Il rapporto tra campagne pubblicitarie e produzione artistica ha una storia lunga, che comincia alla fine dell’Ottocento. Negli anni Sessanta del secolo successivo la Pop Art sposta per la prima volta in maniera consapevole ed efficace l’attenzione sulla rappresentazione dei nuovi costumi urbani, sull’immaginario di massa e sui miti della società moderna, trasformando il prodotto commerciale in soggetto artistico. Negli anni Ottanta, ci spiega Carla Pagliero in questo articolo, la pervasività pubblicitaria diventa ineludibile, le tecniche di rappresentazione e di trasmissione diventano sempre più sottili e raffinate. L’innovazione delle tecnologie dell’informazione diventa un campo di ricerca altrettanto importante sia per l’ambiente artistico che per quello commerciale dando luogo a fenomeni di contaminazione e di scambio fra area artistica e area pubblicitaria. La società dello spettacolo viene inglobata nello sviluppo del mercato e della mercificazione capitalistica: gli slogan delle avanguardie artistiche e dei détournements situazionisti, divenuti popolari col maggio francese, negli anni Ottanta rivitalizzano il linguaggio pubblicitario in televisione e nella cartellonistica, spesso ricordati da creativi e pubblicitari che avevano partecipato a quella stagione di lotte.
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Arte e pubblicità
Alla fine dell’Ottocento iniziarono a essere usati per la prima volta logo aziendali per merce prodotta con un procedimento industriale: le zuppe Campbell, i sottaceti Heinz, i cereali Quaker Oats. I marchi, affermano Ellen Lupton e J. Abbott Miller, esperti di design, erano utilizzati per far uscire dall’anonimato il prodotto seriale e farlo diventare familiare. Il marchio era il tramite tra prodotto e consumatore, sostituendo in qualche misura la rassicurante figura del negoziante[1].
In genere le campagne pubblicitarie fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento erano estremamente semplificate, non ci sono riferimenti alla concorrenza ma ci si limita a presentare in maniera esplicita il prodotto reclamizzato: «un annuncio pubblicitario, afferma un disegnatore dell’epoca, deve essere sufficientemente grande da suscitare impressione, ma comunque non più grande dell’oggetto reclamizzato».
Henry De Toulouse Lautrec, esponente di spicco dell’Impressionismo, presta volentieri il suo talento per pubblicizzare i locali da lui frequentati e le vedettes dell’epoca: Jean Avril, la Goulue, Aristide Bruant; personaggi della Belle Epoque, che ancora oggi ricordiamo grazie alle sue opere. L’affiche, come era chiamato allora il manifesto pubblicitario, nasce in Francia ad opera di Jules Chéret, che sfrutta le nuove tecnologie al servizio della grafica quali la litografia, inventata nel 1796, che permette effetti grafici raffinatissimi, e la cromolitografia (1836), dando il via all’arte pubblicitaria. La linea usata da questi primi grafici pubblicitari è continua, sinuosa e raffinata, una grafica che caratterizza la stagione del Liberty, pochi i colori usati, generalmente i primari (giallo, rosso, blu), il nero e il bianco.
Ben diverso e decisamente più raffinato l’uso della pubblicità proposto negli anni Sessanta del Novecento dalla Pop Art, che sposta per la prima volta in maniera consapevole ed efficace l’attenzione sulla rappresentazione dei nuovi costumi urbani, sull’immaginario di massa e sui miti della società moderna, trasformando il prodotto commerciale in soggetto artistico. La Pop Art, che deriva il termine Pop da popular, nacque in Inghilterra negli anni Cinquanta. Il termine, che definisce chiaramente la finalità della proposta artistica, venne coniato dal critico inglese Lawrence Halloway nel 1954. Il quadro manifesto del movimento pop viene considerato un piccolo collage di Richard Hamilton, dal titolo didascalico: Just What is it That Makes Today’s Home So Different, So Appealing? (Cosa rende oggi le case così diverse e così attraenti?). L’opera venne esposta nella celebre e celebrata mostra This is Tomorrow, dedicata alle nuove culture emergenti: l’evento che diede inizio al Pop inglese. Nel piccolo collage, che utilizza foto di rotocalchi americani, viene rappresentato un interno borghese moderno. I protagonisti sono una donna e un uomo che ostentano con orgoglio i loro corpi modellati con cura dall’attività sportiva, l’uomo ha in mano una racchetta da tennis, su cui compare per la prima volta la scritta Pop, che darà il nome alla corrente artistica. Gli oggetti presenti non sono legati da una coerenza compositiva, servono solo a sottolineare gli aspetti positivi e i vantaggi della modernità, ponendo al centro dell’attenzione un soggettivismo narciso ed edonista. L’aspirapolvere che aiuta la donna nel lavoro casalingo, il televisore, il registratore, il prosciutto in scatola, all’esterno un manifesto che pubblicizza uno spettacolo jazz: il protagonista indiscusso della scena è il new American style of life, che introduce il periodo del boom economico e suggerisce un benessere a cui tutti possono aver accesso.
La Pop Art si caratterizza per l’uso di immagini, come si è detto, importate dalla quotidianità, l’identificazione con i linguaggi mediatici è totale, mentre è completamente assente ogni tipo di suggestione critica, ogni accenno a messaggi di tipo sociale, cui le avanguardie storiche europee dei primi decenni del Novecento, ci avevano abituati. Il termine «popolare» che definisce questa corrente artistica è da intendersi in maniera concreta e impolitica, è popolare l’immagine che la gente riconosce come tale, anche grazie al bombardamento effettuato dai mass media che vanno diffondendosi con tecnologie sempre più avanzate. «Attraverso la citazione e la decontestualizzazione, osserva Lorenzo Taiuti, la pop art crea una sorta di pseudo consenso verso i media», abbassa il suo livello di presenza e nello stesso tempo saggia la reazione del contesto, proponendo, come le avanguardie più politicizzate di inizio Novecento, non un’arte aulica e museale, ma l’integrazione e la rigenerazione dei linguaggi di massa[2].
Andy Warhol, l’esponente più emblematico della Pop Art, si formò artisticamente come grafico pubblicitario e ripropose nei suoi quadri in maniera ripetitiva ed invasiva le immagini di prodotti commerciali, utilizzando la serigrafia, una tecnica usata spesso nella grafica pubblicitaria. Famose le sue lattine di zuppa Campbell, la ripetizione seriale delle bottigliette di Coca-Cola, la riproposizione fotoserigrafata delle star dell’epoca: Marilyn, Liz Taylor, Elvis Presley, ma anche di eventi riportati dai telegiornali e consumati in maniera frettolosa e inconsapevole: gli incidenti automobilistici, le esecuzioni capitali, l’attentato mortale a John Kennedy. L’obiettivo di Warhol è salvare l’immagine quotidiana dalla banalità e dall’anonimato proponendo immagini note, fruite a volte in maniera inconsapevole, come oggetto d’arte. Questo diventerà il fondamento della sua poetica e contribuirà a diffondere, assieme ad altri strumenti mediatici, quali il cinema e la musica, i miti – e i prodotti – americani nel mondo. Warhol si muove all’interno del contesto mondano americano degli anni Sessanta, di cui è uno degli esponenti più stravaganti e originali. Le sue opere diventano universalmente note, nella stessa misura in cui cresce la sua figura iconica e carismatica. Significative le sue affermazioni-provocazione che sottolineano il rapporto stretto e ineludibile con il mercato e l’elemento di spettacolarizzazione che questo comporta, caratteristiche che nella sua poetica sono essenziali: «Volevo essere un affarista dell’arte, dichiara con convinzione, o un artista degli affari, la forma d’arte più affascinante». Famosa, e citatissima, la sua affermazione che nella nostra società tutti possono avere un quarto d’ora di celebrità.
Altrettanto interessante la ricerca grafica di Roy Lichtenstein che ripropone la sintesi grafica e il linguaggio narrativo dei fumetti decontestualizzandolo e riproponendolo secondo una tecnica pittorica tradizionale. Le immagini dei fumetti vengono isolate e ingigantite come fossero cartelloni pubblicitari, il retino, tipico della grafica fumettistica viene riproposto ingrandito e riprodotto a mano con i colori ad olio facendo ricorso ad una tecnica pittorica controllata e rigorosa, il balloon delle strisce viene introdotto nella tela come elemento grafico che con la narrazione ha ben poco a che spartire. Anche Tom Wesselmann utilizza le immagini della grafica pubblicitaria per ridefinire generi classici quali la «natura morta» e il «nudo femminile». A uscire vincente è il linguaggio della comunicazione mediatica che attraversa, impregna ed invade la nostra esistenza e contribuisce a creare i nuovi canoni artistici. Questo processo formativo dei canoni, osserva Anna Lisa Tota, è essenziale per capire i meccanismi che il potere si dà per affermare e riprodurre se stesso: «attraverso il consolidamento di un canone artistico si esprime anche un insieme di valori sociali che sono consoni e funzionali alla legittimazione di un determinato gruppo di attori sociali»[3].
Indubbiamente la Pop Art, associata alla diffusione capillare dei film e della musica americana, ha contribuito non poco a diffondere e a rendere familiare il nuovo stile di vita dei «conquistatori» americani nel dopoguerra, favorendo così la nascita del «mito americano». Si pensi alla riproduzione del marchio della Coca-Cola che dopo gli anni Sessanta diventa un modello grafico non solo in America. Il pittore tedesco Wolf Vostell lo inserisce nei suoi décollages, così come Schifano riproduce frammenti del logo nelle sue opere caratterizzandoli con colature di colore. La stessa operazione viene condotta con l’immagine delle vedettes del cinema e del mondo musicale dove due modelli emergono subito sugli altri, quello di Marilyn e quello di Elvis Presley.
Gli anni Ottanta e l’uso della comunicazione pubblicitaria
Negli anni Ottanta la pervasività pubblicitaria diventa ineludibile, le tecniche di rappresentazione e di trasmissione diventano sempre più sottili e raffinate. L’innovazione delle tecnologie dell’informazione diventa un campo di ricerca altrettanto importante sia per l’ambiente artistico che per quello commerciale dando luogo a fenomeni di contaminazione e di scambio fra area artistica e area pubblicitaria. Ne sono un esempio le campagne pubblicitarie degli orologi Swatch, realizzate da artisti affermati come Nespolo e Mendini, dove si cerca di ridefinire l’immagine dell’orologio e in ultima analisi il concetto di tempo.
Anche la Benetton, una delle più potenti multinazionali dell’abbigliamento, organizza le sue campagne pubblicitarie negli anni Ottanta puntando sul talento provocatorio, dissacratore e innovativo del fotografo Oliviero Toscani, che aveva precedentemente lavorato per Fiorucci, Prénatal, Jesus. Famosissima la sua campagna per i Jeans Jesus, dove a foto ambiguamente sensuali venivano sovrapposti frasi tratte dai Vangeli: «Chi mi ama mi segua», «Non avrai altro jeans all’infuori di me». L’effetto nel nostro paese, bigotto e spalmato su una tradizione religiosa consolidata, fu esplosivo. Anche le pubblicità per Benetton, progettate dal 1982, dal fotografo milanese sono non-pubblicità che giocano sullo spiazzamento e sulla provocazione, e che, almeno inizialmente, cercano di dare voce a messaggi sociali e di impegno civile. Nelle pubblicità non viene riprodotto l’oggetto da pubblicizzare, è sufficiente la citazione del marchio, inoltre le immagini di Toscani sono facilmente riconoscibili e immediatamente collegate al marchio Benetton. Le foto di Toscani puntano a colpire e a scuotere l’opinione pubblica, spesso in maniera fastidiosa, vanno volutamente contro il concetto di misura e di buon gusto, tendono allo scandalo, a volte alla denuncia, con modalità tipiche delle avanguardie artistiche. Famose le campagne utilizzanti immagini choccanti: ragazzi «down», condannati a morte, il ragazzo morente di Aids, il bacio fra il prete e la suora.
Sull’altro fronte della contaminazione culturale il lavoro artistico della statunitense Barbara Kruger, che sovrappone immagini fotografiche semplici e di facile lettura a frasi-slogan come se si trattasse di cartelloni pubblicitari: «Compro quindi sono», «Noi non abbiamo bisogno di un altro eroe», e così via. A differenza che nella Pop Art, la pubblicità non è sottoposta a un esame distaccato, ma la si utilizza per veicolare contenuti contrari, antagonisti e critici come: «Comprami. Cambierò la tua vita», o dichiarazioni provocatorie: «Tu non sei te stesso»; o ancora «Quando sento la parola Cultura la mia mano va al portafoglio»[4]. Vale la pena ancora ricordare Jeff Koons, uno degli artisti contemporanei più pagati del mercato dell’arte. L’artista si afferma negli anni Ottanta, anche grazie alla provocatoria e scandalosa storia d’amore e tribunali con la pornostar Ilona Staller, meglio nota come Cicciolina. Koons riproduce in acciaio e ceramica, oggetti glamour come palloncini modellati a formare pupazzi per bambini, cuoricini giganti e simboli della società dello spettacolo, come Michael Jackson e la stessa Cicciolina, immortalata in video che recuperano gli scenari hard dei suoi spettacoli, contaminando arte e pornografia. Dai filmati vengono tratte sculture in vetro e ceramica policroma per una serie intitolata «Made in Heaven». Anche il figlio della coppia, Ludwig, diventa il protagonista di una serie: «Celebration», nome che alla società dello spettacolo, come vedremo, piace molto. Indubbiamente le vicende dell’artista e della sua famiglia, contornate da rocambolesche vicende giudiziarie, amplificate e diffuse attraverso i media, non hanno fatto altro che far salire le quotazioni e la notorietà di Koons.
Il processo di contaminazione fra arte, merce e tecnologie dell’informazione è un fenomeno che negli ultimi cinquant’anni si è imposto in modo prepotente e ineludibile, una condizione sine qua non per comprendere sia l’arte che la società contemporanea. Nella società attuale dove la produzione diviene sempre più immateriale, il processo di spettacolarizzazione, intuito da Guy Debord ne La società dello spettacolo, diventa vincente perché, come scrivono Carlo Freccero e Daniela Strumia nell’introduzione all’edizione del 1997, «è in grado di assorbire qualsiasi forma di opposizione facendola propria»[5]. L’osservazione viene, non a caso, proprio da Freccero che dopo una formazione marxista e situazionista è stato uno dei consulenti di maggior rilievo nella costruzione dell’impero mediatico di Berlusconi.
La società attuale, afferma Debord, assorbe e ingloba la totalità dell’esistenza dell’uomo. Il consumo alienato diventa per le masse un obbligo, un dovere supplementare che si inserisce all’interno del ciclo produttivo alienato e ne diviene la parte terminale e conclusiva[6]. Lo spettacolo non è che l’ultima fase della produzione, dove la merce privata del suo valore intrinseco è ridotta a puro valore di scambio. La merce non viene acquistata per essere consumata, ma per la sua carica simbolica, e il consumatore, come dice Baudrillard, in fondo non è che un lavoratore che non sa di lavorare. In fondo la contraddizione della società moderna è data proprio da questo aspetto. Mentre il rapporto fra padrone e operaio, secondo la vecchia analisi marxista, era leggibile in maniera estremamente semplificata e si basava sullo scambio lavoro/salario, dove il gioco del padrone consisteva nel pagare poco il lavoro per avere un plusvalore maggiore, nella società contemporanea, il segreto è pagare poco alcuni lavoratori (ad esempio esportando le fabbriche nei paesi del Terzo mondo) per permettere ad altri di consumare fino al limite massimo sostenibile.
L’analisi di Debord, uno dei contributi chiave per capire e interpretare la fenomenologia artistica degli ultimi quarant’anni, nasce dalla lettura di Marx filtrata attraverso l’interpretazione di un testo critico importante di Lukács, molto diffuso negli anni Sessanta, Storia e coscienza di classe. Lukács riprende il concetto di merce, così come Marx l’aveva interpretato negli scritti giovanili, mutuandolo da Hegel. In particolare Debord riprende da Lukács il concetto di contemplazione che diviene fondamentale nella sua interpretazione per trasporre la figura del lavoratore che diviene nel suo testo spettatore. Lo spettacolo afferma in uno degli aforismi che compongono il testo, non è un’utopia, un sogno da realizzare, ma il «cattivo sogno della società moderna incatenata, che non esprime in definitiva se non il suo desiderio di dormire»[7].
L’incipit stesso de La società dello spettacolo, denuncia l’ispirazione marxista del testo riprendendo e parafrasando Il Capitale: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli»[8], dove al termine merci si sostituisce il termine spettacolo che, come si legge in un altro passo, non è «un insieme di immagini ma un rapporto sociale tra gli individui mediato dalle immagini»[9]. Solo il silenzio può combattere questo tipo di società e da questo punto di vista Debord si compiace di pronosticare al proprio libro una diffusione scarsa e limitata.
A fianco dell’esperienza situazionista, di cui l’artista francese fu l’indiscusso leader, si sviluppano, a partire dagli anni Sessanta, tendenze conflittuali che invitano a leggere con occhio critico la società dei consumi. La coppia di artisti Christo e Jeanne Claude, ad esempio, impacchettano oggetti, edifici, elementi naturalistici per denunciare la mania della società dei consumi di mascherare ed occultare tutto con ingombranti e voluminosi involucri. Gli impacchettamenti coinvolgono qualsiasi tipo di oggetto, dal carrello della spesa al Reichstag di Berlino, dalle bianche scogliere di Dover, ai 100.000 mq di passerelle appoggiate nel giugno del 2016 sul Lago di Iseo per l’intervento the Floating Piers. Le istallazioni e rappresentano un invito a rileggere gli oggetti in maniera nuova, così come appaiono durante e dopo il rivestimento. In questo senso gli artisti propongono una metafora perfetta della società consumistica che stravolge e modifica per sempre gli oggetti di cui si appropria. Duane Hanson, invece, crea dei «doppi», autentici spaccati della società americana contemporanea realizzando manichini iperrealistici in resina, rivestiti e qualificati con oggetti reali: vestiti, borse per la spesa, che mostrano con realismo inquietante frammenti di vita quotidiana: donne sfatte e trasandate, consumatori incalliti con carrelli del supermercato stracolmi e sguardi disincantati e distanti. L’italiano Piero Manzoni arriva a mettere in vendita lattine firmate e datate, a certificare la valenza artistica del prodotto, contenenti merda d’artista. L’opera, che ricorda L’Orinatoio proposto da Duchamp nel 1917 come ready made artistico, è volta a criticare in maniera beffarda il mercato e la mercificazione dell’arte in un periodo in cui la richiesta di prodotti artistici era piuttosto elevata, con l’intento di denunciare la spregiudicatezza di certi mercanti d’arte ed artisti disposti a tutto pur di realizzare alti guadagni. Mentre l’artista tedesco Hans Haacke cita ricontestualizzandoli frammenti delle campagne della famosa agenzia pubblicitaria americana Saatchi & Saatchi con intenti fortemente critici e i Billboard Liberation Front, di cui parleremo più avanti, manipolano direttamente le pubblicità esistenti, modificandone il senso.
L’importanza del logo
Negli anni Ottanta la pubblicità diventa oggetto di attenzione per molti artisti critici nei confronti della società dei consumi che, riprendendo la battaglia e gli strumenti dei situazionisti, si appropriano degli spazi pubblici e della comunicazione pubblicitaria puntando a stravolgerne e a ribaltarne il significato: sono gli anni in cui l’ossessione per i marchi aziendali raggiunge il suo culmine.
Nel 1988 la Philip Morris acquista il marchio Kraft per 12.6 miliardi di dollari, vale a dire a un prezzo sei volte maggiore del suo valore effettivo di mercato. Il valore aggiunto evidentemente era rappresentato dal costo della parola «Kraft». Era stato attribuito, in definitiva, «un valore smisurato a qualcosa di astratto e non quantificabile: un marchio»[10].
Le campagne pubblicitarie diventano negli anni Ottanta il fulcro del sistema di mercato e le grandi agenzie pubblicitarie sempre più ricercate e pagate sfruttano, ovviamente, il momento felice. David Lubars, dirigente pubblicitario di Omnicon Group, sintetizza con sincerità il principio che guida la filosofia pubblicitaria: «I consumatori, afferma, sono come gli scarafaggi: dopo un po’ il solito insetticida non basta più, li devi spruzzare con roba più forte»[11]. Gli anni Ottanta rappresentano il clou della politica di mercato legata al marchio, atteggiamento che ha un declino negli anni Novanta, dove si punta a valorizzare iniziative promozionali come il taglio dei prezzi, le offerte di vendita, i concorsi, gli omaggi, la qualità del prodotto.
La tendenza a valorizzare il marchio acquista nuova vitalità negli ultimi anni del millennio con punte di demenzialità assoluta. La Nasa nel dicembre del 1998 annuncia di voler ospitare slogan pubblicitari sulle sue stazioni spaziali, la Pepsi «minaccia» di proiettare il suo logo sulla superficie lunare, mentre la Mattel, la fabbrica che ha inventato la bambola più venduta del mondo: la Barbie, dipinge di un bel «rosa Barbie» un’intera strada di Salford, in Inghilterra, comprese le case, gli alberi, i cani, i marciapiedi e le automobili per festeggiare il mese Rosa di Barbie. La Nike aumenta la spesa destinata alla pubblicità del 24,6% raggiungendo la ragguardevole cifra di 250 milioni di dollari l’anno. Per anni, afferma con rammarico, Phil Knight, amministratore delegato della Nike, abbiamo pensato a noi stessi «come a un’azienda orientata alla produzione mettendo tutte le nostre enfasi nel design e nella fabbricazione del prodotto. Ma ora comprendiamo che la cosa più importante è commercializzare il prodotto… la Nike è una compagnia orientata al marketing e il prodotto è il nostro più importante strumento di marketing»[12].
Le nuove strategie di mercato, negli anni Ottanta, sono rivolte a proporre e a legare il marchio a nuovi stili di vita, associando i prodotti ad annunci che abbozzano politiche progressiste, sociali, animaliste e ambientaliste, ibridando la pubblicità con modelli artistici di avanguardia e détournement spiazzanti che riprendono tecniche e modalità del situazionismo, ambiente in cui si sono formati molti creativi dell’epoca. In Italia, Berlusconi è il primo a capire l’importanza della comunicazione pervasiva pubblicitaria e il suo impero economico probabilmente non avrebbe avuto la fortuna che ha avuto, senza la stampella mediatica televisiva strutturata in maniera snella e innovativa da figure come Antonio Ricci e Carlo Freccero, i quali, dopo aver capito che nella sinistra un po’ bacchettona e rigida, non avrebbero colto consensi, prestarono le loro idee al miglior committente sul mercato. Si possono citare altri esempi, oltre a Benetton, di cui si è già parlato, che puntava a decostruire l’idea di pubblicità attraverso campagne progressiste e di denuncia. Va ricordata la fabbrica di orologi della Swatch, che costruisce la sua immagine attraverso l’opera di artisti famosi. Body Shop, che punta tutto sull’autoreferenzialità e che non spende una lira in pubblicità; il marchio diviene famoso per l’approccio etico ed ecologico alla cosmesi: non vengono usati, ad esempio, animali da laboratorio per testare i prodotti, di conseguenza i prodotti della linea godono di un loro spazio specifico sul mercato proprio per le scelte fatte rispetto alle politiche ambientali e alla filiera commerciale. Anita Roddick, la fondatrice di Body Shop, sostiene che il successo dell’impresa non era nei suoi piani, il vero obiettivo era un modo di proporre i prodotti che avesse al centro il prodotto stesso e il suo rapporto etico con il contesto ambientale, politico, sociale; l’azienda serviva solo come piattaforma di lancio per parlare di argomenti quali la donna, l’ambiente sociale, l’ecologia. Negli anni Ottanta la Roddick promuove un’esperienza interessante con i proventi della sua impresa: il primo quotidiano di strada prodotto da barboni che con la vendita dei giornali si autofinanziavano e nello stesso tempo facevano conoscere le loro vite.
Discorso diverso, per molti aspetti, e di tendenza decisamente più invasiva il fenomeno rappresentato dalla multinazionale Disney che, dopo aver fondato negli anni Settanta ad Orlando, in Florida, Disney World: un mega parco giochi dove si possono incontrare le case, i castelli, i personaggi del mondo a fumetti ideato da Walt Disney e dopo averlo clonato e adattato ad altri contesti, nell’84 a Tokyo e nel 1992 a Parigi, si è lanciata sul mercato con una fitta produzione di gadget, oggetti legati ai personaggi della casa, per lanciare addirittura una «crociera» Disney Magic, che fra i vari approdi comprendeva Castway Cay, isola delle Bahamas, di proprietà della Disney Corporation. Per arrivare, infine, a lambire le frontiere dell’utopia urbana, a Celebration, in Florida non lontano da Disney World, dove è sorta la prima città progettata dalla Disney, secondo un progetto accarezzato dallo stesso fondatore dell’impresa negli anni Cinquanta. Celebration viene pensata come una città modello, un’utopia, come quelle progettate da Owen e Fourier sulla scia delle idee egualitarie della Rivoluzione francese e dell’Illuminismo. Qui le coordinate di riferimento però sono costituite dal mito dell’America del passato: un mondo puro e incontaminato dal commercio e dalla pubblicità. Celebration viene proposta come luogo dei sogni del passato, una città dove si può vivere il mito della America coloniale ma con una dotazione tecnologica avanzatissima, grandi spazi pubblici, parchi, piazze, centri civici: un grande paese tranquillo e sicuro, libera dalle migliaia di stimoli contradditori e dalle brutture delle città contemporanee. Sei gli stili architettonici ammessi: classico, vittoriano, coloniale, costiero, mediterraneo e francese. Le case sono in legno, tipicamente americane, con staccionate in legno autenticamente americane e torre del serbatoio dell’acqua assolutamente falsa. Il progetto, costato 4 miliardi negli anni Novanta, è, oggi ancora attivo, gestito da una società di investimenti, anche se esso ha completamente mancato gli obiettivi utopistici con cui era stato lanciato e oggi ricorda il set di Suburbicon, uno dei tanti film distopici hollywoodiani, o quello di Truman Show, film uscito poco dopo la realizzazione del progetto disneyano.
Il salto di qualità, come osserva la Klein, nelle nuove strategie di promozione del marchio negli anni Ottanta e nel decennio successivo, è reso possibile dal fatto di riuscire a produrre un rapporto «emotivo» con il cliente superando il peso della produzione che viene, a questo punto, delegata a piccole imprese a basso costo, preferibilmente nei paesi del Terzo mondo, dove la mano d’opera viene sfruttata meglio e con profitti inimmaginabili, grazie alle leggi di quei paesi che non tutelano certo i lavoratori. Negli anni Novanta un operaio statunitense guadagnava circa 10 dollari l’ora contro i 18.50 di un operaio tedesco e gli 87 centesimi di un operaio cinese. Nel 1999 si diffonde la notizia che operai confezionano abiti Disney a 13.5 centesimi l’ora. Di contro un dirigente d’industria americano della stessa casa, che ha il compito sostanzialmente di presiedere alle strategie di fabbrica, vale a dire curare soprattutto i licenziamenti e le uscite per la mano d’opera, può raggiungere la ragguardevole cifra di 230-250 milioni di dollari l’anno; essendo lo stipendio di un Ceo, e anche il posto di lavoro legato alla rendita dell’impresa, ovviamente il dirigente ha tutti gli interessi a mantenere la situazione di sfruttamento della mano d’opera che ben conosciamo.
Forme di attivismo
Le aziende, come sostiene l’attivista ambientalista Tony Clark, vincitore con Maude Barlow, del Premio Nobel alternativo nel 2005, sono diventate le vere autorità politiche del nostro tempo, in grado di fissare l’ordine del giorno della globalizzazione, dopo aver attuato un vero e proprio «colpo di Stato al rallentatore». Il rivoluzionamento delle tecniche e delle tecnologie dell’informazione ha portato, fra l’altro, a «ridefinire la percezione della città come “caverna elettronica”, non più ridisegnabile e perfettibile secondo la tradizione modernista, ma montaggio di infinite azioni comunicative assai diverse l’una dall’altra e collegate dai linguaggi elettronici e dal diffondersi di pratiche interculturali e intermedia»[13]. In questo senso vanno lette due tendenze che si impongono nello scenario urbano a partire dagli anni Settanta che riprendono la tradizione antagonista e antisistemica delle avanguardie e il tentativo di creare un rapporto immediato e diretto con le masse e con la gente fuori dal contesto museale, parlo dei fenomeni del graffitismo e delle cosiddette culture jamming (interferenze culturali).
La graffiti art, fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, segna e sottolinea il ritorno alla pittura figurativa e all’intervento in spazi pubblici con l’obiettivo di denunciare apertamente il disagio sociale comune a gruppi e/o individui. I graffiti vengono realizzati, per lo più, con bombolette spray, il termine rievoca le incisioni rupestri degli uomini primitivi e ricordano, per certi aspetti, la pittura sociale dei muralisti messicani degli anni Quaranta. Il fenomeno del graffitismo è molto diffuso e popolare: non bisogna necessariamente essere degli artisti per creare un disegno su muro, è sufficiente la volontà di comunicare qualcosa, anche solo il desiderio di rivendicare la propria individualità e la volontà di trasgredire il semplice divieto di non scrivere sul muro. Una delle vetrine più significative per questo tipo di arte fu sicuramente, almeno fino al 1989, il muro di Berlino. Non molti i pittori diventati famosi in questo ambito, anche perché l’anonimato fa parte delle caratteristiche di questa manifestazione creativa e ne costituisce il senso.
Fra gli artisti che negli anni Ottanta hanno sviluppato al massimo le potenzialità di questa forma d’arte usandola come modo linguistico e arricchendola di citazioni, riferimenti, contaminazioni vanno ricordati Keith Haring e Jean Michel Basquiat, entrambi segnati da un percorso breve, intenso e maledetto, emblematico di questa generazione. Il primo, morto a trentadue anni di Aids e il secondo morto a ventotto anni di eroina. Keith Haring, in particolare ha fatto della pittura di strada un vero e proprio genere con uno stile personale fatto di segni ripetuti ossessivamente, facili da riconoscere e da identificare, una composizione caratterizzata dalla mancanza di centro e di regole compositive, che «ricorda e forse rende in termini visivi, come scrive Angela Vettese, ciò che è stata la musica rap per una generazione di giovani americani: la possibilità di parlare di qualunque cosa senza scrivere un testo preconfezionato… l’abolizione del refrain in favore della centralità del solo ritmo, ossessivo, tribale»[14].
La definizione culture jamming – interferenza culturale – è stata coniata nel 1984 dai Negativeland di San Francisco, una band musicale, che fa musica-collage. La culture jamming si riferisce agli interventi che alcuni gruppi svolgono sulle pubblicità, stravolgendone il senso. Una «interferenza culturale» ben fatta è in grado di portare allo scoperto il reale senso del messaggio pubblicitario e di svelare i segreti reconditi di una campagna pubblicitaria.
Su questo fronte sono attivi, molti artisti e creativi. In America, ad esempio e già dagli anni Settanta, i Billboard Liberation Front (Fronte di Liberazione del Cartellone pubblicitario), gruppo fondato nel 1977 da Jack Napier e Irving Glikk (19 anni il primo, 43 il secondo), i cui aderenti hanno dai dieci ai sessant’anni. Le azioni del Blf si svolgono in genere, di notte, essendo un’attività illegale e, preferibilmente, in giorni festivi come Natale o Capodanno, quando è più facile eludere il controllo della polizia. L’azione artistica rivolge l’attenzione ai cartelloni pubblicitari di cui vengono abilmente stravolti i messaggi. I Blf lavorano con mascherine che vengono preparate in studio, quindi spolverate con vernici e spray sui cartelloni pubblicitari. Gli interventi condotti sono progettati in maniera rigorosa dopo aver studiato il contesto e la fattibilità dell’intervento stesso, in seguito a rilievi fatti in loco dove vengono eseguite foto e schizzi di progetto. Tutto questo lavoro preliminare viene poi concluso con l’intervento in loco. Le prime azioni dei Blf erano rivolte alle pubblicità di sigarette e a denunciare la pericolosità del prodotto. Famoso l’intervento condotto sui cartelloni pubblicitari delle sigarette Fact, nove azioni condotte contemporaneamente nella notte di Natale del 1977, sui manifesti pubblicitari di San Francisco. Le alterazioni sono minimali e vengono condotte in maniera estremamente professionale. Ad esempio su uno dei cartelloni delle sigarette Fact, dove campeggia la scritta «I’m realistic. I only smoke Facts» (sono realista, fumo solo Facts) dopo l’intervento si legge «I’m real sick. I only smoke Facts» (sono molto malato, fumo solo Facts). Famosa anche la «controcampagna» Exxon del 1986, dove al posto di «HITS HAPPEN-NEW X-100» (un avvenimento sensazionale: la nuova x-100), dopo l’intervento si poteva leggere: «SHIT HAPPENS-NEW EXXON» (avvenimenti di merda-new Exxon)[15].
Le radici dell’interferenza culturale vanno cercate nelle provocazioni Dada e nei détournements situazionisti, che usavano a piene mani e in modo ironico citazioni ed estrapolazioni con risultati sarcastici e dissacratori: «Vietato vietare», «Chiediamo l’impossibile», «Vivere senza tempi morti, godere senza ostacoli». Quegli slogan che divenuti popolari col maggio francese, negli anni Ottanta entrarono a rivitalizzare il linguaggio pubblicitario in televisione e nella cartellonistica, spesso ricordati da creativi e pubblicitari che avevano partecipato a quella stagione di lotte.
Un altro caso esemplare di interferenze fra happenings e attivismo politico è quello delle Guerrilla Girls, un gruppo di artiste, scrittrici, performers e registe che dal 1985 si batte contro qualsiasi forma di discriminazione, sessuale, di genere, di razza, usando l’arma dell’ironia e della provocazione per creare dibattito, discussione, coscienza. Nelle loro assemblee indossano maschere da gorilla per evidenziare la centralità delle problematiche che è necessariamente prevalente rispetto alla personalità individuale: «We could be anyone; we are everywhere» si legge sul loro sito[16]. Il gruppo delle Guerrilla Girls realizza events artistici di forte impatto ideologico, produce contromanifesti, stickers, t-shirts, oggetti, che vengono reclamizzati sul loro sito e venduti online. Nei manifesti che riprendono i modelli della pubblicità si denunciano fenomeni discriminatori: in uno di questi, forse il più noto realizzato dalle guerrigliere dell’arte, si vede uno nudo femminile con una maschera da gorilla. Il nudo riprende la grande odalisca di Ingres dove lo slogan posto recita: «Do women have to be naked to get into Met. Museum?» («Devono essere nude le donne per entrare nel Metropolitan Museum?»). L’opera vuole denunciare l’assoluta mancanza di attenzione che viene data alla intelligenza e alla creatività femminile, riuscendo nell’intento grazie alle strategie comunicative tipiche del linguaggio pubblicitario. Famoso il loro contromanifesto che elenca – ironicamente – i numerosi vantaggi di essere un’artista donna.
Negli ultimi vent’anni l’attivismo delle donne nel campo dell’interferenza culturale è stato vivacissimo, d’altra parte buona parte dei prodotti commerciali si rivolgono all’immaginario femminile, piegandolo a stereotipi ributtanti; d’altra parte il fatto che le istituzioni museali e istituzionali abbiano sempre posto una rilevanza superficiale e distratta alla produzione intellettuale delle donne, ha creato le premesse per un impegno in settori mediatici in cui era più facile intervenire, il web, e la street art, in particolare, che in questi ultimi decenni si sono dimostrati i luoghi ideali per diffondere e far conoscere il punto di vista delle donne. Molte donne artiste si sono organizzate in piccoli collettivi, lanciando le loro grida di battaglia su siti web od organizzando gruppi di guerriglia urbana, armate di forbici, colla, pennelli, strumenti musicali, come le Riot Grrrl e le Bitch Brigade.
Le nuove frontiere della riflessione critica sull’arte contemporanea appaiono fortemente segnate da questo fenomeno di riduzione dell’impatto artistico che ingloba la realtà e procede per contaminazioni fra culture diverse (genere, ideologie, etnie, arte alta, mercato…) dove il modello americano sembra essere il punto di partenza e la globalizzazione del linguaggio, dei modelli, delle icone di riferimento uno dei nodi di passaggio. Un discorso frammentato e complesso che affonda le radici nelle avanguardie artistiche dei primi anni del Novecento e nel superamento auspicato della coppia antitetica: arte e vita, dove all’artista (l’elemento creativo che è in noi) è delegata la funzione di destrutturare e ricostruire un nuovo mondo a partire da quello presente.
Note [1] Ellen Lupton e J. Abbott Miller, Design Writing Research: Writing on Graphic Design, N.Y., 1997, citato in Naomi Klein, NoLogo, Baldini e Castaldi, Milano 2001. Questo articolo parte da una rilettura del bel libro della Klein, uscito nel 2001. Il testo, frutto di una ricerca, lunga, complessa e impegnativa, svolta sul campo, con tutte le difficoltà che si possono facilmente intuire, offrì all’epoca una lettura innovativa dei cambiamenti in corso nelle nuove dinamiche produttive, portando allo scoperto le innumerevoli realtà sommerse che andavano disegnando la new economy e le conseguenze – produttive, economiche, sociali, culturali e comunicative – strettamente legate ai cambiamenti in corso. In particolare nell’ottavo e nel nono capitolo del libro: L’interferenza culturale. La pubblicità sotto assedio (culture jamming) e Riprendiamo le strade si fa riferimento ad interessanti esperienze di frontiera fra arte, impegno politico e nuovi scenari urbani, che offrono parecchi spunti di riflessione per l’argomento trattato in queste pagine. [2] Lorenzo Taiuti, Arte e Media. Avanguardia e comunicazione di massa, Costa & Nolan, Milano 1997, pp 101-104. [3] Anna Lisa Tota, Sociologie dell’arte, Carocci, Roma 2002, p. 40. [4] Taiuti, Arte e Media, cit., pp.137-140. [5] Carlo Freccero e Daniela Strumia, Introduzione, in Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano1997 [6] Guy Debord, La società dello spettacolo, cit., §42, p. 70. [7] Ivi, § 21, p. 59. [8] Ivi, § 1, p. 53. [9] Ivi, § 4, p. 54. [10] Klein, No Logo,cit., p. 30. [11] Ivi, p.32. [12] Gli esempi citati sono tutti tratti da N. Klein, No Logo, cit., nel capitolo Un nuovo mondo di marca. [13] Taiuti, Arte e Media, cit., p. 134. [14] Angela Vettese, Capire l’arte contemporanea, Umberto Allemandi, Torino 1998, p. 270. [15] Il gruppo ha un suo sito: http://www.billboardliberation.com. [16] Il sito delle Guerrilla Girls è: http://www.guerrillagirls.com.
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Carla Pagliero, architetto di formazione, si è occupata di didattica e storia dell'arte. Ha insegnato per 35 anni storia dell'arte e ha partecipato a progetti di ricerca sulla didattica con l'IRRSAE e con la scuola di specializzazione interfacoltà. Ha collaborato con la fondazione Scuola del San Paolo e con la casa editrice SEI come consulente.
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