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Dentro e contro l’università di ceto medio (Prima parte)




Continuando con la «riscoperta» del percorso di ricerca politica di Romano Alquati, intrapreso da DeriveApprodi attraverso la pubblicazione negli ultimi due anni di importanti libri, proponiamo una lettura di Gigi Roggero degli scritti alquatiani sul sapere e sull’università. Sono particolarmente rilevanti i testi degli anni Settanta, sull’incorporamento del sapere sociale nel lavoro vivo e sull’università di ceto medio, analizzata a partire dall’affermazione dell’operaio sociale. Complessivamente comunque, come viene spiegato nel testo, l’industria della formazione, con le sue contraddizioni e potenzialità di conflitto, è stata al centro delle riflessioni e del modello alquatiano anche nei decenni successivi. Pubblichiamo oggi la prima parte dell’articolo.



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Che l’operaietà non sia una questione di mani callose e tute unte di grasso, è già negli anni Cinquanta e Sessanta il presupposto dell’operaismo di Romano Alquati. L’operaio industriale è infatti inteso come «(il proletario) attivatore e innovatore trasversale del macchinario tecnoscientifico e dell’organizzazione razionalizzata mediante tecno-scienza». Questo specifico proletario si è presentato anche con la tuta blu e alla catena di montaggio delle fabbriche taylorizzate, e per un periodo temporalmente circoscritto ha espresso (in Italia e in precedenti cicli di lotte) una potenziale forza di rifiuto e di tendenziale negazione di se stesso. È questo soggetto al centro del «secondo operaismo politico». Una forza del negativo contro il proprio essere forza lavoro, che nella sua ambivalente politicità intrinseca apriva la possibilità non dell’estensione bensì dell’estinzione della condizione proletaria e operaia, dunque della fuoriuscita dalla civiltà capitalistica.

L’esaurimento di quella figura, o meglio della sua forza potenziale e concreta, non ha perciò significato per Alquati la fine dell’operaietà, quanto invece la necessità di interrogarne e ricercarne le nuove forme dentro le mutazioni della composizione di classe. È per questa strada che, negli anni Settanta, il suo percorso di ricerca lo porterà a formulare l’ipotesi dell’operaio sociale, ossia una nuova operaietà che diventava sempre più indipendente dalla manualità e muscolarità. Nell’industrializzazione della società, l’«università di ceto medio» era un luogo baricentrale di formazione del «proletariato intellettuale». Negli anni Ottanta e Novanta, fino ad arrivare alla sua straordinaria e inconclusa modellizzazione della riproduzione della capacità attiva umana[1], università, formazione e proletariato di ceto medio saranno nodi fondamentali del percorso di ricerca ed elaborazione di Alquati.

Questo percorso, sarà bene dirlo subito, ha sempre avuto come macro-fine non descrivere il funzionamento della civiltà capitalistica, ma al contrario opporsi al suo funzionamento e fuoriuscirne. Perciò Alquati si è sempre assunto la scommessa dell’anticipazione, non solo dei movimenti del capitale, ma innanzitutto dei movimenti soggettivi di classe potenzialmente antagonisti. Analizzando la sua biografia politica diceva: «Avevo una certa coscienza del rischio di ripercorrere per inerzia soggettiva e ulteriore carenza di conoscenza certe vecchie strade, e magari d’illudermi sull’emergere di una nuova avanguardia di massa che facesse precipitare di nuovo tutto quanto intorno a sé e ai propri movimenti e interessi»[2]. Senza l’assunzione di questo rischio, non vi è ricerca politica, e non vi è politica rivoluzionaria. Perché o il militante arriva prima, rischiando di sbagliare, oppure non arriva proprio, con la certezza dell’inutilità.


Il sapere è una merce

Lo slogan ampiamente circolante nei movimenti studenteschi e universitari, «il sapere non è una merce», è tanto retoricamente efficace quanto storicamente falso. Il capitalismo, infatti, nasce mercificando il sapere e la conoscenza proletaria. Non comprenderlo significa pensare la proletarizzazione solo in termini di pauperizzazione economica, senza capire che l’impoverimento prodotto dal capitalismo è innanzitutto quello della capacità attiva umana. Ciò avviene attraverso la mercificazione e separazione della conoscenza calda, che cioè appartiene al corpo dell’agente umano, da quella fredda, che appartiene ai mezzi combinati con l’agente umano. L’obiettivo della lotta, allora, non è la difesa del sapere, ma la sua demercificazione.

Rispetto ad Alquati la sinistra è invece schierata su posizioni opposte – su questa come su tante altre questioni, potremmo dire tutte quelle dirimenti. Da qui deriva, in particolare nell’intellettualità di sinistra, una mitologia della cultura esplicita, soprattutto umanistica, la cui genealogia in Italia affonda le proprie radici nell’idealismo e va da De Sanctis a Croce fino a Gramsci. È ciò che Alquati chiamerà «culturalismo», uno sfoggio e ostentato consumo delle conoscenze (merci) legate alla filosofia, alla storia, all’arte e alla letteratura, un tarlo che non mancherà di criticare anche all’interno dell’esperienze operaista. D’altro canto, la rottura con la sinistra non è solo una questione di opzioni politiche, bensì di scelte e forme di vita: è la rottura con l’elogio del pianto e della vittimità, con la riduzione della soggettività operaia e proletaria a vuota icona da contemplare, con i cantori della sconfitta di classe come trampolino di lancio delle loro vittorie individuali.

Non è un caso, dunque, che l’intellettualità di sinistra non abbia compreso, o non abbia voluto comprendere, le trasformazioni della produzione di conoscenza, dell’organizzazione della ricerca e dello stesso ruolo dell’intellettuale. Nel momento in cui viene meno la separatezza tra intellettualità e organizzazione industriale del lavoro, come vedremo sulla spinta del rapporto tra lotte autonome e ristrutturazione capitalistica, a sinistra domina un proclamato amore per l’artigianato: «Io vedo in questo amore una rinuncia, un riflusso regressivo rispetto all’incapacità di saltare oltre e di vedersela con i problemi “politici” che la produzione industriale (da sinistra) della conoscenza pone alle forze soggettive e all’avanguardia». L’artigianato è al contrario un’imposizione, «una condizione di povertà, di inefficacia, di marginalizzazione, che abbiamo patito e subito senza nessun entusiasmo»[3]. Vi è, in questo amore, l’illusione di demercificare per l’ambigua via individualistica del primitivo, ovvero la perversa identificazione tra un passato di povertà pre-capitalistica e una romantica utopia di liberazione dal capitalismo. Portata spesso avanti, tra l’altro, da figure che tentano di collocarsi in posizioni piuttosto rilevanti nell’industria capitalistica, da cui possono proiettare le proprie mitologie e retoriche su altri per soddisfare i propri bisogni ideologici e le esigenze pratiche di conferma dei ruoli.

Il problema, infatti, è che nel processo di produzione della conoscenza (artigianesco o industriale che sia) i proletari non entrano mai nella ricerca come soggetti e tantomeno come soggetti politici; sono al contrario interpellati come oggetti da studiare o esibire, nella riproduzione di una separatezza dei ruoli tesa a confermare e rafforzare la funzione dell’intellettuale in quanto esperto e monopolista della cultura e del sapere. Il punto da cui era partito Alquati nelle esperienze di conricerca nelle fabbriche e approfondito in quelle sull’università, è che quello del ricercatore è sempre meno un mestiere e sempre più «un lavoro parziale e svuotato di senso come ogni altro [...] è un merdoso lavoro come ogni altro»: come proletari della ricerca, allora, si può tentare «di usarne la sua eventuale produttività rovesciandola in risorsa per la lotta»[4].


Nel segreto laboratorio della produzione di conoscenza

Dire che sapere e conoscenza sono da sempre mercificati, tuttavia, non significa affermare che lo siano sempre nello stesso modo: si profila infatti una baricentralità di queste merci che Alquati anticipa fin dagli anni Settanta. E non significa, soprattutto, sostenere che tutte le merci siano uguali: ci sono delle peculiarità e specifiche ambivalenze della merce-sapere che bisogna cogliere nel loro sviluppo storicamente determinato. Alquati lo fa in particolare in due testi: uno è più noto, si tratta del fascicolo speciale del n. 154 di «Aut Aut» dal titolo L’università e la formazione. L’incorporamento del sapere sociale nel lavoro vivo (1976); l’altro è meno noto, ma forse ancora più importante, Università di ceto medio e proletariato intellettuale (1978, scritto insieme a Nicola Negri e Andrea Sormano); qui approfondisce le note del n. 154 sviluppando il percorso del gruppo di ricerca operante nella facoltà di Scienze politiche di Torino.

Alla base delle trasformazioni dell’università analizzate in questi testi c’è, ovviamente, la ribellione degli studenti del ’68. Già in quegli anni, a differenza di altri operaisti e dei gruppi politici, Alquati criticava la processione degli studenti verso le fabbriche, alla ricerca di una palingenesi sociale che determinava l’abbandono politico di un’università che si stava fabbrichizzando, dischiudendo nuove ambivalenze. Il termine ambivalenza, centrale nel lessico alquatiano, non va affatto inteso come esistenza ipotetica o debole di due facce della stessa medaglia; bisogna invece intenderlo in senso forte, come incarnazione e soggettivazione di una contraddizione specifica del rapporto sociale capitalistico, che si ridetermina di fase in fase a seconda dei rapporti di forza tra le macro-parti antagoniste. Indica quindi possibilità concrete di conflitto, di controsoggettivazione, di potenziale rottura.

Queste analisi si collocano in una fase di transizione: l’università non è più esclusivamente luogo di riproduzione della classe dirigente, ma tenta di selezionare una nuova aristocrazia di lavoratori «in buona parte definibile in termini politici [...] come lavoro che si scambia col capitalista in quanto soggetto politico, come forza-lavoro improduttiva che lavora al servizio del padrone in funzioni che si caratterizzano sempre di più (all’interno della trasformazione delle imprese e delle istituzioni riproduttive e di governo della forza-lavoro complessiva, cioè in conseguenza della ristrutturazione) come funzioni direttamente e scopertamente “politiche”, cioè di potere, di comando capitalistico»[5]. Questo progetto capitalistico, tuttavia, è appunto denso di contraddizioni che rendono del tutto aperta quella fase di transizione. Viene ad esempio messo in crisi il sistema delle separatezze con cui è stata governata la conoscenza, che ora è in parte riappropriata dagli studenti in quanto soggetto sociale e lavorativo per essere utilizzata come strumento di trasformazione. Soprattutto, è peculiarmente contraddittorio e ambivalente il processo di incorporamento nel lavoro vivo della scienza e del sapere sociale generale: da una parte, i padroni vedono nella formazione la necessità di rilanciare la sua funzione, cioè quella «di creare la disponibilità politica del lavoratore collettivo allo sfruttamento e al dominio capitalistico»; dall’altra parte, la formazione «può e deve essere lo strumento con cui la classe operaia valorizza se stessa come soggetto politico autonomo e intenzionalmente alternativo»[6]. Su questo terreno si registra la grande arretratezza delle forze soggettive, in particolare del movimento operaio organizzato. Nell’appuntare la contraddizione tra la socializzazione della scienza nel suo incorporamento nel lavoro vivo e l’università così com’è, Alquati sviluppa in un nuovo ambito la contraddizione già individuata nei percorsi di conricerca alla Fiat e all’Olivetti tra la socializzazione del processo produttivo e la funzione esclusivamente politica della gerarchia capitalistica.

Al contempo, l’università è una cerniera tra fabbrica, società e Stato dentro un processo di ristrutturazione e razionalizzazione capitalistica che non si limita alla produzione e gestione del plusvalore, ma ha come principale obiettivo disarticolare la precedente ricomposizione di classe. Dunque, «la ristrutturazione è un processo politico che agisce innanzitutto modificando la base strutturale dello scambio fra lavoro vivo e lavoro morto nella valorizzazione e nell’innovazione»[7]. Specificamente in un paese come l’Italia, infatti, le lotte degli anni Sessanta avevano consentito un accumulo di forza da parte della classe operaia tale da renderla una minaccia per gli equilibri politici del sistema internazionale. La razionalizzazione deve quindi investire in modo prioritario nella cerniera tra produzione e riproduzione: l’innovazione (che da allora si imporrà come parola-chiave della controrivoluzione capitalistica) crea un nuovo modo di collegare la fabbrica e la società, ovvero la fabbrichizzazione della società.

In quello snodo particolare il processo di innovazione, innanzitutto organizzativa, come risposta diretta e offensiva alle lotte, tesa a consentire un salto in avanti del sistema capitalistico, deve rispondere alla domanda degli studenti di un’istruzione universitaria che consenta una loro autovalorizzazione e sia adeguata alle trasformazioni del territorio sociale. La messa in discussione e parziale rottura della cultura separata della vecchia università di élite, determinata dalle lotte e dai movimenti studenteschi e operai, viene quindi curvata e messa a valore dalla controparte in un progetto di ristrutturazione e integrazione complessiva del rapporto tra fabbrica, società e Stato, utilizzando la funzione cerniera della nuova università di ceto medio. Del resto, gli imprenditori chiamano formazione «un’attività politica per loro importantissima [...] consistente genericamente e soprattutto nell’integrare e sviluppare la funzione di una serie di istituzioni riproduttive, [funzioni che la società borghese esercitava prima a sua volta egregiamente e ora, non si sa perché a loro volta non svolgono più (soprattutto la famiglia)], di manipolare in vari modi la soggettività dei lavoratori affinché essi fossero disponibili a dare alle imprese direttamente ed indirettamente (come lavoratori e come cittadini) tutto ciò che le imprese richiedevano loro ai fini dell’accumulazione capitalistica. È questa funzione politica che essi vorrebbero rilanciare, riprodurre e anche rifondare»[8]. Vi è poi la formazione in senso stretto, «quella parte centrale della valorizzazione in cui essa appare il risultato peculiare dell’incorporamento nel lavoro vivo, nella capacità lavorativa vivente, del sapere sociale. Ciò è proprio del sistema scolastico ma non ne è esclusivo»[9]. Dentro questa contraddittoria transizione, l’impresa cerca di controllare e contenere il potenziale esplosivo di ricerca di autonomia del lavoro vivo, attraverso un assorbimento differenziato e gerarchizzato di un’eccedenza espansiva di laureati. Qui, allora, si giocava uno scontro strategico sulle tendenze di medio-lungo periodo, che troppo poco le forze soggettive antagoniste – perlopiù ancorate a modelli superati o non più propulsivi della lotta e organizzazione di classe – seppero vedere, anticipare, agire.


Ceto medio in crisi di mediazione

Se terziarizzazione e proletarizzazione fino agli anni Sessanta erano ritenute dinamiche contrapposte, già nel decennio successivo tendono a combinarsi, e nel farlo si trasformano. «Il nuovo ceto medio proletarizzato è in realtà il nuovo proletariato»[10]: questa intuizione verrà articolata nel percorso successivo, fino ad arrivare alla sua piena elaborazione nel testo sulla riproduzione all’inizio del nuovo millennio. Ciò coinvolge in modo diretto e decisivo l’università e la sua funzione, tanto da poter parlare di università di ceto medio.

Quello di ceto medio non è un concetto meramente sociologico, riducibile cioè alla collocazione dentro la tassonomia della stratificazione sociale. Il ceto medio è invece un concetto innanzitutto politico: definisce infatti non solo coloro che occupano una posizione sociale intermedia tra proletari e capitalisti, ma individua quel soggetto che svolge una funzione di mediazione, ovvero fa «da diga protettiva al blocco capitalistico contro la solida forza d’attacco della classe operaia»[11]. Si tratta allora di un soggetto storicamente determinato, la cui ampiezza, rilevanza e consistenza dipendono dai rapporti di forza tra le classi: «La mia tesi è che nei momenti di forte tensione sociale il “ceto medio” può anche sentire l’attrazione dell’ascesa politica della classe operaia nella fase ascendente del suo ciclo di lotte, e allora si polarizza all’interno. E questo è particolarmente vero per il ciclo di lotta dal quale siamo usciti, e anche di quello transitorio nel quale siamo entrati. Il “ceto medio” si è polarizzato e una parte consistente si è spostata verso il blocco politico della classe operaia, e vi è rimasta. E la conseguenza molto importante è che la stabilizzazione si è ridotta moltissimo, la diga si è ridotta e tiene pochissimo e anche la mediazione è in forte difficoltà. Tuttora. E proprio per questo parliamo di “ceto medio in crisi di mediazione”»[12]. Dunque, i cambiamenti sociali analizzati nel libro «possono anche essere interpretati come tentativi di riprodurre e riqualificare un ceto mediatore e stabilizzatore da parte della classe capitalistica: promuovendo nuovi lavoratori intermedi e rilanciando momenti vecchi e nuovi di lavoro improduttivo mediante la rendita, di cui la tregua ha ricostituito disponibilità per i bisogni politici del padrone. Ma la polarizzazione sembra funzionare con forza maggiore proprio fra i nuovi strati intermedi portandone una quota ancora maggiore verso il blocco della classe operaia: come suoi alleati, ma anche come sue parti integranti e “forze motrici” della sua ricomposizione. E proprio questa è una delle contraddizioni che la trasformazione recente del sistema capitalistico italiano ha riprodotto in modo allargato contro il dominio del capitale. E proprio in questa riproduzione allargata, e nella crisi di mediazione del ceto medio, viene a trovarsi come momento determinante l’Università che il ceto medio in crisi ha invaso polarizzandosi e valorizzandosi autonomamente: l’“Università di ceto medio, in crisi di stabilizzazione e di mediazione”»[13].

L’università di ceto medio, come abbiamo fin qui visto, è il prodotto di transizione determinato da molteplici variabili forti, in parte convergenti e in parte contrapposte: la fuga dalle fabbriche dei giovani proletari, alla ricerca di autovalorizzazione nelle scuole e nelle università; i nuovi bisogni e le domande dei figli del vecchio ceto medio, in particolare impiegatizio; l’esigenza di razionalizzazione e innovazione organizzativa del capitale, come contenimento e recupero in avanti del ciclo di lotte dell’operaio massa e dei movimenti del ’68. In questo recupero la classe capitalistica aggredisce la forza-lavoro intellettuale, per impedirne la potenziale ricomposizione con le altre figure proletarie e operaie, mettendo però al contempo in crisi un secolare sistema di alleanze che aveva portato alla costruzione di quella specifica funzione di mediazione e diga. L’attacco alla forza-lavoro intellettuale induce però una crisi di consenso nei ceti medi, aprendo una fase di temporanea destabilizzazione: se non viene forzata e agita soggettivamente dal punto di vista antagonista, dopo aver battuto definitivamente la spinta operaia e contenuto le domande eccedenti degli studenti-lavoratori, la classe capitalistica potrà ricostruire nuovi solidi elementi di mediazione e diga. È la storia successiva, fino alla crisi odierna. Perciò Alquati sottolinea come non sia possibile vincere, o almeno piegare quella fase di transizione a vantaggio della classe-parte, senza un processo di organizzazione della forza-lavoro intellettuale, così come senza una capacità di intervento forte in quella cerniera politica che è l’università. Resterà questa la sua indicazione nei decenni a seguire.



Note [1] Per un’introduzione ad Alquati si veda F. Bedani – F. Ioannilli, a cura di, Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, DeriveApprodi, Roma 2020. Per la sua ultima, inconclusa, ricerca si veda R. Alquati, Sulla riproduzione della capacità umana vivente. L’industrializzazione della soggettività, DeriveApprodi, Roma 2021. [2] Intervista a Romano Alquati, in G. Borio – F. Pozzi – G. Roggero, Futuro anteriore. Dai «Quaderni rossi» ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2002. [3] R. Alquati, Osservazioni su cultura, memoria, storia, in «Ombre rosse», febbraio 1979, p. 62. L’articolo è disponibile su «Machina» al seguente link: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/osservazioni-su-cultura-teoria-storia. [4] Ivi, p. 60. [5] R. Alquati, L’Università e la formazione. L’incorporamento del sapere sociale nel lavoro vivo, «aut aut», n. 154, luglio-agosto 1976, pp. 56-57. [6] Ivi, p. 57. [7] Ivi, p. 62. [8] Ivi, pp. 54-55. [9] Ivi, p. 56. [10] Ivi, p. 68. [11] R. Alquati, Università di ceto medio e proletariato intellettuale, Stampatori, Torino 1978, p. 76. [12] Ivi, pp. 76-77. [13] Ivi, p. 77.



Immagine: Cremona, Romano Alquati (al centro) con amici sconosciuti. Foto s.d. di sconosciuto.

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