Considerazioni sulla capacità della fisica di distinguere tra parole e cose
Un testo di Franco Piperno, pensato originariamente per la Scuola di Dottorato «Archimede» e per il Dottorato in Filosofia dell'Unical.
«Riuscire a districare il reale dal linguistico, le cose dalle parole è un obiettivo importante per possedere a pieno i fondamenti logici della teoria relativistica e potere eventualmente superarne i limiti e le contraddizioni. Purtroppo questa attenzione critica agli aspetti semantici della teoria – quelli che la mettono in comunicazione con il senso comune — difetta in generale tanto nei testi quanto nelle lezioni e nei seminari universitari. Da questo punto di vista, sembra essenziale che per quanto riguarda i fondamentali della disciplina, non ci si limiti ai manuali ma si favorisca la lettura degli scritti originari, quelli che hanno determinato le rotture epistemologiche nella storia della fisica».
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Introduzione - Velocità versus tempo. Dal tempo assoluto di Newton alla velocità assoluta di Einstein.
I) Introduzione.
Il concetto di simultaneità costituisce la chiave di volta della relatività speciale. I famosi effetti di contrazione delle lunghezze e dilatazione dei tempi riposano interamente sulla relatività della simultaneità.
All’età di sedici anni, Einstein, come racconta nelle sue Note autobiografiche, aveva avvertito una certa inquietudine davanti al ruolo che svolge la velocità della luce nell’elettromagnetismo; ma solo cinque anni più tardi aveva trovato un modo di trattare la questione ricorrendo al concetto di simultaneità. Il carattere cruciale di questo concetto nella relatività speciale è largamente noto; quel che è invece generalmente omesso è che la rivoluzionaria analisi della questione da parte di Einstein si compone di due fasi distinte. Val la pena vederle con qualche dettaglio.
II) Simultaneità e sincronismo
L’analisi sistematica della simultaneità compare nel famoso articolo del 1905 Sulla Elettrodinamica dei corpi in movimento, lo scritto che espone l’originaria concezione della relatività speciale. Si tratta, in primo luogo, di definire la relazione di simultaneità tra eventi lontani all’interno di un sistema di riferimento inerziale; e questo equivale a sincronizzare gli orologi che, in quiete tra di loro, sono presenti in ogni punto del sistema(1).
L’operazione di sincronizzazione permette di dare un tempo ad ogni evento all’interno del sistema di riferimento, e va quindi compiuta prima di affrontare gli effetti relativistici che si originano dai movimenti relativi di due o più sistemi di riferimento inerziali.
Infatti il primo paragrafo dell’articolo in questione ha per titolo Definizione della simultaneità e recita più o meno così: «dati, in un sistema inerziale, due orologi collocati in due luoghi A e B tra loro distanti, stipuliamo per definizione che il “tempo” richiesto alla luce per andare da A a B sia esattamente lo stesso del “tempo” impiegato per tornare da B a A»(2) .
E che Einstein intendesse rimarcare la natura linguistica della definizione è ben mostrato dal fatto che la sottolineatura della parola compare nell’originale tedesco dell’articolo, anche se poi si è perduta nelle traduzioni.
Supponendo quindi che la luce viaggi sempre alla stessa velocità, se un segnale luminoso è prima inviato da A e dopo la riflessione istantanea in B ritorna in A, allora l’orologio collocato in A permette di stabilire il tempo totale di andata e ritorno del segnale tra A e B. Definito quindi «tA» come il tempo, segnato dall’orologio in A, al quale parte il segnale luminoso e «t’A» il tempo, mostrato dallo stesso orologio, quando il segnale ritorna in A, Einstein prosegue affermando: «In accordo con gli esperimenti noi assumiamo ulteriormente che la quantità, 2AB/( t’A – t A ) = c , sia una costante universale i.e. la velocità della luce nel vuoto»( 3).
Così Einstein enuncia, nel primo paragrafo del suo articolo del 1905, due distinti principi che insieme determinano la velocità della luce. Il secondo dei due è una congettura sperimentale; stabilisce, infatti, che la velocità media della luce, su un viaggio d’andata e ritorno, è indipendente dal cammino percorso ed è sempre uguale a una costate c. Questo è quindi un principio che può essere sottoposto ad esperimento. Se risulta sperimentalmente confermato va accettato come una cosa, un aspetto della natura.
Il primo principio, a sua volta, stabilisce l’uguaglianza, nel vuoto, tra la velocità di andata e quella di ritorno. A differenza del secondo, esso è del tutto indifferente alla verifica sperimentale; infatti si tratta di una definizione, e come tale non è né vera né falsa, ma solo appropriata o inappropriata alla teoria che la incorpora – non v’è alcun modo di ricondurla ad un fatto della natura.
La comparazione tra i due principi può essere riassunta nei seguenti termini:
I due principi impiegati insieme comportano che la velocità istantanea sia, come quella media, sempre uguale a c.
Nel dibattito sulla relatività, come nei manuali universitari, la combinazione, spesso inconsapevole, dei due principi va sotto il nome unico di «principio della costanza della velocità della luce».
Del resto lo stesso Einstein userà i due principi in congiunzione nel seguito dell’articolo del 1905. Ma quando l’analisi critica si focalizza sui fondamenti epistemici della teoria allora è del tutto cruciale distinguere gli elementi convenzionali da quelli fattuali, come appunto fa lo stesso Einstein nel primo paragrafo del suo articolo famoso.
Per sottolineare la portata cognitiva di questa distinzione val la pena ricordare che gli esperimenti di misura della velocità della luce – o almeno quelli affidabili – comportano tutti un percorso di andata e ritorno ovvero misurano la velocità media.
In altri termini, Einstein, presumibilmente, non avrebbe avanzato come definizione il principio della costanza della velocità istantanea del segnale luminoso se avesse ritenuto che l’uguaglianza o l’ineguaglianza di questa velocità lungo due opposte direzioni fosse una circostanza fattuale, accertabile sperimentalmente.
Si noti che questa attitudine è, psicologicamente, difficile da condividere. Infatti, se la velocità media può essere misurata e si rivela costante è difficile accettare che la velocità istantanea sia solo un ente di ragione, una definizione – e non l’articolazione di un fatto di natura.
Risulta quindi opportuno, per l’intelligenza della questione, ricostruire con qualche cura l’ostacolo epistemologico che impedisce di misurare la velocità della luce lungo una sola direzione.
In effetti, per misurare questa velocità, abbiamo bisogno, di disporre di un tragitto di lunghezza nota, alle estremità del quale sono collocati due orologi, svizzeri va da sé, che misurano rispettivamente il tempo di partenza e di arrivo del segnale luminoso. Ma queste misure hanno senso solo se i due orologi scandiscono lo stesso tempo, solo se sono tra di loro sincronizzati; altrimenti, la differenza di lettura tra i due orologi non rappresenta l’autentico intervallo temporale tra i due eventi.
Altrimenti detto, per procedere alla misura della velocità direzionale della luce occorre una preventiva opera di sincronizzazione degli orologi. E due sono i metodi che possono essere adoperati a tal proposito; il primo, originariamente proposto da Fizeau, accorda gli orologi tramite l’andata ed il ritorno di un raggio di luce; l’altro, invece, ideato da Romer, richiede l’introduzione di un terzo orologio, sempre svizzero, che viaggi tra i primi due.
III) La sincronizzazione standard
Consideriamo il primo metodo, quello chiamato in gergo «standard signal synchrony» e proposto dallo stesso Einstein nell’articolo citato.
A prima vista, qualcuno potrebbe ritenere che sincronizzare l’orologio in A con quello in B non sia poi così difficile, basteranno dei segnali luminosi che comunichino a B il tempo segnato da A, poniamo le otto del mattino. Ma, si converrà, B non può sincronizzare ll suo orologio regolando le lancette in modo che segnino le otto, giacché sa, o dovrebbe sapere, che quando riceve il segnale, in quel preciso istante, l’orologio in A non segnerà le otto ma un tempo successivo, determinato dalla velocità di transito del segnale luminoso da A a B.
Siamo qui davanti ad un circolo logico vizioso: per determinare la sincronia tra orologi lontani occorre conoscere la velocità del segnale che li sincronizza ma per misurare una velocità direzionale bisogna disporre di almeno due orologi già sincronizzati.
Il circolo logico che immediatamente affiora sta a testimoniare che la sincronizzazione non è un atto cognitivo sperimentale; piuttosto, come sostiene Reichenbach(4) , è una definizione coordinativa, un protocollo operativo arbitrariamente scelto, fatte salve le ragioni d’opportunità
Vediamo le cose con qualche dettaglio. La «standard signal synchrony» funziona grosso modo così: A invia a B un raggio di luce che vi si riflette tornando così ad A; il quale è quindi in grado di leggere sul suo orologio la durata totale del viaggio di andata e ritorno. A questo punto A stipula la convenzione linguistica che pone la durata del viaggio d’andata esattamente uguale a quella di ritorno; e comunica a B la decisione di considerare la durata dell’andata metà di quella totale. Successivamente, quando A invia l’informazione sul suo tempo, B è in grado di sincronizzare il suo orologio aggiungendo al valore trasmesso da A il ritardo accumulato nel tragitto.
Reichenbach ha introdotto per la sincronizzazione degli orologi tramite la luce, una semplice ma efficace notazione. Se chiamiamo «t1» il tempo al quale parte il segnale da A verso B e «t3» l’istante nel quale torna in A dopo aver subito la riflessione in B, allora il tempo «t2» al quale avviene la riflessione è dato da: t2 = t1 + α ( t3 – t1 )
Affinché il segnale arrivi in B, dopo essere stato emesso da A e prima di ritornare in A, la disuguaglianza seguente deve essere soddisfatta: 0 < α < 1.
La procedura di sincronizzazione di Eintsein si ritrova come caso particolare per α = 1/2.
Reichenbach(5) rimarca che questa scelta del valore di α permette una descrizione del mondo fisico di gran lunga più semplice che quelle ottenute con qualsiasi altra, ma si tratta di una preferenza motivata dalla convenienza e non imposta da un fatto di natura.
In altri termini, l’uguaglianza della velocità della luce lungo due direzioni opposte non è una proprietà del mondo nel quale siamo stati gettati, ma un atto semantico, che, in quanto tale può essere lasciato cadere senza che i fenomeni naturali ne avvertano in qualche modo la mancanza.
Così, se qualcuno operasse una diversa scelta, assumendo che la luce non viaggi alla stessa velocità nel tragitto di andata e ritorno, non v’è alcun esperimento che possa verificare o falsificare la sua assunzione.
In questa acquisizione cognitiva riposa il senso dell’affermazione epistemica che considera il principio della costanza della velocità della luce una convenzione linguistica non triviale(6).
Qui mette conto sottolineare che questa impossibilità ontologica di misurare la velocità della luce non esiste nella teorie prerelativistiche per il buon motivo che nella fisica newtoniana non v’è un limite superiore per la velocità alla quale può essere inviato un messaggio. Infatti, per valutare la velocità di qualsiasi segnale nella fisica classica basterà sincronizzare due orologi tra di loro lontani utilizzando un segnale ausiliario che sia nettamente più veloce del segnale di cui si vuol misurare la velocità.
Il procedimento è del tutto analogo a quello adoperato per misurare la velocità del tuono rispetto al fulmine; si può agevolmente stabilire la velocità lungo una direzione delle onde sonore registrando quanto tempo intercorre tra l’osservazione ottica del fulmine e la percezione acustica del tuono associato, a condizione ovviamente di conoscere la distanza dal luogo colpito dal fulmine.
La validità di questo procedimento si fonda sulla immane sproporzione tra la velocità della luce e quella del suono, sproporzione che consente di considerare infinita la velocità del segnale ottico.
Analogamente, nella fisica prerelativistica, si può, in principio almeno, reperire dei segnali superluminali coi quali sincronizzare gli orologi per procedere poi a misurare con rigore la velocità della stessa luce; giacché, giova ripeterlo, la fisica newtoniana consente di accelerare i corpi fino a raggiungere velocità arbitrariamente grandi; e quindi è possibile, almeno in principio, misurare la velocità direzionale della luce con la precisione di volta in volta desiderata.
La situazione muta drammaticamente con l’avvento della relatività. In questa teoria infatti, ancor prima di di ogni valutazione numerica sulla sua velocità, la luce è assunta come l’agente più veloce del cosmo; il che comporta che nessun segnale inviato da A allo stesso tempo che un segnale luminoso può raggiungere B prima che lo faccia la luce. Altrimenti detto, la luce è considerata un «primo segnale» nel senso che costituisce un limite assoluto invalicabile per la propagazione dei processi causali nel cosmo; e solo i processi causali possono essere usati tanto per inviare informazioni come per sincronizzare gli orologi.
In conclusione, la sincronizzazione standard riposa su una definizione convenzionale che non può né essere verificata né falsificata dall’esperimento.
IV) L’orologio svizzero perde il tempo
Mentre la sincronia standard si basa su un tragitto di andata e ritorno, il metodo della sincronizzazione per trasporto, più antico, si applica ad un percorso di sola andata. La prima ideazione è dovuta all’astronomo danese Olaf Romer che, all’Osservatorio di Parigi, nel 1675, mise a punto questo metodo per misurare la velocità della luce. Il procedimento partiva dalla registrazione delle discrepanze temporali nel periodico eclissarsi delle Lune di Giove; queste eclissi avvenivano con un ritardo anomalo quando il pianeta era in opposizione rispetto a quando si trovava in congiunzione; e il danese interpretò questo ritardo come il tempo impiegato dalla luce, proveniente da Giove, per attraversare il diametro dell’orbita della Terra.
Il metodo proposto da Romer può essere impiegato per la sincronizzazione di due orologi distanti a mezzo di un terzo orologio che viaggi tra i primi due. Si parte da due orologi perfettamente identici, posti in A e sincronizzati localmente tra di loro. Uno dei due viene poi trasportato in B e là viene usato per sincronizzare localmente il terzo orologio.
È agevole, infatti, riconoscere che l’astronomo danese fa uso di un orologio che è trasportato tra due estremità del diametro terrestre. Infatti, nei sei mesi che trascorrono, approssimativamente, tra la congiunzione e l’opposizione di Giove, l’orologio viaggia con la Terra da una estremità all’altra del diametro dell’orbita; di conseguenza, il ritardo misurato da Romer corrisponde al tempo che occorre alla luce per attraversare il diametro dell’orbita terrestre solo se l’orologio è sincronizzato con due altri ipotetici orologi, fissi, rispetto al riferimento solare e posti alle due estremità dell’orbita.
Ognuno vede che questo metodo è in contrasto aperto con le previsioni della teoria della relatività; in effetti l’orologio di Romer, sincronizzato inizialmente con A e trasportato poi in B, quando ritorna in A ha perso l’iniziale sincronizzazione – e questo con ragione dal momento che, in generale, orologi che viaggiano modificano il loro battito a seconda del percorso compiuto e della velocità tenuta.
Dunque, anche il metodo Romer comporta almeno una assunzione sulla sincronia degli orologi che non solo è arbitraria ma addirittura in aperto contrasto con la teoria.
V) Relatività e convenzionalità
Esistono, ben inteso, altri metodi, più o meno peregrini, per misurare la velocità «one-way» o direzionale della luce, e.g. il dispositivo di Bradley per l’aberrazione della luce stellare. Ma tutti quelli proposti fin ad oggi in letteratura, si rivelano ad una critica attenta, incistate da qualche convenzione linguistica non triviale, del tutto equivalente o a quella della sincronia standard o quella della sincronia per trasporto(6).
Se le cose stanno così, risulta bizzarro che pressoché tutti i manuali universitari come anche i testi divulgativi, nell’introdurre la teoria relativistica, non tengano in nessun conto l’impossibilità di misurare la velocità one-way della luce; addirittura, in qualche caso, non si fa alcuna distinzione tra velocità istantanea e velocità media, sicché la questione epistemologica risulta, magari per inconsapevolezza, celata.
D’altro canto, è improbabile che gli autori di quei testi mantengano che la sincronia standard sia davvero una misura della velocità one-way della luce. Più verosimile è che si tratti di una abitudine alla assiomatizzazione fuori posto; gli autori e gli stessi insegnanti cadono nella tentazione d’introdurre a perpendicolo la relatività a partire dalle trasformazioni di Lorentz, quelle che connettono tra di loro due sistemi inerziali, sia K e K’. In queste trasformazioni viene inserita, come di soppiatto, la «condizione di reciprocità», ovvero se il sistema di riferimento K si muove con velocità v rispetto a K’, allora quest’ultimo si muoverà con velocità -v rispetto al primo. Questa congettura simmetrica appare così naturale da imporsi con l’evidenza di un fatto; ed invece si può dimostrare che il principio della costanza della velocità one-way della luce si deduce senza difficoltà da essa(7).
Le equazioni di Lorentz, nella forma standard, implicano quindi il principio che la luce conservi la stessa velocità tanto nel tragitto d’andata quanto nel ritorno. Nelle notazioni di Rechenbach, questa convenzione linguistica comporta che α = ½ ; e le trasformate di Lorentz non fanno altro che incorporare questa definizione convenzionale, in modo, dirò così surrettizio, tramite la condizione di reciprocità.
Non si può qui non rimarcare come questa condizione sia gravida di inattese conseguenze non facilmente percepibili al primo sguardo.
La tesi che il valore di α possa essere arbitrariamente scelto nell’intervallo 0 < α < 1 è conosciuta in letteratura con l’orribile nome di «convenzionalità della simultaneità».
Una volta che la scelta «normale» i.e. α = ½ è stata fatta e in più si adotta la sincronizzazione standard per i sistemi di riferimento inerziali è agevole mostrare, con un po’ di algebra, come eventi spazialmente separati che risultano simultanei in un sistema di riferimento non lo sono per un secondo sistema in moto relativo rispetto al primo. Questo risultato è chiamato in letteratura «relatività della simultaneità».
VI) Conclusioni
La relatività della simultaneità trova il suo fondamento nella convenzionalità della simultaneità stessa. Infatti, una scelta astuta del valore di α ≠ ½ permette di realizzare una sincronizzazione non-standard per la quale gli eventi simultanei in un sistema di riferimento lo sono anche per gli altri sistemi inerziali in moto rispetto al primo(8). Così la convenzionalità della simultaneità consente di sradicarne la relatività.
Per chiudere senza concludere, la teoria della relatività speciale ha certo un contenuto fattuale, come dimostra «ad abundantiam» la lunghezza -- spropositata per la fisica newtoniana – del LHC di Ginevra; ma la teoria avanza previsioni che sono criticamente legate a scelte linguistiche convenzionali. Riuscire a districare il reale dal linguistico, le cose dalle parole è un obiettivo importante per possedere a pieno i fondamenti logici della teoria relativistica e potere eventualmente superarne i limiti e le contraddizioni. Purtroppo questa attenzione critica agli aspetti semantici della teoria – quelli che la mettono in comunicazione con il senso comune — difetta in generale tanto nei testi quanto nelle lezioni e nei seminari universitari. Da questo punto di vista, sembra essenziale che per quanto riguarda i fondamentali della disciplina, non ci si limiti ai manuali ma si favorisca la lettura degli scritti originari, quelli che hanno determinato le rotture epistemologiche nella storia della fisica.
Bibliografia essenziale
(1) In questo testo, simultaneità e sincronia sono considerati termini semanticamente equivalenti e questo con ragione dal momento che due orologi sono sincronizzati se e solo se segnano simultaneamente lo stesso tempo.
(2) A.Einstein, On the Electrodynamics of Moving Bodies in The Principle of Relativity, New York, Dover Pub., 1977, p.40.
(3) A.Einstein, op.cit. ibidem
(4).H. Reichenbach, The Philosophy of Space and Time, New York Dover Pub., 1957, pp.125-26.
(5) H.Reichenbach,op.cit. pp. 127-28.
(6) W.C.Salmon, Space, Time, and Motion, Dickenson Pub., Belmont, 1985,pp.103-07.
(7) B.Ellis and P.Bowman, Conventionality in Distant Simultaneity, in Philosophy of Science,34,2,1985,pp.116-36.
(8). A.Grunbaum, Philosophical Problems of Space and Time, Reidel Pub.,1974,pp.359-68.
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