Crisi della riproduzione sociale e reinvenzione del quotidiano
In questo, XII contributo del Diario Della Crisi (pubblicato congiuntamente su Effimera, Machina e Il Salto), Cristina Morini riflette sul significato della riproduzione sociale e della sua crisi. Nel capitalismo contemporane, dove le piattaforme tecnologiche e le app organizzano la messa a valore della vita, la riproduzione sociale va oltre la famiglia e la cura di partner e figli. Essa definisce nuovi legami produttivi ai quali ci viene chiesto di adattarci, posti tra il biologico e il sociale, tra i corpi e la relazione che intrattengono tra loro e il mondo circostante. Ma proprio per la centralità che oggi assume la riproduzione sociale, il suo essere perno della valorizzazione contemporanea, la pone in costante crisi. Più gli atti della vita (cura, linguaggio, relazione) si avvicinano a diventare una merce qualunque, oggetto di mercificazione e di scambio economico, diretto o indiretto, più essi perdono di significato nella rete delle relazioni sociali, erotiche, nei collegamenti solidali tra viventi. La svalorizzazione si manifesta su tre livelli in particolare: crisi dei sistemi sanitari nazionali (la dismissione del corpo malato); crisi della riproduzione biologica (crisi demografica); crisi della riproduzione ambientale. La crisi della riproduzione sociale rappresenta la summa delle crisi di fronte alle quali oggi ci troviamo anche poiché rischia di indurre una trasformazione antropologica. Per questo sono fondamentali una politica della vita e una reinvenzione del quotidiano. Da qui dobbiamo ripartire.
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Muta la razza, muta ormai la specie, tra poco tali volti saranno appena percepiti e, percepiti, anch’essi imperdonabili, tanto estranei al contesto, al sistema che li racchiude.
Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987
La duttilità del capitalismo non smette di sfidarci, poiché cerca di colonizzare l’ambiente e le capacità di ogni entità viva o che renda possibile la vita, sia essa aria, acqua, pietra. L’analisi di tale processo, diventato trasparente anche grazie a cambiamenti di paradigma tecnologici e di organizzazione del lavoro, oltre che a quelli climatici, deve molto al pensiero delle donne. Le quali hanno da lungo tempo insistito sulla necessità di concentrarsi su una politica della vita[1], capace di sentire e di rispondere agli assalti all’importanza primaria di ciò che viene invece, attualmente, inteso come puro «capitale biologico» o «capitale umano», da sfruttare. Perciò, certe autrici non vanno citate invano, come si trattasse di svolgere un compito attento alle minoranze che, se non ben metabolizzato, si riduce, infine, a essere una specie di indice generalista. Va aggiunto che la biopolitica e il governo delle specie viventi non possono essere minimizzati proprio oggi, qualora si voglia compiere, davvero, una seria ricostruzione delle tensioni di fronte alle quali ci pongono le crisi organizzate del presente.
Si è trasformata radicalmente l’idea ottocentesca del sistema di fabbrica, sviluppatasi ampiamente nel corso di tutto il Novecento. Ma anche la riproduzione non è più quella di una volta: fuori dai confini domestici, ben oltre la famiglia e la cura di partner e figli, essa definisce nuovi legami produttivi ai quali ci viene chiesto di adattarci, posti tra il biologico e il sociale, tra i corpi e la relazione che intrattengono tra loro e il mondo circostante. Simula, così, la natura del sociale, che si fonda sulle interazioni e i rapporti, anche attraverso una serie di infrastrutture tecnologiche. Ciò non significa che il lavoro domestico o di cura, o tanto meno la riproduzione biologica, non vengano interessati dalla crisi della riproduzione sociale di fronte alla quale attualmente ci troviamo. La crisi del Welfare State è, evidentemente, crisi della riproduzione sociale e riconvoca, infine, gli stessi soggetti (le donne, i migranti, i poveri, i giovani) negli identici, fragili, ruoli di sempre. Con addirittura un nuovo sovraccarico di svantaggio e di marginalizzazione. I dati del recentissimo rapporto Caritas ci consegnano la fotografia di un’Italia con 5 milioni e 700 mila persone in povertà assoluta, che scopre che un alto numero di «lavoratori poveri» fa ricorso ai servizi delle parrocchie da almeno cinque anni, costellata di giovani-adulti (18-24 anni) stranieri in transito, soprattutto provenienti dall’Africa Occidentale, e nella quale coloro che chiedono assistenza sono soprattutto donne (52,1%). Triplicata dal 2008, quando interessava 1,8 milioni di persone, la povertà è diventata «strutturale». Le fasce più deboli subiscono un rincaro dei prezzi del 17,9 per cento[2].
Tutto si è consumato velocemente: siamo vistosamente davanti alla creazione di una economia che mette al centro lo sfruttamento della vita biologica e senziente. Le nuove forme di produzione sono oggettivamente concentrate sulla possibilità di trarre plusvalore direttamente dalla vita, dalla sua manutenzione e dalle condizioni di esistenza[3]. Ciò che eccede la normatività di un’economia ufficiale, ciò che travalica modalità informali fino ad un certo momento ammesse nella circolarità delle comunità, viene intrappolato in una lettura moralizzante ed espulso[4].
Il passaggio, in atto ormai da alcuni decenni e analizzato da più parti e in primo luogo da una parte del femminismo[5], non cancella, evidentemente, la produzione industriale ma, da un lato, la riordina, delocalizzandola rispetto al cuore dei Paesi europei, dell’Occidente creatore della prima rivoluzione industriale; dall’altro, la reinterpreta e investe massicciamente sulle scienze della vita (industria biotech; ricerca genetica; industria farmaceutica, industria della salute) e anche, sempre più, sull’industria bellica e della ricostruzione.
La guerra gioca la propria parte nelle nuove forme assunte dalla ri-produzione contemporanea finalizzate al ridisegno di egemonie economiche che si traducono in forme di sfruttamento e accumulazione tratte direttamente dalle condizioni del vivere di esseri umani e non umani. Se osservata con la lente delle moderne forme di accumulazione ri-produttiva, la guerra è lo strumento più efficace per ribadire le forme del dominio biopolitico sulle esistenze. Non solo per le funzioni storiche che la guerra interpreta da millenni, e che ovviamente permangono, intatte. Non solo perché storna massicci investimenti pubblici dall’impegno per la cura di ciò che è vivo, cooperando ferocemente perché si compiano definitivamente processi di selezione utili a separare chi può godere del diritto all’esistenza da chi può esserne privato. Si deve, per forza, sottolineare che gli strumenti bellici oggi utilizzati hanno un elevato impatto ambientale e possono contaminare i corpi con un’azione diretta (inalazione, esposizione) o indiretta, attraverso le catene alimentari. Si deve ricordare che una diga bombardata in Ucraina rappresenta un ecocidio poiché distrugge culture e rende impossibile per anni la sopravvivenza di quasi un milione di persone, come ha spiegato un recente articolo su Nature[6].
Si consideri, in questo insensato disordine, il ruolo assunto dall’impoverimento definitivo di intere popolazioni che viene amplificato a dismisura dalle guerre, nella penuria di risorse di un pianeta sovrappopolato e già da secoli saccheggiato dal capitalismo, nella sempre più palese impossibilità di fuggire e di essere nomadi. In questo senso, possiamo dire che il dominio della guerra sulle condizioni di vita della popolazione civile che, nella sua globalità, è interessata – in modo diretto o meno esplicitamente evidente, ma comunque sempre fondamentale – dai tanti conflitti bellici in corso, rischia, paradossalmente, di essere più gravoso che in passato. Guerra alla vita ha detto, perciò, non a caso, il movimento delle donne in questi mesi, collegando gli effetti di vulnerabilità, su più piani intersecati, che essa genera. Maria Luisa Boccia ha osservato il «ritorno alla normalità della guerra»[7]. Si deve senz’altro aggiungere l’esempio del ruolo giocato dall’inflazione e dall’aumento dei prezzi come altri, in questo Diario e su Effimera, hanno benissimo fatto notare, nei mesi scorsi[8].
Oggi, i broker finanziari, nell’ininterrotto periodo di crisi apertosi nel 2008 e culminato con la pandemia e con una nuova guerra in Europa, consigliano l’acquisto di «azioni difensive», ovvero azioni di imprese che hanno a che vedere con produzioni essenziali, «indispensabili». Di che cosa stiamo parlando? Proprio di investimenti su aziende che si muovono nel settore sanitario, nei servizi pubblici, nella produzione di beni di consumo primari ma anche nell’industria bellica. La domanda di farmaci e di trattamenti medici non è impulsiva e non sarà condizionata dalla debolezza del sistema economico o dal crollo dei mercati. La domanda di tali beni resta guidata dalla necessità imprescindibile di prodotti letteralmente vitali.
Le persone avranno, in qualsiasi caso, bisogno dei propri medicinali, anche durante una crisi. Anzi, a seconda dei motivi della crisi medesima, la richiesta può perfino aumentare. Abbiamo ben visto quale incremento esponenziale si sia generato durante l’epidemia di Covid 19 e come le confusioni e le insicurezze correlate alla pandemia abbiano causato una corsa ai beni di consumo primari.
Infatti, il settore sanitario costituisce oggi una fetta importante dell’economia globale, comprendendo una gamma di categorie di business che vanno dalle aziende farmaceutiche ai servizi sanitari. Dunque è fin troppo chiaro che si tratta di un business che va sottratto alla gestione collettiva e consegnato ai sistemi di privatizzazione e di brevetto.
Premessa del discorso è, naturalmente, quanto accennavo sin dal principio di queste troppo brevi note vista la complessità del problema, ovvero che deve darsi capacità di trasformazione della vita biologica in plusvalore, ovvero creazione di valore in termini economici laddove prima non ce n’era.
Questa premessa è già di per sé significativa di una tensione fortemente critica, cioè già indica la crisi del senso e del valore della riproduzione sociale, poiché la pretesa di estrarre valore dalla vita si coniuga da vicino con la sua devalorizzazione pratica. La riproduzione passa dall’essere consumata improduttivamente all’essere l’aspetto più funzionale alla accumulazione contemporanea. Non muta la propria origine, poiché essa rimane azione nel/del sociale, e tuttavia rischia di perdere sé stessa.
Più gli atti della vita (cura, linguaggio, relazione) si avvicinano a diventare una merce qualunque, oggetto di mercificazione e di scambio economico, diretto o indiretto, più essi perdono di significato nella rete delle relazioni sociali, erotiche, nei collegamenti solidali tra viventi. Più le tasche della speculazione finanziaria si riempiono e più si svuotano i rapporti tra viventi, i legami materiali, affettivi, empatici, etici, morali che ci legano gli uni alle altre.
Dunque lo sfruttamento diretto del vivente genera sia estinzione che svilimento delle possibilità e delle condizioni, della qualità della vita. Stiamo toccando (abbiamo già varcato) il limite? La scarsità dei beni ambientali che tale tipo di sfruttamento implica sarà – sempre più frequentemente – motivo migrazioni, dunque di conflitti e viceversa. La crisi della riproduzione sociale, racchiusa nella capacità di estensione delle forme di cattura dell’economico, si esplica attraverso estrazione, fragilizzazione dell’esistenza, assenza di cura per tutto ciò che è vivo fino all’elezione del simbolico della guerra – codici, linguaggi, raffigurazioni, comportamenti – come strumento normale di regolazione dei rapporti sia tra esseri umani che tra stati, nell’oblio di ogni rispetto per umane convenzioni e diritti.
In questo senso l’innesto della vita nel circuito del valore diventa crisi della riproduzione sociale, poiché sottrae potere alla comunità umana e vivente in senso lato per consegnarne all’economico e al militare. E la crisi della riproduzione sociale diventa, evidentemente ed esplicitamente, crisi degli strumenti che hanno consentito forme di regolazione della produzione in favore della riproduzione (Welfare State). Non si vuole, dicendo questo, schierarsi in difesa dell’idea di stato che si è andata componendo, poiché «la proprietà pubblica statale è stata costruita sulla stessa logica assoluta ed esclusiva della proprietà privata», come hanno ribadito recentemente Carlo Vercellone, Alfonso Giuliani e Francesco Brancaccio[9]. Tra l’altro, ho sempre notato che le forme di assicurazione sociale fossero «incompiute» per le donne e fondate su un’idea di cittadinanza incarnata dal lavoratore salariato maschio bianco. Tuttavia, è innegabile che il Welfare State e «i compromessi fordisti» abbiano alleggerito le pressioni sulla riproduzione attraverso l’investimento di risorse pubbliche nel sistema sanitario, nell’istruzione, nell’assistenza all’infanzia e nelle pensioni di anzianità.
Non casualmente la crisi della riproduzione si materializza attualmente, su tre livelli in particolare: crisi dei sistemi sanitari nazionali (la dismissione del corpo malato); crisi della riproduzione biologica (crisi demografica); crisi della riproduzione ambientale.
Riguardo il primo aspetto, alcuni recenti dati italiani sono impietosi. Il processo di definanziamento della sanità pubblica a vantaggio della sua privatizzazione procede spedito, nonostante l’emergenza Covid abbia mostrato quanto la prevenzione sanitaria territoriale e pubblica sia fondamentale per il mantenimento della salute pubblica. Nel triennio 2024-2026, a fronte di una crescita media annua nominale del Pil del 3,6 per cento, il Def 2023 stima la quota della spesa sanitaria allo 0,6 per cento. Il rapporto spesa sanitaria/Pil si riduce così dal 6,7 per cento del 2023 al 6,3 per cento nel 2024 al 6,2 per cento nel 2025-2026. Contemporaneamente, si assiste a una crescente emorragia di personale sanitario (calo di 30.000 addetti negli ultimi dieci anni) e, conseguentemente, le liste di attesa aumentano in modo esponenziale, sino al caso limite di due anni per riuscire a fare una mammografia. Secondo uno studio dell’Istat[10], durante l’emergenza sanitaria, la quota di persone che hanno rinunciato a prestazioni sanitarie ritenute necessarie era quasi raddoppiata, passando dal 6,3% nel 2019 al 9,6% nel 2020, sino all’l’11,1% nel 2021.
Se facciamo invece riferimento alla dinamica demografica (riproduzione biologica), le nuove previsioni sul futuro demografico del Paese, aggiornate al 2021, confermano la presenza di un potenziale quadro di crisi[11]. La popolazione residente è in decrescita: da 59,2 milioni al 1° gennaio 2021 a 57,9 milioni nel 2030, a 54,2 milioni nel 2050 fino a 47,7 milioni nel 2070. Il rapporto tra individui in età lavorativa (15-64 anni) e non (0-14 e 65 anni e più) passerà da circa tre a due nel 2021 a circa uno a uno nel 2050. La popolazione di 65 anni e più oggi rappresenta il 23,5% del totale, quella fino a 14 anni di età il 12,9%, quella nella fascia 15-64 anni il 63,6% mentre l’età media si è avvicinata al traguardo dei 46 anni. Di fatto, la popolazione del Paese è già ben dentro una fase accentuata e prolungata di invecchiamento. Dalle prospettive future scaturisce un’amplificazione di tale processo, perlopiù governato dall’attuale articolazione per età della popolazione e, solo in parte minore, dai cambiamenti immaginati circa l’evoluzione della fecondità, della mortalità e delle dinamiche migratorie, in base a un rapporto di importanza, all’incirca, di due terzi e un terzo rispettivamente. Entro il 2050 le persone di 65 anni e più potrebbero rappresentare il 34,9% del totale. L’impatto sulle politiche di protezione sociale sarà importante, dovendo fronteggiare i fabbisogni di una quota crescente di anziani. A favorire tale quadro, concorrono diversi fattori, dalla mancanza di una politica di accoglimenti migratori in grado di compensare, seppure in modo parziale, il decrescente peso dei giovani sino all’incertezza ambientale e l’eccessiva precarietà esistenziale che incide negativamente sui tassi di natalità. Si tratta della manifestazione più eclatante degli effetti della crisi della riproduzione sociale.
Infine, sul lato della riproduzione ambientale la situazione è in ancor più forte degrado. Al perdurare dell’antropizzazione della terra, il suo saccheggio per fini di gentrification, alla crescente organizzazione di grandi eventi con impatto devastante sui territori si aggiungono tutti gli effetti del cambiamento climatico (siccità, inondazioni ecc.) e il perdurare nell’uso dei combustibili fossili. Da circa tre mesi la temperatura superficiale media dei mari e degli oceani della terra è costantemente superiore a quella registrata negli ultimi quattro decenni: 40 anni fa la temperatura media era di ben 1° C inferiore. Un aumento mostruoso, considerando l’energia necessaria per riscaldare l’immensa massa d’acqua composta dai mari e dagli oceani di tutto il nostro pianeta. Inutile far notare, una volta di più, che la temperatura più elevata di mari e oceani ha effetti catastrofici sugli ecosistemi come sull’umanità intera[12].
In conclusione, si può sostenere che la crisi della riproduzione sociale rappresenti la summa delle crisi di fronte alle quali oggi ci troviamo anche poiché rischia di indurre una trasformazione antropologica. Richiama, insomma, l’inquietudine del mantenere la coesione di una società. Se ci manca la vita, se essa viene ricompresa nelle maglie sempre più strette dello sfruttamento neoliberista, attraverso vari passaggi e dispositivi, ci manca anche la resistenza. Resistenza alla flessibilità del capitalismo e alle sue norme ideologiche, essenziali per appropriarsi, in termini economici, della riproduzione sociale, ovvero per legittimare un certo funzionamento sociale e politico. In una società sempre più precaria, che è corollario della crisi della riproduzione sociale e della atomizzazione che tale crisi genera, si può provare l’angoscia che viene dalla «privazione sempre più drastica dei legami e la progressiva apparizione di una incapacità non soltanto nel creare nuovi rapporti ma anche nel mantenere quelli già esistenti»[13].
Vanno dunque reinventate la quotidianità, il senso di prossimità, l’interrelazione materiale e sentimentale con altre e altri. Va scongiurato il rischio di rottura che la crisi della riproduzione sociale trascina con sé per mantenere la coesione della comunità umana e non solo. Ci troviamo di fronte all’immenso problema della «mutazione della sfera del sensibile e dello psichismo collettivo […] e al successivo disanimarsi del corpo»[14], mentre vengono espunti dal discorso politico nuovi-vecchi, eterni, bisogni primari della vita e delle possibilità dell’esistenza (il diritto alla casa, il diritto all’istruzione, il diritto alla salute, il diritto alla pensione, il diritto al reddito), e notiamo, l’iscrizione dei processi biologici in vivo nei rapporti di lavoro.
Siamo in una chiara situazione di disagio (o di fronte a un paradosso), poiché ci troviamo di davanti a un cambio straordinario che ha segnato tutta l’economia politica maschile: nel momento stesso in cui ogni atto della vita umana è inserito in una catena del valore, ovvero produce «valore», ebbene questo valore si volatilizza, perde di riconoscimento e diventa non misurabile.
La disparità tra l’esperienza femminile e la rappresentazione dello sviluppo umano è stata generalmente interpretata come una carenza della donna. «Ma non potrebbe darsi invece che l’incapacità della donna a rientrare nei modelli esistenti della crescita umana sia indice di una carenza di rappresentazione, di una visione monca della condizione umana, dell’omissione di certe verità sulla vita?», scrive Carole Gilligan[15].
Restituirci sguardi reciproci, mutua assistenza, forme di riparazione, libertà e autodeterminazione, forme di incrocio tra pubblico e nuovi modelli auto-organizzati, disponibilità, limitazione delle forme di gerarchia e di egemonia dell’individuo disaffiliato. Questa è la cura collettiva di cui abbiamo bisogno, per iniziare e re-imparare a difendere «un altromondismo biologico»[16], il valore, a modo nostro, della nostra vita.
Note [1] Si veda Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, in Scritti su Rivolta Femminile 1,2,3, Rivolta femminile, Milano 1974, p. 59: «Per la donna vita e senso della vita si sovrappongono continuamente». [2] Rapporto Caritas, La povertà in Italia secondo i dati della rete Caritas. Rapporto statistico nazionale 2023, https://www.caritas.it/wp-content/uploads/sites/2/2023/06/Rapp.-Caritas-2023.qxp_STAMPA_def.pdf. [3] Cfr. Melinda Cooper, La vita come plusvalore. Biotecnologie e capitale al tempo del neoliberismo, ombre corte, Verona 2013; Melinda Cooper e Catherine Waldby, Biolavoro gobale. Corpi e nuova manodopera, DeriveApprodi, Roma 2015 [4] Nancy Fraser, Una genealogia della «dipendenza». Il percorso di una parola chiave del welfare americano (con Linda Gordon), in Nancy Fraser, a cura di, Fortune del femminismo. Dal capitalismo regolato dalla Stato alla crisi neoliberista, ombre corte, Verona 2013, p. 133 [5] Lucia Chistè, Alisa Del Re, Edvige Forti, Oltre il lavoro domestico, il lavoro delle donne tra produzione e riproduzione, ombre corte, Verona 2020 (prima edizione, Feltrinelli, Milano 1979); Cristina Morini, Vite lavorate. Corpi, valore, resistenze al disamore, Manifestolibri, Roma 2022. [6] Myriam Nadaaf, Ukraine dam collapse: what scientists are watching, «Nature» (edizione online), 9 June 2023, https://www.nature.com/articles/d41586-023-01928-8 [7] Maria Luisa Boccia, Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista, Manifestolibri, Roma 2023, p. 19. [8] Si vedano, su Effimera.org, Andrea Fumagalli, La dittatura della finanza e il mercato del gas, https://effimera.org/la-dittatura-della-finanza-e-il-mercato-del-gas-di-andrea-fumagalli/; Andrea Fumagalli, L’accordicchio sul gas di Bruxelles e l’inflazione da profitti https://effimera.org/laccordicchio-sul-gas-di-bruxelles-e-linflazione-da-profitti-di-andrea-fumagalli/; Christian Marazzi, Chi paga l’inflazione da profitti? https://effimera.org/diario-della-crisi-chi-paga-linflazione-da-profitti-di-christian-marazzi/ [9] Carlo Vercellone, Alfonso Giuliani, Francesco Brancaccio, Per una comunalizzazione del pubblico, https://ceriseslacooperative.info/2023/03/31/pour-une-communalisation-du-public/; https://effimera.org/per-una-comunalizzazione-del-pubblico-di-carlo-vercellone-alfonso-giuliani-francesco-brancaccio/ [10] https://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato1678270270.pdf [11] https://www.istat.it/it/files/2022/09/REPORT-PREVISIONI-DEMOGRAFICHE-2021.pdf [12] https://climatereanalyzer.org/clim/sst_daily/ [13] Luc Boltanski, Ève Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano 2014, p. 448-449. [14] Franco Berardi, L’anima al lavoro, DeriveApprodi, Roma 2016, p. 151. [15] Carole Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 9-10. [16] Catherine Malabou, Cosa fare del nostro cervello, Armando editore, Roma 2007, p. 107.
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Pietro Fortuna, Quando non eravamo uomini
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Cristina Morini, giornalista, saggista, ricercatrice indipendente. Fa parte della rete di ricerca, analisi e discussione internazionale «Effimera». È autrice di numerosi testi su donne e lavoro tra cui: La serva serve (DeriveApprodi, 2001), Per amore o per forza (ombre corte, 2010), Vite lavorate (manifestolibri, 2022). Per Machina cura «Il diario della crisi».
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