendono la storia come un ciclo: gli Stoici, ad esempio, interpretano il mondo come ripetizione di cicli cosmici. Uno dei massimi esponenti di questa corrente filosofica, Seneca, confermando la visione ciclica del tempo della storia, afferma, fiducioso nel progresso che porterà le generazioni future a superare e ampliare la conoscenza della sua epoca:


«Veniet tempus quo ista quae nunc latent in lucem dies extrahat et longioris aevi diligentia […] Veniet tempus quo posteri nostri tam aperta nos nescisse mirentur»[9].

«Verrà un giorno in cui il tempo e lo studio di molte generazioni porteranno alla luce le cose che ora sfuggono […] Verrà il tempo in cui i nostri discendenti si meraviglieranno che noi non conoscessimo cose così evidenti».


Altre ancora considerano la storia come casualità: Schopenhauer, ad esempio, con pessimismo, interpreta la storia come priva di una meta precisa e pullulante di vicende dolorose.

Durante la tarda età imperiale romana, con l’affermazione del cristianesimo, molti dotti attribuiscono al tempo una concezione lineare e progressiva, in netta contrapposizione con le dottrine filosofiche precedenti che sostenevano che l’umanità, proseguendo nel suo cammino, era comunque destinata a tornare indietro, ripetutamente, sui suoi passi iniziali, coronando un susseguirsi di avvenimenti uguali che mimavano il corso ciclico delle stagioni e della natura in generale. Agostino d’Ippona (354-430), per primo, inserisce l’idea di storia all’interno della filosofia, collegandola al contesto escatologico presente nell’Antico Testamento, secondo cui Dio avrebbe utilizzato la storia per compiere i propri progetti di redenzione dal peccato (concetto assente nella concezione greca e latina, che conoscevano solo le nozioni di bene e di male), confermando così la visione lineare della storia, intesa appunto come cammino effettuato dall’umanità per riscattarsi e raggiungere la salvezza. Nel Medioevo, il teologo Gioacchino da Fiore (1130-1202) suddivide la storia in tre ere: quella del Padre, corrispondente all’antico ebraismo e alle vicende contenute nell’Antico Testamento, contraddistinta dalla figura di Mosè; quella del Figlio, che corrisponde alle vicende riportate nel Nuovo Testamento e alla rivelazione di Gesù; quella dello Spirito, che l’umanità sta ancora aspettando. In questo senso, la storia ha uno scopo preciso ed è per questo considerabile di natura finalistica.

In età moderna, si sono susseguiti numerosi tentativi da parte delle correnti neoplatoniche di conciliare il finalismo cristiano della storia con la libertà dell’uomo che compie scelte nel corso di essa. Giambattista Vico (1668-1744), in particolare, concepisce la storia come un’evoluzione, uno sviluppo delle idee platoniche, verità eterne tradotte in realtà storica grazie al modo con cui l’uomo manifesta le idee divine nel mondo. Egli inoltre afferma che l’uomo è il creatore della civiltà, tuttavia al di sopra di lui esiste un principio che regola la storia e che pone leggi indipendenti, o persino contrastanti, con i fini degli uomini, secondo il principio individuato dal filosofo tedesco Wilhelm Maximilian Wundt (1832-1920) e definito «eterogenesi dei fini». Vico, analizzando le lingue parlate dai popoli antichi (per lui fondamentali per studiare il processo storico), individua tre età della storia: quella degli Dei, nella quale gli «uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni cosa esser loro comandata con gli auspici e gli oracoli»[10]; quella degli Eroi, nella quale «dappertutto essi regnarono in repubbliche aristocratiche, per una certa da essi rifiutata differenza di superior natura a quella de’ lor plebei»[11]; quella degli Uomini, nel corso della quale tutti gli uomini concordarono di «esser uguali in natura umana»[12]. La storia per lui non obbedisce a uno scopo deliberato, impostole dall’esterno, bensì si limita a generare le condizioni storiche in cui l’uomo si trova a operare e di cui si serve per applicare la propria libertà. Perciò la Provvidenza non può impedire la regressione del genere umano in barbarie, dalle quali avrà inizio un nuovo corso storico, secondo un andamento ciclico.

Anche Immanuel Kant (1724-1804) si occupa del concetto di tempo nella Critica della ragion pura, in particolare nella prima sezione dedicata all’estetica trascendentale. Egli individua le forme a priori dell’intuizione sensibile, che per lui rappresentano i principi della conoscenza, nello spazio e nel tempo, definito senso interno in quanto artefice della distribuzione delle percezioni interne (i sentimenti) secondo un ordine cronologico. Essi sono i principi della conoscenza, in quanto ogni volta che i sensi vengono sfiorati da un oggetto esterno e che l’individuo fa esperienza di quell’oggetto, conoscendolo, lo percepisce in uno spazio e in un tempo determinati. Kant sostiene inoltre che il senso esterno della spazialità è subordinato al senso interno della temporalità in quanto tutto ciò che è spaziale va considerato anche dal punto di vista temporale, mentre non vale la relazione contraria. Il tempo, poiché si occupa dei sensi che percepiamo come dentro di noi, può quasi essere fatto coincidere con la coscienza ed è sicuramente più esteso rispetto allo spazio, in quanto quest’ultimo entra in gioco solo quando i sensi interni hanno elaborato in noi la percezione degli oggetti esterni. Dal momento che queste due forme pure non appartengono all’oggetto né sono contenute al suo interno, è possibile dedurre che esse dipendono esclusivamente dall’individuo: si parla dunque di forme non più oggettive (come voleva la tradizione prima di Kant), bensì soggettive, in quanto, pur rimanendo sempre uguali di persona e in persona, sono contenute dentro ognuno di noi. Questo è un punto molto importante che influenzerà anche Benjamin: egli sostiene che è bene tener vivo il carattere individuale del soggetto, in netto contrasto con la concezione marxista che mira all’annientamento dell’identità individuale a favore delle dinamiche collettive della società borghese, contrasto che però Benjamin non riesce a risolvere, limitandosi alla fine ad accettare l’annullamento del soggetto individuale privilegiando quello collettivo. Kant afferma inoltre che: «Il tempo non è dunque che una condizione della nostra umana intuizione […] e non è nulla in sé, fuori del soggetto»[13]. Se noi uscissimo dalla condizione soggettiva all’interno della quale siamo in grado di ricevere intuizioni esterne (che equivale a dire uscire dalla modalità secondo la quale noi siamo suscettibili della modifica da parte degli oggetti), l’idea di spazio e tempo non avrebbero più alcun significato e valore. Una visione simile del tempo si riscontra in Aristotele che, nella Fisica, mette in relazione il movimento, che poi di fatto viene a coincidere con l’io del soggetto, e il concetto di tempo («Poiché esso stesso non è movimento, è necessario che [il tempo stesso] abbia qualcosa a che fare con il movimento», «επεὶ ουν ου κίνησις, ανάγκη τη̂ς κινήσεώς τι ειναι αύτόν»[14]). Aristotele definisce il tempo come «un numero di movimento secondo il prima e il dopo» («τοῦτο γάρ ἑστιν ὁ χρόνος, ἀριθμὸς κινήσεως κατὰ τὸ πρότερον καὶ ὕστερον»[15]), ma poiché è il soggetto a determinare il numero del movimento, viene da chiedersi se il tempo possa esistere senza l’individuo numerante. Sempre Agostino, nelle Confessioni, è arrivato a chiedersi se fosse addirittura possibile che tempo e animo siano la medesima cosa, rivolgendosi intimamente al proprio animo come all’«orologio» con cui scandire lo scorrere del tempo, che per lui assume la connotazione di distensione dell’anima nella memoria, nell’attesa e nell’attenzione (rispettivamente passato, futuro e presente): «In te, anime meus, tempora metior […] Affectionem, quam res praetereuntes in te faciunt et, cum illae praeterierint, manet, ipsam metior praesentem, non ea quae praeterierunt, ut fieret: ipsam metior, cum tempora metior»[16] («In te, animo mio, misuro i tempi […] L’impressione che in te fanno le cose che passano e che rimane quando quelle sono passate, questa stessa, presente, io misuro, non le cose che sono passate, per produrla: quando misuro i tempi, misuro questa stessa). Sempre a proposito della soggettività intesa come condizione di possibilità e di esistenza del tempo, esplicative sono la domanda e la risposta che Aristotele si pone: «Qualcuno potrebbe presentare questo problema: non essendoci l’anima potrebbe esistere il tempo, o no? Essendo impossibile infatti che ci sia ciò che può numerare, è impossibile anche che ci sia qualcosa che è numerabile; cosicché risulta chiaro che neppure il numero esista» («πότερον δὲ μὴ οὔσης ψυχῆς εἴη ἂν ὁ χρόνος ἢ οὔ, ἀπορήσειεν ἄντις. ἀδυνάτου γὰρ ὄντος εἶναι τοῦ ἀριθμήσοντος ἀδύνατον καὶ ἀριθμητόν τι εἶναι, ὥστε δῆλον ὅτι οὐδ' ἀριθμός»[17]).

Anche la posizione del filosofo tedesco Heidegger sembra conformarsi alle precedenti. Egli afferma infatti che il tempo coincide con l’esserci, in quanto quest’ultimo è «progetto gettato» che si presenta come cura verso le cose e le persone e dunque come temporalità. Il tempo non è solo quello misurabile dall’orologio o dal movimento degli astri, un tempo intramondano e pubblico: affinché esista questo, occorre un tempo originario ed esistenziale, che è quello del Dasein. Il Novecento, infatti, grazie all’opera di Heidegger, è dominato da una visione escatologica e religiosa della storia, concepita come l’intervallo temporale in cui l’essere «si disvela», dalla traduzione letterale di verità dal greco antico ἀλήθεια, «alètheia», termine derivato da λανθάνω, «lanthàno», «sono nascosto, velato» e «α-» privativo, che significa non-nascondimento. Di conseguenza, il tempo delle cose dipende dal tempo dell’esserci. Dal momento che secondo il filosofo la comprensione del significato di Essere richiede l’analisi preliminare del concetto di Esserci e che a fondamento dell’Esserci è situata la temporalità, allora la temporalità permetterà la comprensione dell’Essere. In ogni caso, le tesi qui riportate sono modi diversi per dire la medesima cosa, anticipando o richiamando l’idea di Kant secondo cui il tempo è l’elemento decisivo per la struttura ontologica del soggetto nella sensibilità e nell’intelletto.

Si giunge così a Marx, oggetto di grandissimo interesse da parte di Benjamin, che, trovandosi d’accordo con Hegel, sostiene che le vicende storiche non sono conciliabili con un principio superiore, come Dio, ma con la storia stessa, la quale non trascende le vicende umane ma è immanente allo scontro dialettico tra le classi sociali, concezione chiamata materialismo dialettico. Benjamin concorda con la concezione marxista della storia, aggiungendo che è proprio grazie alle lotte sociali che vengono continuamente messe in discussione le vittorie appena conquistate per spianare così la strada a nuove rivoluzioni che porteranno a nuovi, forse più abbondanti, bottini. A questo proposito egli scrive:


La lotta di classe, che è sempre davanti agli occhi dello storico educato su Marx, è una lotta per le cose rozze e materiali, senza le quali non esistono quelle più fini e spirituali. Ma queste ultime sono presenti nella lotta di classe in altra forma che non sia la semplice immagine di una preda destinata al vincitore. Esse vivono, in questa lotta, come fiducia, coraggio, umore, astuzia, impassibilità e agiscono retroattivamente nella lontananza dei tempi. Esse rimetteranno in questione ogni vittoria che sia toccata nel tempo ai dominatori. Come i fiori volgono il capo verso il sole, così, in forza di un eliotropismo segreto, tutto ciò che è stato tende a volgersi verso il sole che sta salendo nel cielo della storia[18].


A partire dalle concezioni di Hegel e Marx viene elaborato il concetto di storicismo (o «istorismo», dal tedesco Historismus), atto a porre attenzione sulla natura storica e progressiva della manifestazione della verità, da cui prende le distanze la corrente del positivismo, che concepisce la storia in maniera lineare e come accrescimento costante. Walter Benjamin si rifà alla concezione di Marx, secondo cui la storia non fa nulla da sola. Gli uomini fanno la storia e ne sono i veri protagonisti attivi, vivendo, lottando, relazionandosi tra di loro e con il mondo, lavorando per soddisfare le proprie esigenze e infine morendo. Benjamin scrive infatti:


Il soggetto della conoscenza storica è la classe stessa oppressa che combatte. In Marx essa appare come l’ultima classe schiava, come la classe vendicatrice che porta a termine l’opera della liberazione in nome di generazione di vinti[19].


Il tempo, e quindi la storia, inoltre sono misurate a partire dal mutamento. Marx afferma a questo proposito che il tempo è lo «spazio dello sviluppo umano»[20] e per questo può rallentare, accelerare, progredire o arretrare. A questa concezione del tempo si ricollega quella di Benjamin, secondo cui il tempo è conosciuto necessariamente ed esclusivamente grazie ai mutamenti qualitativi della società, caratterizzata dalla lotta sociale, che lo misura. Di conseguenza esso non può essere omogeneo o addirittura vuoto. Benjamin parla infatti della possibilità di «passare a contrappelo la storia»[21], per sottolineare la capacità dell’uomo di decidere, divenendone artefice, della propria storia, accennando a una vera e propria rivoluzione, cui gli operai – afferma Benjamin – hanno ingenuamente rinunciato, privilegiando l’attesa per un futuro apparentemente migliore e firmando così la propria sconfitta. Questa dolorosa verità può essere evinta da quanto scrive il filosofo:


Il conformismo che è sempre stato di casa nella socialdemocrazia, non riguarda solo la sua tattica politica, ma anche le sue idee economiche. Ed è una delle cause del suo sfacelo successivo. Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l’opinione di nuotare con la corrente[22].


Benjamin sostiene che l’unica speranza di uscire da tale crisi è rappresentata dal tentativo di far irrompere nel presente il futuro, incanalato nella figura ebraica del Messia. Agli ebrei era vietato investigare il futuro, mentre essi erano istruiti alla rammemorazione. Tuttavia, nonostante ciò, non considerarono mai il futuro come un tempo omogeneo e vuoto, in quanto a ogni istante esso rappresentava «la piccola porta da cui poteva entrare il Messia»[23].

Benjamin incita gli uomini a rimanere sempre pronti. D’altronde ogni mutamento sociale o rivoluzione non arriva mai «nel momento giusto», in quanto non si tratta tanto della conseguenza di uno sviluppo ordinato e predeterminato, quanto di un atto di forza, inaspettato. Per lui, esiste una sorta di storia nascosta che si affida, per riemergere allo scoperto, al tempo discontinuo dell’intensità dell’attimo, segnato in ogni momento dalla possibile entrata sul proscenio del Messia. L’attesa di un futuro –coincidente con l’avvento del regno messianico – giustifica e incita la tendenza umana alla fratellanza con chi, sia nel passato sia nel presente, ha lottato contro i dominatori e tale sentimento, con il conseguente riconoscimento dell’uguaglianza reciproca, è un ottimo strumento per la lotta alla libertà. Alla fine della sesta tesi, Benjamin scrive: «Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo»[24]. Il passo è molto interessante in quanto al suo interno la lettura teologica (incarnata nella figura del Messia) e quella politica (rappresentata dall’Anticristo che deve essere sconfitto) sono interconnesse. È probabile che, visti i tempi in cui vive Benjamin, la figura dell’Anticristo si riferisca al Terzo Reich, che fonda il proprio potere sui vincitori e dominatori di sempre consolidando la tradizione storica prevalente, che esclude completamente i vinti.

Per Benjamin, il materialismo storico abbandona il procedimento tipico dello storico dello storicismo, ovvero un procedimento di immedesimazione, la cui origine, scrive sempre il filosofo, «è la pigrizia del cuore, l’acedia»[25], considerata dai teologi del Medioevo come «il fondamento ultimo della tristezza». «La natura di questa tristezza» — prosegue Benjamin — «si chiarisce se ci si chiede in chi propriamente si immedesima lo storico […]: nel vincitore»[26]. Egli sostiene che solo l’azione rivoluzionaria contro il dominio può portare a un futuro diverso in grado di riscattare il passato dei vinti e il presente. In particolare, la conoscenza come redenzione del passato avviene in un momento di arresto messianico dell’accadere, nella dimensione temporale messianica dell’«adesso della conoscibilità», che sottolinea la dialettica tra fenomeno e idea, tra «rappresentazione» e «ideale del passato», da salvare nel ricordo, presentando una parte di sé nel fenomeno, al fine di raggiungere, «secolarizzando» il regno messianico dominato dalla giustizia, una società priva di classi. Il compito della conoscenza purificata dalle componenti empiriche, per Benjamin, è quello di attribuire – sempre nell’intervallo temporale di natura redentivo-teologica e messianica – ai fenomeni una valenza simbolica per fare in modo che essi ispirino un’idea, diversa a seconda dei contesti (idea, ad esempio, dell’ipotesi per le discipline matematiche, di libertà per l’azione, dell’arte per le opere d’arte). Da questo punto di vista, la concezione di Benjamin si avvicina notevolmente a quella kantiana: come nello schematismo di Kant le categorie (forme a priori dell’intelletto) vengono applicate ai fenomeni (oggetti sensibili come appaiono al soggetto, non come cose in sé) tramite la determinazione trascendentale del tempo, così per Benjamin la conoscenza si attua attraverso una dimensione temporale redentiva.

Benjamin sostiene che è la sua costruzione dell’immagine dialettica come concetto ad autorizzare la storia a divenire strumento e aiutante della conoscenza. Tale concetto è la catastrofe, il momento di crisi e allo stesso tempo il progresso. Quest’ultimo va addirittura fondato sull’idea di catastrofe: che «tutto continui così è la catastrofe», afferma Benjamin, identificando questa non in ciò che «di volta in volta incombe», bensì in ciò che «di volta in volta è dato»[27] e riprendendo così il pensiero di Strindberg secondo cui l’Inferno non è qualcosa che ci attende bensì questa vita qui. Per spiegare il concetto di progresso, Benjamin propone un’affascinante ed esplicativa metafora: citando il quadro di Paul Klee intitolato Angelus Novus, rappresentante un angelo che si allontana da qualcosa su cui fissa lo sguardo, Benjamin sostiene che «l’angelo della storia» ha questo aspetto, che, in particolare, ha il viso rivolto al passato a osservare rovine e che, nonostante voglia trattenersi, viene spinto da una tempesta nel futuro, a cui però volge le ali. Quello che noi chiamiamo progresso è proprio questa tempesta.

Il modo di intendere il tempo e la storia di Walter Benjamin è a tratti abbastanza contorto e difficile, anche a causa delle numerose metafore di cui si avvale e dello stile assolutamente denso che riassume in poche parole interi anni di riflessioni. Al fine di garantire una migliore comprensione delle riflessioni del filosofo tedesco, si offre qui un breve riassunto che ne sintetizza i punti chiave. Al centro dell’opera è posta la concezione del tempo non più della meccanica (che risulta essere omogeneo e vuoto), bensì della storia e quindi di un tempo teologico, collocato nell’ambito ebraico del «messianismo» (contraddistinto dall’aspettativa di un ipotetico futuro di libertà), una dimensione restaurativa della storia segnante il ritorno a un regno di giustizia privo di classi sociali. In questa dimensione il passato e il presente (la storia mondana che si riconosce nel passato e viene redenta a una dimensione di perfezione atta a fondare la società come regno della giustizia) si collegano tra loro, grazie alla memoria e alla conoscenza del passato, con un «balzo di tigre»[28] caratteristico dell’azione rivoluzionaria. Un secondo tema centrale è la concezione materialistica della storia, intesa come un orientamento capace di dare allo storico un indirizzo politico come prassi. Risulta dunque fondamentale il legame tra la sfera teologica, nascosta ma allo stesso tempo operante nell’immanenza della redenzione del passato tramite la rimembranza e la conoscenza storica (che permette di recuperare momenti dimenticati ma fondamentali avvenuti nel passato e di rinfocolare l’odio e il desiderio di riscatto e liberazione della classe oppressa), e la sfera politica, in quanto il passato riscattato e redento nel messianico «adesso» della conoscibilità offre la direzione per l’azione rivoluzionaria, di natura messianica e teologicamente giustificata (perché finalizzata appunto alla fondazione di una società senza classi). Secondo il messianismo di Benjamin, inoltre, la speranza della redenzione è metastorica, in quanto rinvia a un momento non preciso e ha origine in un passato tragico e segnato da spargimenti di sangue. D’altra parte, il presente non ha alcun ruolo se non quello di avviare a tale redenzione e per questo non è vuoto ma è pregno del futuro, un futuro in cui però non è garantito il progresso, individuato non nell’accumulazione delle varie conquiste umane, bensì nell’arrivo dell’Angelus Novus, cioè dell’epoca messianica.


Immagine: Sergio Bianchi


Note [1] W. Benjamin, Tesi di filosofia fella storia, a cura di P. Dalla Vigna e L. Taddio, Mimesis, Milano 2012, I tesi, p. 9. [2] Ibid. [3] Ibid. [4] Ibid. [5] Ivi, VI tesi, p. 13. [6] Ivi, I tesi, p. 11. [7] Ivi, XIII tesi, p. 1. [8] Ivi, XIV tesi, p. 19. [9] L.A. Seneca, Naturales quaestiones, VII, 25, 1-4, traduzione mia. [10] Giovanni Vico, Scienza Nuova, Idea dell'Opera. [11] Ibid. [12] Ibid. [13] Immanuel Kant (citato da Ralf Ludwig), Critica della ragione pura, B 50. [14] Aristotele, Φυσικής ἀκρόασις, X-XIV, 219 a 9-10, traduzione mia. [15] Ivi, 219 b 1 [16] Agostino d’Ippona, Confessioni, Libro XI, Capitolo XXXVI, Traduzione mia [17] Aristotele, Φυσικής ἀκρόασις, capitoli X-XIV, 223 a 20, Traduzione mia [18] Benjamin, Tesi di filosofia della storia, cit., IV tesi, p. 12 [19] Ivi, XI tesi, p. 18. [20] Karl Marx, Salario, Prezzo e profitto, traduzione di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 67. [21] Benjamin, Tesi di filosofia della storia, cit., VII tesi, p. 14. [22] Ivi, XI tesi, p. 16. [23] Ivi, XVIII tesi, p. 23. [24] Ivi, VI tesi, p. 13 [25] Ivi, VII tesi, p. 13 [26] Ivi, VII tesi, p. 14 [27] W. Benjamin, Angelus Novus, Mimesis, a cura di P. Dalla Vigna e L. Taddio, Milano 2012, p. 36. [28] Benjamin, Tesi di filosofia della storia, cit., XIV tesi, p. 19.


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Giulia Santoro (2005) frequenta l’ultimo anno del Liceo classico M. Minghetti di Bologna. È appassionata di storia, soprattutto medioevale; negli ultimi anni si è avvicinata allo studio della lingua, letteratura e cultura greca e latina.

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