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Il rovescio possibile dell’antropologia politica negativa

Recensione a L’uomo non è buono. Per la critica del progresso (MachinaLibro, 2024), a cura di Veronica Marchio.

 


Marco Bongiorni, Uomo che piange, 2021

«L’auspicato avvento di una grande politica ‒ rivoluzionaria, aggiungiamo noi ‒ non può che passare per il superamento dell’umano nella forma dell’Ubermensch, l’oltre˗uomo capace di sentire diversamente la vita per affermarne l’ambivalenza polimorfa, senza cedere alle risentite inquietudini di chi pretende di raddrizzarne il legno storto sotto i colpi di un’apollinea razionalità che oggi ancora serve soltanto gli interessi del capitale. Si tratta di una possibilità che sarà in grado di darsi soltanto al di là del bene e del male, cioè al di fuori delle pretese, sempre moralizzanti, di giudicare in qualche modo la vita a partire da principi ‒ ancora umani, troppo umani ‒ localizzati nella volontà del potere».

Pubblichiamo una brillante riflessione di Claudio Cavallari su L’uomo non è buono. Per una critica del progresso, libro curato da Veronica Marchio e uscito qualche mese fa per le edizioni MachinaLibro e che contiene i testi di Dario Gentili, Damiano Palano, Ubaldo Fadini, Maria Russo, Marco Spagnuolo, Franco Piperno e Mario Tronti.

Il libro è disponibile sul sito machinalibro.com.

 

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«Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; […] ed ecco, era cosa molto buona».

 

Il mondo antico di cui il canone jahvista della tradizione ebraica, nel più originario dei suoi testi, immagina la cosmogonia è un mondo di analogie, di somiglianze. Nelle regolarità delle alternanze scandite dalla natura, così come nell’ordine delle ripartizioni delle specie animali e vegetali, esso vede riflettersi l’idea ‒ in fondo umana, troppo umana ‒ di una sapiente volontà creatrice che su tutto imprime la propria soddisfatta approvazione: è cosa buona. Ma quando si tratta di escogitare l’analogia decisiva, quella con il Principio Ordinatore stesso, ecco che tutta una serie di problemi cruciali comincia quasi meccanicamente a inanellarsi. L’uomo, di cui Dio è immagine, non può che dirsi, infatti, cosa molto buona. Necessariamente, la caratterizzazione dell’umano come principio agente ordinante˗giudicante lo colloca rispetto al mondo naturale in posizione eccentrica: quella, per similitudine, del demiurgo. Dunque l’uomo è più che buono. E se questo «più» da un lato lo smarca dalle necessità meccaniscistiche di uno sviluppo programmato naturalmente, dall’altro esso scoperchia la possibilità di un declinare potenzialmente abissale. Dacché un gradiente nella bontà delle cose è posto, esse possono tendere iperbolicamente tanto al bene, quanto al male ‒ potremmo forse scorgere in questo una capitolazione ante litteram del rigorismo morale kantiano. È qui che nel racconto biblico cade il termine della somiglianza divina e avanza, di contro, l’ipotesi di una redenzione necessaria all’uomo. In questa faglia ‒ che per la verità è una delle tante ‒ l’inventiva umana ha situato sì il posto del Messia, ma anche quello del Principe, del Leviatano e, da qualche tempo, quello del mercato. E accanto a queste figure, quella di una rincorsa mozzafiato della propria perfettibilità su di una scala lineare di acquisizioni incrementali: ecco l’idea di progresso. La storia, si sa, ha contrapposto questi orientamenti con ostinazione, facendo della logica del loro presupposto una questione ineludibile. In poverissime parole, se si scoprirà che il gradiente umano è opportunamente contrassegnato da un segno «più», l’inclinazione del pensiero tenderà grossomodo al progressismo, viceversa, alla conservazione. Bisognerà aspettare Nietzsche per scorgere nella traiettoria di questo sviluppo la lunghissima storia di un errore capitale. Bontà sua o no, l’uomo si è fatto sicario di Dio e, restando prigioniero del suo schema trascendentale, non ha che una sola domanda da rivolgere al più ambivalente e tentatore dei concetti: qual è la sua natura? Ancora, e come sempre, il destino finisce per ricercare la legge del suo sviluppo nelle qualità del principio. Tuttavia, come Foucault ricorda a Chomsky in un dibattito divenuto anche troppo celebre, nessuna natura umana esiste in sé. Le sue stesse condizioni di concettualizzazione sono piuttosto il frutto di articolazioni epistemiche locali e storicamente situate cioè, per altri versi ‒ come risponde invece Adorno a Gehlen in una conversazione decisamente meno conosciuta ‒ non c’è alcuna natura umana pre-culturale. È questo, tra gli altri, il caso cui rispondono le necessità teoriche della fondazione moderna del politico. Diversi tra gli autori del volume collettivo curato da Veronica Marchio L’uomo non è buono. Per la critica del progresso (MachinaLibro ˗ Derive Approdi, 2024) concordano nell’individuare in Thomas Hobbes non soltanto il padre della modernità politica, ma anche, e correlativamente, se non il fondatore, almeno uno dei più influenti teorici e promotori della cosiddetta antropologia negativa. Seguendo uno schema sconosciuto agli antichi, e ripercorrendo gli stilemi di una filosofia morale molto in voga tra i suoi contemporanei, il pensatore scozzese sarebbe stato tra i più insistenti profanatori del segreto custodito nel cuore della natura umana: lo spietato egoismo che profondamente ci caratterizza. Per quanto astutamente congeniato, il rimedio hobbesiano alla catastrofica e guerreggiante bramosia umana, si risolve in una prescrizione di obbedienza incondizionata alla forma dell’ordinamento civile. La conservazione dell’ordine si pone come soluzione necessaria a compensare l’irriducibile malvagità della natura degli uomini. Hobbes costituisce così uno tra i più chiari esempi di come ogni teoria politica sottenda sempre una determinata concezione antropologica, e non possa fare a meno di fondarvisi, giustificandosi tramite essa. Se sia possibile, e in fondo opportuno, disarticolare questo nesso, può rivelarsi allora una domanda non priva di fertilità sul piano teorico. Così come senz’altro lo è il tentativo di rovesciarne i termini, come gli autori di L’uomo non è buono si sforzano, con successo, di fare. La tensione che ne attraversa le pagine rivela infatti l’esigenza di una rottura di quelle forme canoniche dell’antropologia politica che hanno costituito l’assetto riflessivo, tendenzialmente binario, del pensiero e della prassi politica dalla modernità in avanti. Su questo livello, l’obiettivo teorico-politico del testo si sdoppia. Da una parte, diviene essenziale comprendere il meccanismo di articolazione tra la definizione di un modello antropologico di stampo negativo e l’affermazione storica del capitalismo neoliberale, per meglio comprenderne e spiegarne il funzionamento e il successo. Dall’altra, occorre liberare il piano di formulazione della riflessione politica marxista da tutte le ambiguità che essa continua a mutuare da un ottimismo antropologico di riflesso ‒ il suo implicito umanesimo, per dirla con Althusser ‒onde evitare di prosciugarne lo slancio rivoluzionario in favore di un ambiguo progressismo scarsamente orientato.

Si tratta, in altre parole, di capire come rovesciare l’antropologia negativa contro gli esiti politici stessi di cui è stata posta a fondamento. Non per strizzare l’occhio a un pensiero conservatore meritevole di essersi rivelato scaltramente più cinico. Né per riabilitare la nozione, teoreticamente così debole e politicamente così insidiosa, di natura umana. Ma per forzare le cristallizzazioni di un pensiero rivoluzionario che ha finito per muoversi in circolo nella nostalgia del ritorno a una sorta di mitologico paradiso perduto. Cioè, in altri termini, sforzarsi ancora una volta di rileggere Marx a partire da Nietzsche.

L’idea di fondo, nell’articolare le conseguenze più fertilmente possibili di questo connubio ‒ quale si esprime, ad esempio, con puntuale efficacia nel pensiero di Nicola Massimo De Feo ‒ non è tanto quella di decifrare il principio antropologico in grado di dare più ampiezza di respiro all’auspicio di una rottura rivoluzionaria, ma piuttosto quella di contestare il fondamento antropologico stesso che, per vie più o meno implicite, viene a trovarsi posto a garante della validità teorica, tanto della giustificazione quanto della critica, dei più diversi orientamenti della scienza politica tradizionale da Hobbes in avanti. In altre parole, bisogna domandarsi che cosa avvenga nella teoria politica allorché ci si sbarazzi dell’ipotesi dell’umano, inteso quale postulato originario o come fine necessario, per trattarlo all’opposto come un semplice effetto, o come un esito solo finalisticamente previsto o auspicato, ma in una forma ancora non data. Nella movimentazione di un simile approccio, il concetto di natura umana si trova costretto a passare al di fuori di sé per trovarsi riorganizzato nella forma ‒ più convincente ‒ di una condizione umana, cioè dell’insieme delle ripercussioni possibili che una ridefinizione degli aspetti epistemico˗politici esistenti potrebbe autorizzare in rapporto alla definizione di uomo. A questo livello, come già Marx indicava, la soppressione dello stato di cose presenti in cui il comunismo sussiste, rovescia l’ossessione dell’universale ‒ vocazione millenaria irrinunciabile del (bianchissimo) pensiero europeo ‒ da presupposto a prospettiva. A partire da Marx sappiamo bene, infatti, che concepire astrattamente l’umano, disarcionandolo dalla storicità e dalla materialità dei rapporti di produzione e delle asimmetrie di potere in cui esso si trova definito, significa risolversi in un qualche modo a validare sempre gli interessi di parte della classe dominante. In questo senso, ogni concettualizzazione dell’universalismo cela, enunciandosi, il proprio tradimento logico: ogni universalismo non può che essere di parte, cosa che per noi contemporanei significa qualificarlo ancora come universalismo borghese.

Va da sé che criticare il fondamento antropologico dell’universalismo borghese richiede di fare i conti con l’insieme di meccanismi di esclusione senza i quali esso non avrebbe potuto articolarsi. Ciò rende necessario, da un lato, il passaggio attraverso l’analisi dei processi di consolidamento del suprematismo razziale bianco ‒ chiaramente esplicitati, tra le altre, dalla cosiddetta tradizione nera radicale ‒ e dall’altro ‒ ma i due movimenti sono in realtà uno ‒ occorre promuovere una serrata genealogia dei principi di razionalità che sono serviti inizialmente da punti d’appoggio tecnico˗politici per lo sviluppo del capitalismo moderno, per diventarne poi i principi guida. Simili riflessioni ci aiutano a portare fuori di latenza il senso dell’esercizio riflessivo promosso dagli autori di L’uomo non è buono. Occorre disilludere il pensiero dell’universale della sua pretesa di porre un fondamento antropologico alla base di una determinata configurazione del politico. Pretesa che si rivela al fondo del tutto ideologica, nella misura in cui qualsiasi pensiero sull’umano è sempre il frutto, e mai il presupposto indiscutibile, dello specifico assetto dei rapporti sociali di produzione che la politica organizza. Da Machiavelli a Carl Schmitt, il pensiero del realismo politico pare trascurare questo aspetto, considerando la natura umana alla stregua di un paradigma invariante, desumibile dal concreto di una verità fattuale. Gli esiti di questo tipo di riflessione sfociano, per buona parte degli autori che ad essa sono in qualche modo ascrivibili, in una sorta di determinismo predittivo, a forte impianto teologico˗politico, nel quale la fondazione di un ordine sovrano determinato non può che qualificarsi all’altezza di un rimedio teleologicamente necessario. Il riferimento al realismo politico ci pone tuttavia di fronte al dischiudersi di un elemento contraddittorio rivelatosi storicamente decisivo. Se infatti la cattiveria intrinseca alla natura umana pare richiedere a gran voce l’intervento redentivo del sovrano, cioè di una sorta di supplemento artificiale atto a compensare, o a raddrizzare, quella negatività distruttiva che per l’umano è dotazione naturale, ciò ci imporrà di squalificare sul piano teorico qualsiasi riferimento a una possibile armonizzazione spontanea degli egoismi individuali nella cornice concorrenziale e tendenzialmente deregolamentata del mercato. Ma, chiaramente, è un’altra storia quella che abbiamo visto realizzarsi nei fatti.

Il tema dell’artificialità si rivela a questo punto decisivo nell’investigare il rapporto che intercorre tra l’antropologia filosofica novecentesca e l’affermazione storica del paradigma neoliberale. Sarà forse pleonastico, ma in una certa misura significativo, ricordare come per i Greci, ad esempio, non si desse alcuna discontinuità tra la qualificazione dell’umano e il mondo della natura. Il pensiero antico postulava infatti ‒ Antigone continua in modo sublime a ricordarcelo ‒ l’accordo essenziale e irrinunciabile tra leggi di natura e leggi della polis, costituendo queste ultime, come afferma Aristotele, l’ambiente naturale di quell’animale politico che è l’uomo. Laddove la natura è pensata come un fine, e non come un mezzo che l’umano piega ai suoi scopi grazie alla tecnica, il tema dell’artificialità costitutiva dell’uomo non può evidentemente essere posto. Ma se pensiamo al Novecento e alla vertiginosa accelerazione dello sviluppo tecnico promosso dall’espansione capitalistica, siamo costretti a constatare come i termini si siano rovesciati. È soltanto nel darsi di simili condizioni materiali infatti che qualcosa come una vergogna prometeica può essere concettualizzata. Così, tanto l’inadeguatezza dell’umano rispetto alla performatività della tecnica, quanto la sua naturale artificialità, intesa come risposta adattativa resa necessaria dalla carenza del suo corredo istintuale, si rivelano caratterizzazioni indissociabili dalla congiuntura epistemico˗politica che ne ha resa possibile la formulazione. Qui, la tentazione dell’Origine, e una fascinazione che sembra irresistibile per i momenti fondativi, organizzano la riflessione dell’antropologia filosofica tedesca ‒ pur con sfumature differenti da Scheler ad Anders ‒ nella forma di un cortocircuito. In primo luogo, questa tradizione di studi configura la storia come la serie degli scarti che intercorrono tra le forme successive dell’organizzazione socioculturale, al cui interno si impongono continue riconfigurazioni adattative della forma uomo ‒ l’assenza di una costante diviene in questo modo la costante. In secondo, il collocarsi dell’umano in posizione eccentrica o distaccata rispetto al mondo naturale ne denuncia la costitutiva artificialità ‒ il difetto di naturalità finisce così per essere interpretato come la natura dell’uomo. Il tratto distintivo che qualifica lo specifico umano si trova così situato in una sorta di frammentarietà radicale che prescrive all’uomo la ricerca di continue compensazioni di ordine tecnico, unitamente alla necessità di un adattamento ambientale costante nel tentativo, votato allo scacco, di risolversi una volta per tutte all’interno di una forma compiuta. Al di là del suo interesse precipuo, un’antropologia così attraversata da un simile principio di insufficienza, rivela il suo interesse più decisivo sul versante delle sue implicazioni politiche. La non corrispondenza tra i bisogni dell’animale umano e l’ambiente naturale che lo circonda, questa sfasatura che lo rende eccentrico, innaturale, fuori contesto, ne promuove tuttavia l’incessante agire creativo: l’uomo fabbrica istituzioni. Tali prodotti artificiali dell’ingegno umano sono sistemi di mediazione collettiva che compensano la carenza di attrezzatura istintuale che sta alla base della sua incompletezza. Potremmo limitarci, ancora una volta, a rimarcare come il negativo antropologico presupponga di essere controbilanciato dal sovrappiù dell’artificio politico. Ma il rapporto tra istinti e istituzioni ‒ come indicato da Deleuze ‒ è permeato da una logica che sottilmente promuove il rovescio della causalità che a prima vista gli attribuiamo. Chiaramente, come si è affermato, è la necessità della soddisfazione dell’istinto a rendere necessaria per l’uomo l’istituzione, ma al tempo stesso, l’esistenza dell’istituzione ‒ o meglio l’esistenza dell’uomo per e nell’istituzione ‒ ridetermina l’istinto facendone proliferare le forme. Diviene evidente, allora, come il problema dell’artificialità dell’uomo, così come viene posto dall’antropologia filosofica del Novecento, assuma qui un andamento circolare. L’insufficienza naturale dell’umano invoca la creazione di istituzioni preposte a soddisfarne i bisogni, ma queste a loro volta producono incessantemente una ridefinizione dell’assetto delle sue esigenze inventando desideri, e desideri sempre nuovi, cioè finendo per fabbricare ex novo l’uomo che ha dato loro vita. Non solo. Preso nel rapporto istituzionale, e da esso in ultima istanza definito, l’uomo automatizza il comparto delle sue risposte adattive, finendo per dipendere dalle istituzioni che ha edificato. In questo modo, potremmo spingerci a considerare come l’istituzione ‒ ma un discorso analogo potrebbe essere sviluppato sul versante della tecnica ‒ istighi l’umano alla perpetua riproduzione di sé come essere difettante, e che un simile movimento corrisponda all’inquadramento più coerente della sua, artificiale, natura. Il problema insito in questa sorta di circolarità negativa è l’effetto retorico di naturalizzazione delle sperequazioni che il rapporto istituzionale asseconda e consolida. La distribuzione ineguale di risorse, e dunque di potere, tra gli uomini, rischia così infatti di finire ricompresa in un selvaggio schema evoluzionistico che viene a trovarsi fondato e giustificato ancora una volta sulla definizione di una specifica natura umana. Chi meglio si adatterà agli aggiustamenti incessantemente prescritti dall’ordine tecnico˗istituzionale, sarà meritevolmente premiato per la messa a valore del suo capitale naturale. In fondo, dobbiamo constatare come l’istituzione˗mercato sia ciò che sistematizza e fornisce la matrice organizzativa più altamente funzionale di un simile assetto. Ciò che in essa ci è dato di contemplare è la paradossale istituzionalizzazione dello stato di natura hobbesiano, in cui la sproporzione delle forze e la loro brutale competizione divengono criteri di organizzazione sociale. Il vizioso circolo dell’antropologia˗politica si trova così eternizzato nel meccanismo di un moto a spirale totalizzante e senza vie d’uscita.

Naturalmente cattivo, perfettibile, biologicamente carente, o redimibile, l’umano, dunque, è sempre la posta in gioco di un conflitto senza tempo che, a partire dalla definizione della sua possibile natura, tenta di affermare l’assemblaggio logico, sempre di parte, di dispositivi multipli di potere. Questa battaglia di appropriazione sulla verità ultima di ciò che l’uomo è, non ha conosciuto altri esiti nella storia al di fuori del tentativo di porre basi sempre nuove alla sua governabilità. Lo spunto riflessivo che va opportunamente colto tra le pagine di L’uomo non è buono ci invita allora a rifiutare di prendere parte all’interno di questa contesa, per spezzare quella circolarità stagnante in cui la definizione del principio umano e quella della genesi del potere sono portati a coincidere, così come vuole il sogno perverso di ogni ontologia politica. Per praticare la rottura rivoluzionaria di un simile stato di cose presenti, in cui progressismo e conservatorismo, destra e sinistra, non sono che sfumature solo lievemente cangianti della medesima razionalità, il pensiero comunista dovrà volgere lo sguardo a Nietzsche, e alla stanchezza da lui provata nei confronti di quel fardello concettuale che chiamiamo uomo.     L’auspicato avvento di una grande politica ‒ rivoluzionaria, aggiungiamo noi ‒ non può che passare per il superamento dell’umano nella forma dell’Ubermensch, l’oltre˗uomo capace di sentire diversamente la vita per affermarne l’ambivalenza polimorfa, senza cedere alle risentite inquietudini di chi pretende di raddrizzarne il legno storto sotto i colpi di un’apollinea razionalità che oggi ancora serve soltanto gli interessi del capitale. Si tratta di una possibilità che sarà in grado di darsi soltanto al di là del bene e del male, cioè al di fuori delle pretese, sempre moralizzanti, di giudicare in qualche modo la vita a partire da principi ‒ ancora umani, troppo umani ‒ localizzati nella volontà del potere. Per farlo, occorrerà giocare contro l’uomo il soggetto, con la sua produttiva facoltà di creazione che lo fa mancante di nulla. Giocare contro l’antropologia politica una soggettivazione politica capace di tradursi in un «noi» di nuova fattura, orizzonte, e mai presupposto necessario, del rovesciamento delle condizioni di dominazione attuali. Ovvero, tendere all’oltre˗uomo per affermare il soggetto rivoluzionario.

 


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Claudio Cavallari è Dottore di Ricerca in Filosofia e si occupa da anni del rapporto tra filosofia politica e psicoanalisi, di teoria critica contemporanea, etica e intercultura. Insegna Pedagogia Interculturale e Sociologia  della Devianza presso l’Istituto Superiore di Scienze dell’Educazione e  della Formazione «G. Toniolo» di Modena, ed è autore di diversi saggi e  contributi in riviste scientifiche e raccolte. Ha pubblicato per DeriveApprodi: Pensare l'abisso. Jacques Lacan e la sovversione del soggetto (2021).

 

 

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