Mario Tronti «postumo»

È molto più di una recensione l'articolo che pubblichiamo oggi. Sì, perché Adelino Zanini, a partire da Il proprio tempo appreso con il pensiero. Scritto politico postumo (Il Saggiatore, 2025), raccoglie, sviluppa, mette in tensione gli inviti alla riflessione che Mario Tronti dissemina nel libro, una storia politica del Novecento, secolo tutt'altro che «breve».
Se, usando Tronti, «non c’è organizzazione di una politica rivoluzionaria senza la coltivazione del tragico nella storia», il tragico, ci dice Zanini, «deve portare pur sempre con sé una forzatura soggettiva, di parte». E le riflessioni trontiane continuano ad essere un buon «amico» in questo percorso.
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Il «bal… - balbettare» che apre lo scritto politico postumo di Mario Tronti è solo apparente, perché chiarissime sono le due premesse maggiori che lo introducono: metodologica, l’una, argomentativa, l’altra. La prima: «(…) pensare la storia senza fare filosofia della storia vuol dire pensare politicamente la storia. Vuol dire decidere e dichiarare di volerla pensare da un punto di vista politico di parte. (…) L’umanità non è una. Ce ne sono almeno due: chi sta sotto e chi sta sopra». La seconda premessa: «‘89-‘91 del Novecento: due date con cui i conti non sono stati fatti. A trent’anni di distanza, si può misurare quanto pesi sull’oggi questa assenza di riflessione». Queste due premesse si comprendono, ovviamente, ripercorrendo in breve alcuni passaggi chiave. Riproposti i quali, le interrogazioni ultime e inattuali (in senso nietzscheano «postume») alle premesse debbono fare ritorno.
Un primo punto di riflessione è quello che si ricava dal ragionare di Tronti sulla prima metà del Novecento nel suo articolarsi. Per lui, va da sé, non si trattò affatto di «secolo breve» che, politicamente, sarebbe iniziato nel 1914. In un certo senso, la morte di Nietzsche («noi, ex materialisti storici», glossa Tronti, dobbiamo ancora abituarci a tenere insieme materialità e spiritualità) dischiude un decennio in cui le avanguardie artistiche, in tutti i campi, anticiperanno e introdurranno quello che stava per accadere e accadrà: la Prima guerra mondiale, «guerra nuda e cruda». La quale «ha prodotto più storia della Seconda», perché non vincolata a una scelta di campo, eticamente obbligata, tra civiltà e barbarico impero del male. In quanto tale, la Seconda fu infatti primo esempio di «guerra umanitaria, contro il nemico assoluto, con tutti gli echi universalistico-medioevali della guerra giusta». Rispetto a tale scelta obbligata, il Movimento operaio si schierò nell’unico modo possibile, dalla parte delle democrazie: la Guerra di Spagna, prima, e la Resistenza, poi, furono vere e proprie scuole per il domani. Dunque: «Qual è il problema? Il problema è che quella parentesi non si è chiusa. È diventata l’intero percorso. (…) Una contingenza è diventata un programma».
Quella di Tronti non è tarda parola d’ordine gauchiste, quella della Resistenza tradita, per intenderci. È molto più misuratamente ambiziosa. Infatti, serve a introdurre quella che, in Italia, nello specifico, fu per lui la vera e unica stagione del compromesso storico (seconda metà degli anni Quaranta), realizzatosi con la Carta costituzionale repubblicana e concretamente prodottosi nel confronto, durante gli anni della Guerra fredda, tra reciproche motivazioni reali, ma anche ideali, tra un producentesi articolato sistema di potere democristiano e una crescente egemonia culturale comunista. Di qui avrebbe avuto inizio un’altra storia italiana, da intendersi, certamente, in relazione agli avvenimenti mondiali. A detta di Tronti, «il PCI resse bene alla tempesta del ‘56», in particolare. Le cose iniziarono però a mutare con il montare della «brezza del ‘68»: scomparso Togliatti, nonostante la tenuta del gruppo dirigente e il «carisma di Berlinguer», attore di una «ultima sintesi», a profilarsi sarà infatti «un’altra storia».
E qui si incontra un passaggio, alquanto problematico, nel momento in cui Tronti legge il rapporto tra le intenzioni politiche di Moro e di Berlinguer. Entrambi, consapevoli che la posta in gioco erano «le promesse e le speranze dell’immediato dopoguerra, cercavano realisticamente vie di realizzazione di un capitalismo e di un socialismo capaci ambedue di presentare al mondo un volto umano». Forse non più possibili, perché erano mutate le due componenti popolari di base e, soprattutto, i modi della loro rappresentazione – Tronti lo ammette. E, tuttavia, una visione vi sarebbe stata, una trattenuta, blochiana utopia concreta, che avrebbe permesso di offrire ancora «un orizzonte allo sguardo della politica». Ciò non accadde, perché, a fronte delle mutazioni frutto dell’impetuoso processo di modernizzazione del paese, DC e PCI avrebbero dovuto ripensare se stessi, ma non lo fecero.
Che dire? Siamo a fronte del consueto buco nero trontiano: un intero decennio e più, 1968-1978, il lungo ’68 italiano, è interamente rimosso o, meglio, inteso come mera modernizzazione (capitalistica, va da sé): una rivolta generazionale, che non poteva divenire rivoluzione e «divenne autoreferenziale eversione». Tronti ci aveva già abituati a questo giudizio, non poteva che ribadirlo – e noi non possiamo che ribadire un dissenso, per quello che vale. Però, non possiamo non dire anche che la parte della parte che degli anni ’70 fu una degli interpreti (« I'm not trying to cause a big sensation... I'm just talkin' 'bout my generation…») avrebbe dovuto ripensare davvero la propria esperienza (al di là del dire «oggi la situazione è cambiata, quindi …»), con autentico spirito spinoziano: «Non ridere, non lugere neque detestari sed intelligere». Così non è stato.
Gli anni Ottanta avrebbero comunque chiuso la partita. Vero. Ma il come vi si giunse non è indifferente: anzitutto, per i secoli di galera comminati e scontati dai molti «modernizzati» e dalle molte «modernizzate»; quindi, per il prendere forma di una situazione che sarebbe stata poi quella che abbiamo conosciuto e in cui ogni espressione di dissenso radicale sarebbe stata stigmatizzata. In entrambi i casi, con il plauso e l’impegno entusiasta del partito a cui anche Tronti apparteneva. Come stupirsi, allora, se gli anni Novanta saranno gli anni della «grande illusione» delle sinistre europee, che mirarono a entrare nel salotto buono «come affidabili gestori dell’abitato, per migliorarlo dicevano, di fatto per conservarlo»?
Se possibile, questo maelstrom fu però non più che un annesso di una trasformazione molto più ampia, venuta a termine durante quello che Tronti definisce il biennio bianco, 1989-1991, che ancora abbisognerebbe di una lettura di parte che non c’è stata e che potrebbe esserci solo cogliendo adeguatamente il rapporto conflittuale tra politica e storia. 1991: «il crollo dell’Unione Sovietica come la più grande catastrofe politica del Novecento». L’affermazione è secca. Certo, non si può pretendere che Tronti ragioni qui a fondo sul fallimento del sacro esperimento divenuto profano, rispetto cui tutto o quasi è stato detto. Gli basta il dire «io voglio salvare la Rivoluzione d’Ottobre dalle sorti del socialismo realizzato», senza minimizzare errori e crimini.
Né ci si può stupire che invochi a paragone la triade Messia/Croce/Resurrezione; perché con ciò intende asserire qualcosa di molto rilevante, ossia che «non c’è organizzazione di una politica rivoluzionaria senza la coltivazione del tragico nella storia». Poi, il tornare alle ragioni soggettive del perché in Occidente la partita rivoluzionaria risultasse segnata già negli anni Venti (e sul come questo, di concerto con la reazione internazionale, creasse le premesse dell’incrinarsi del sacro esperimento) significa riaprire il vaso di Pandora della socialdemocrazia. Credo tuttavia non aiuti insistere sull’alternativa, allora come oggi, tra «volontà di superamento» e «opportunismo di comportamento». In ogni caso, lungo questo tragitto, non si va molto lontano senza ritrovarsi a calpestare, prima o poi, sentieri già molte volte percorsi, seppur questo tornare alle ragioni soggettive risulti legittimo «in connessione sentimentale» con il proprio «passato di vita, non solo politica, piuttosto vita generalmente umana, fatta di concreto pensiero vissuto». Senza Linksmelancholie alcuna, certamente; piuttosto, con il pessimismo della ragione, perché: «Tutto è compiuto».
In un quarantennio – tra gli Ottanta del ‘900 e oggi – si è «prodotto un guasto antropologico profondo, individuale e di massa». Sulle orme di Keynes, qualcuno dovrebbe scrivere oggi «Le conseguenze antropologiche della pace», perché siamo a fronte – scrive Tronti – «di un’emergenziale questione antropologica. Un problema a metà tra natura e storia». Il problema è la democrazia contemporanea: già moderna sostanza aporetica, con il separarsi di demos e kratos (lo Schumpeter americano lo aveva ben compreso a inizio anni Quaranta), «il potere democratico genera opposizione populista», perché «non c’è più legittimazione della sua autorità». Kantianamente, la libertà come indipendenza (Unabhängigkeit) non corrisponde a libertà intesa come autonomia.
Per questo, osserva Tronti, la «risorsa autorità», senza timore alcuno, andrebbe riconsiderata dentro/contro l’individualità demagogica, l’eclissi del pubblico, la crisi della politica, ricostruendo «il ponte di comando politico». L’autoritarismo della «personalità democratica», per essere battuto, richiede non solo autorevolezza, ma collegialità, il divenire istituzione: «un’aristocrazia intesa come potere dei migliori nell’interesse di tutti». Ma «chi educherà gli educatori?». Corruptio optimi maxima. Il problema si pone, quindi, ma la risposta non c’è; c’è l’esperienza e nel «discorso» trontiano essa non può non reinviare alla dissoluzione della forma novecentesca di partito politico, all’involuzione delle masse da organizzate a informi e, quindi, ancora una volta, alla «croce» del pensiero politico moderno: la bürgerliche Gesellschaft hegeliana, la diade bourgeois/citoyen. Il cerchio però non può chiudersi senza fare i conti col fatto che «la realtà è il cerchio dell’eterno ritorno e la linea evolutiva è l’apparenza».
Nelle pagine finali del testo, il pensiero di Tronti si svolge in una serie di impromptus su temi classici sui quali molto egli ha scritto; amplissime sono le citazioni, letterarie e teologiche. Il fatto è che per immaginare un’auspicata metanoia collettiva, un capovolgimento/trasvalutazione dei valori correnti, si inciampa nel rapporto tra autorità (autorevole) e potere, rispetto cui il richiamo all’esempio della kénosis dell’incarnazione, allo «svuotarsi» della maestà divina, lascia letteralmente senza «parola». Del resto, se il nostro è «un tempo chiuso, non in apparenza, ma di fatto concluso», che altro resta se non il kojèveano «simulare»? Simulare, ossia «rappresentare un obiettivo, non rispondente al dato di realtà ma teso a rovesciare quel dato», avendo presente che mentre la rivolta accade, la rivoluzione deve accadere. Perché, se le parole sono ormai stanche, in una «tensione creativa» tra Città e Tempio, tra Secolo e Sacro, occorre «credere malgrado»… la nottola di Minerva…
Per questa ragione, l’adagio hegeliano che dà il titolo al libro forse non dice tutto o, forse, dietro a esso l’autore un po’ si mimetizza. Infatti – e Tronti lo sapeva meglio di ogni altro –, l’espressione hegeliana conduce a dire che qualora l’individuo si costruisca un mondo così come dev’essere (wie sie sein soll), allora questo mondo esiste, sì, ma solo nella sua opinione/intenzione (Meinen). Il Bloch richiamato da Tronti si situa bene in questo spazio; meno, apparentemente, il dire: «non c’è organizzazione di una politica rivoluzionaria senza la coltivazione del tragico nella storia». Solo apparentemente, però, perché dietro a un Cristo militante vi è un «monachesimo combattente», appunto, una tensione creativa, che conserva la «visione della fine dei tempi immettendola nella temperie della contingenza storica». Eschaton e katéchon vanno pensati e agiti in quanto complementari, al pari di rivoluzione e riforme.
Le parole sono stanche, non più «battenti» come nel 1966, ma «ancora combattenti», afferma Tronti. Il cammino è divenuto talmente accidentato da essere impercorribile, ma non si può non percorrerlo. Insomma, il tragico deve portare pur sempre con sé una forzatura soggettiva, di parte. Quant’essa sia politicamente definibile, tra la memoria di un’aristocrazia operaia che fu e un «odio di classe» in assenza di classi organizzate, è questione piuttosto ardua da comprendersi e non può che risolversi col muovere da una memoria del passato, con sguardo benjaminiano, «per tentare ancora di conquistarsi un nuovo avvenire», con il futuro alle spalle. Del resto, il Tronti «postumo» non poteva non essere quello che egli è stato, lungo un «accidentato percorso di matta e disperatissima ricerca – operaismo, autonomia del politico, teologia politica, spiritualità e politica, grande pensiero conservatore, urlo di profezia, concretezza di utopia e persino monachesimo combattente (…)». Apprendere il proprio tempo con il pensiero significa perciò il dovere di capire, intanto. Dentro un partito che egli ha voluto intendere come parte sin che ha potuto e oltre, forzando anche il palese senso comune, ben al di là dell’«ultima sintesi» berlingueriana? Così è stato. Per trattenere un ormai disperato senso di comunità? Non solo. Nella trontiana «follia della croce» c’era del metodo.
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Adelino Zanini insegna Filosofia politica e Storia del pensiero economico all'Università politecnica delle Marche. Autore di numerose opere, tra cui Filosofia economica (Bollati Boringhieri, 2005) Principi e forme delle scienze sociali e Ordoliberalismo (Il Mulino, 2013 e 2022). Il suo dialogo con Mario Tronti La politica al tramonto è uno dei testi che compone Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio (MachinaLibro, 2024).
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