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Da Adamo a Cristo

Mario Tronti «postumo»

 

Vyacheslav Akhunov, Red Mantra CCCP. We will reach the victory of the Communist labor 1979. Courtesy Laura Bulian Gallery, Milano.jpg
Vyacheslav Akhunov, Red Mantra CCCP. We will reach the victory of the Communist labor 1979. Courtesy Laura Bulian Gallery, Milano

È molto più di una recensione l'articolo che pubblichiamo oggi. Sì, perché Adelino Zanini, a partire da Il proprio tempo appreso con il pensiero. Scritto politico postumo (Il Saggiatore, 2025), raccoglie, sviluppa, mette in tensione gli inviti alla riflessione che Mario Tronti dissemina nel libro, una storia politica del Novecento, secolo tutt'altro che «breve».

Se, usando Tronti, «non c’è orga­nizza­zione di una politica rivoluzionaria senza la coltivazione del tragico nella sto­ria», il tragico, ci dice Zanini, «deve por­tare pur sempre con sé una forzatura soggettiva, di parte». E le riflessioni trontiane continuano ad essere un buon «amico» in questo percorso.


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Il «bal… - balbettare» che apre lo scritto politico postumo di Mario Tronti è solo apparente, perché chiarissime sono le due premesse maggiori che lo introducono: me­todologica, l’una, argomentativa, l’altra. La prima: «(…) pensare la storia senza fare filosofia della storia vuol dire pensare politicamente la storia. Vuol dire decidere e dichiarare di volerla pensare da un punto di vista politico di parte. (…) L’umanità non è una. Ce ne sono almeno due: chi sta sotto e chi sta sopra». La seconda premessa: «‘89-‘91 del Novecento: due date con cui i conti non sono stati fatti. A trent’anni di distanza, si può misurare quanto pesi sull’oggi questa assenza di riflessione». Queste due premesse si comprendono, ovviamente, ripercorrendo in breve alcuni passaggi chiave. Riproposti i quali, le interrogazioni ultime e inattuali (in senso nietzscheano «po­stume») alle premesse debbono fare ritorno.

Un primo punto di riflessione è quello che si ricava dal ragionare di Tronti sulla prima metà del Novecento nel suo articolarsi. Per lui, va da sé, non si trattò affatto di «secolo breve» che, politicamente, sarebbe iniziato nel 1914. In un certo senso, la morte di Nietzsche («noi, ex ma­terialisti storici», glossa Tronti, dobbiamo ancora abi­tuarci a tenere insieme materialità e spiritualità) dischiude un decennio in cui le avan­guardie artistiche, in tutti i campi, anticiperanno e introdurranno quello che stava per accadere e accadrà: la Prima guerra mondiale, «guerra nuda e cruda». La quale «ha prodotto più storia della Seconda», perché non vincolata a una scelta di campo, etica­mente obbli­gata, tra civiltà e barbarico impero del male. In quanto tale, la Seconda fu infatti primo esempio di «guerra umanitaria, contro il nemico assoluto, con tutti gli echi universalistico-medioevali della guerra giusta». Rispetto a tale scelta obbligata, il Mo­vimento operaio si schierò nell’unico modo possibile, dalla parte delle democra­zie: la Guerra di Spagna, prima, e la Resi­stenza, poi, furono vere e proprie scuole per il do­mani. Dunque: «Qual è il pro­blema? Il problema è che quella parentesi non si è chiusa. È diventata l’intero percorso. (…) Una contingenza è diven­tata un pro­gramma».

Quella di Tronti non è tarda parola d’ordine gauchiste, quella della Resistenza tra­dita, per intenderci. È molto più misuratamente ambi­ziosa. Infatti, serve a intro­durre quella che, in Italia, nello specifico, fu per lui la vera e unica stagione del com­promesso storico (seconda metà degli anni Quaranta), realizzatosi con la Carta costitu­zionale repubblicana e concreta­mente prodottosi nel confronto, durante gli anni della Guerra fredda, tra reciproche motiva­zioni reali, ma anche ideali, tra un producentesi articolato sistema di potere de­mocri­stiano e una crescente egemonia culturale comunista. Di qui avrebbe avuto inizio un’altra storia italiana, da intendersi, certamente, in relazione agli avveni­menti mondiali. A detta di Tronti, «il PCI resse bene alla tempesta del ‘56», in partico­lare. Le cose ini­ziarono però a mutare con il montare della «brezza del ‘68»: scomparso Togliatti, no­nostante la tenuta del gruppo dirigente e il «carisma di Berlin­guer», attore di una «ul­tima sin­tesi», a profilarsi sarà infatti «un’altra storia».

E qui si incontra un passaggio, alquanto problematico, nel momento in cui Tronti legge il rapporto tra le intenzioni politiche di Moro e di Berlinguer. En­trambi, consa­pevoli che la posta in gioco erano «le promesse e le speranze dell’imme­diato dopo­guerra, cercavano realisticamente vie di realizzazione di un capitalismo e di un socia­lismo capaci ambedue di presentare al mondo un volto umano». Forse non più possi­bili, perché erano mutate le due componenti popolari di base e, soprattutto, i modi della loro rappresentazione – Tronti lo ammette. E, tuttavia, una visione vi sarebbe stata, una trattenuta, blochiana utopia concreta, che avrebbe permesso di offrire ancora «un oriz­zonte allo sguardo della politica». Ciò non accadde, perché, a fronte delle mutazioni frutto dell’im­petuoso processo di modernizzazione del paese, DC e PCI avrebbero do­vuto ripensare se stessi, ma non lo fecero.

Che dire? Siamo a fronte del consueto buco nero trontiano: un intero decennio e più, 1968-1978, il lungo ’68 italiano, è interamente rimosso o, meglio, inteso come mera modernizzazione (capitalistica, va da sé): una rivolta generazionale, che non po­teva divenire rivoluzione e «divenne autoreferenziale eversione». Tronti ci aveva già abi­tuati a questo giudizio, non poteva che ribadirlo – e noi non possiamo che ribadire un dissenso, per quello che vale. Però, non possiamo non dire anche che la parte della parte che degli anni ’70 fu una degli interpreti (« I'm not trying to cause a big sen­sation... I'm just talkin' 'bout my generation…») avrebbe dovuto ripensare davvero la propria esperienza (al di là del dire «oggi la situazione è cambiata, quindi …»), con autentico spirito spinoziano: «Non ridere, non lugere neque detestari sed intelligere». Così non è stato.

Gli anni Ottanta avrebbero co­munque chiuso la par­tita. Vero. Ma il come vi si giunse non è indifferente: anzitutto, per i secoli di galera com­minati e scontati dai molti «modernizzati» e dalle molte «modernizzate»; quindi, per il prendere forma di una si­tuazione che sarebbe stata poi quella che abbiamo cono­sciuto e in cui ogni espres­sione di dissenso radicale sa­rebbe stata stigmatiz­zata. In entrambi i casi, con il plauso e l’im­pegno entusiasta del partito a cui anche Tronti appar­teneva. Come stupirsi, allora, se gli anni No­vanta saranno gli anni della «grande illu­sione» delle sinistre europee, che mirarono a entrare nel sa­lotto buono «come affidabili gestori dell’abitato, per miglio­rarlo dice­vano, di fatto per conser­varlo»?

Se possibile, questo maelstrom fu però non più che un annesso di una trasforma­zione molto più ampia, venuta a termine durante quello che Tronti definisce il biennio bianco, 1989-1991, che ancora abbisognerebbe di una lettura di parte che non c’è stata e che potrebbe esserci solo cogliendo adeguatamente il rapporto conflittuale tra poli­tica e storia. 1991: «il crollo dell’Unione Sovietica come la più grande catastrofe po­litica del Novecento». L’affermazione è secca. Certo, non si può pretendere che Tronti ragioni qui a fondo sul falli­mento del sacro esperimento divenuto profano, rispetto cui tutto o quasi è stato detto. Gli basta il dire «io voglio salvare la Rivoluzione d’Ot­tobre dalle sorti del sociali­smo realiz­zato», senza minimizzare errori e crimini.

Né ci si può stupire che invochi a paragone la triade Messia/Croce/Resurrezione; perché con ciò intende asserire qualcosa di molto rilevante, ossia che «non c’è orga­nizza­zione di una politica rivoluzionaria senza la coltivazione del tragico nella sto­ria». Poi, il tor­nare alle ragioni soggettive del perché in Occidente la partita rivoluzio­naria risul­tasse segnata già negli anni Venti (e sul come questo, di concerto con la reazione in­ternazio­nale, creasse le premesse dell’incrinarsi del sacro esperimento) si­gnifica ria­prire il vaso di Pandora della socialdemocrazia. Credo tuttavia non aiuti in­sistere sull’alternativa, al­lora come oggi, tra «volontà di superamento» e «opportuni­smo di comportamento». In ogni caso, lungo questo tragitto, non si va molto lontano senza ritrovarsi a calpe­stare, prima o poi, sentieri già molte volte percorsi, seppur que­sto tornare alle ragioni soggettive risulti legittimo «in con­nessione senti­mentale» con il pro­prio «passato di vita, non solo politica, piuttosto vita generalmente umana, fatta di concreto pensiero vis­suto». Senza Linksmelancholie al­cuna, certamente; piut­tosto, con il pessi­mi­smo della ragione, perché: «Tutto è compiuto».

In un quarantennio – tra gli Ottanta del ‘900 e oggi – si è «prodotto un guasto an­tropologico profondo, individuale e di massa». Sulle orme di Keynes, qualcuno do­vrebbe scrivere oggi «Le conseguenze antropologiche della pace», perché siamo a fronte – scrive Tronti – «di un’emergenziale questione antropologica. Un pro­blema a metà tra natura e storia». Il problema è la democrazia contemporanea: già moderna sostanza aporetica, con il separarsi di demos e kratos (lo Schumpeter ameri­cano lo aveva ben compreso a inizio anni Quaranta), «il potere democratico genera opposi­zione populista», perché «non c’è più legittimazione della sua autorità». Kantia­na­mente, la libertà come indipendenza (Unabhängigkeit) non corrisponde a libertà in­tesa come autonomia.

Per questo, osserva Tronti, la «risorsa autorità», senza timore alcuno, andrebbe ri­con­siderata den­tro/contro l’individualità demagogica, l’eclissi del pubblico, la crisi della politica, ri­costruendo «il ponte di comando politico». L’autoritarismo della «per­sona­lità demo­cratica», per essere battuto, richiede non solo autorevolezza, ma colle­gialità, il divenire istituzione: «un’aristocrazia intesa come potere dei migliori nell’in­teresse di tutti». Ma «chi educherà gli educatori?». Corruptio optimi maxima. Il pro­blema si pone, quindi, ma la rispo­sta non c’è; c’è l’esperienza e nel «discorso» tron­tiano essa non può non reinviare alla dissoluzione della forma novecentesca di partito politico, all’in­voluzione delle masse da organizzate a informi e, quindi, ancora una volta, alla «croce» del pen­siero politico moderno: la bürgerli­che Gesellschaft hege­liana, la diade bour­geois/ci­toyen. Il cerchio però non può chiudersi senza fare i conti col fatto che «la realtà è il cerchio dell’eterno ritorno e la linea evolutiva è l’appa­renza».

Nelle pagine finali del testo, il pensiero di Tronti si svolge in una serie di impromp­tus su temi classici sui quali molto egli ha scritto; amplissime sono le citazioni, lette­rarie e teologiche. Il fatto è che per immaginare un’auspicata metanoia collettiva, un capo­volgi­mento/trasvalutazione dei valori correnti, si inciampa nel rapporto tra au­to­rità (autore­vole) e potere, rispetto cui il richiamo all’esempio della kénosis dell’in­car­na­zione, allo «svuotarsi» della maestà divina, lascia letteralmente senza «parola». Del resto, se il nostro è «un tempo chiuso, non in apparenza, ma di fatto concluso», che altro resta se non il kojèveano «simulare»? Simulare, ossia «rappresentare un obiet­tivo, non ri­spondente al dato di realtà ma teso a rovesciare quel dato», avendo presente che mentre la rivolta accade, la rivoluzione deve accadere. Perché, se le parole sono ormai stanche, in una «tensione creativa» tra Città e Tempio, tra Secolo e Sacro, oc­corre «cre­dere mal­grado»… la nottola di Minerva…

Per questa ragione, l’adagio hegeliano che dà il titolo al libro forse non dice tutto o, forse, dietro a esso l’autore un po’ si mimetizza. Infatti – e Tronti lo sapeva meglio di ogni altro –, l’espressione hegeliana conduce a dire che qualora l’individuo si costrui­sca un mondo così come dev’essere (wie sie sein soll), allora questo mondo esiste, sì, ma solo nella sua opinione/intenzione (Meinen). Il Bloch richiamato da Tronti si situa bene in questo spazio; meno, apparentemente, il dire: «non c’è organizza­zione di una politica rivoluzionaria senza la coltivazione del tragico nella storia». Solo apparente­mente, però, perché dietro a un Cristo militante vi è un «monachesimo combattente», appunto, una tensione creativa, che conserva la «visione della fine dei tempi immetten­dola nella temperie della contingenza storica». Eschaton e katéchon vanno pensati e agiti in quanto complementari, al pari di rivolu­zione e riforme.

Le parole sono stanche, non più «battenti» come nel 1966, ma «ancora combat­tenti», afferma Tronti. Il cammino è divenuto talmente accidentato da essere impercor­ribile, ma non si può non percorrerlo. Insomma, il tragico deve por­tare pur sempre con sé una forzatura soggettiva, di parte. Quant’essa sia politicamente definibile, tra la me­moria di un’ari­stocrazia operaia che fu e un «odio di classe» in assenza di classi orga­nizzate, è que­stione piuttosto ardua da comprendersi e non può che risolversi col muo­vere da una memoria del passato, con sguardo benjaminiano, «per tentare ancora di conqui­starsi un nuovo avvenire», con il futuro alle spalle. Del resto, il Tronti «po­stumo» non poteva non essere quello che egli è stato, lungo un «acciden­tato percorso di matta e disperatissima ricerca – operai­smo, autonomia del politico, teologia poli­tica, spiri­tua­lità e politica, grande pensiero conservatore, urlo di profezia, concretezza di utopia e persino monachesimo combat­tente (…)». Apprendere il proprio tempo con il pensiero significa perciò il dovere di capire, intanto. Dentro un partito che egli ha voluto inten­dere come parte sin che ha potuto e oltre, forzando anche il palese senso co­mune, ben al di là dell’«ultima sin­tesi» berlingueriana? Così è stato. Per trattenere un ormai di­sperato senso di comunità? Non solo. Nella trontiana «follia della croce» c’era del metodo.


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Adelino Zanini insegna Filosofia politica e Storia del pensiero economico all'Università politecnica delle Marche. Autore di numerose opere, tra cui Filosofia economica (Bollati Boringhieri, 2005) Principi e forme delle scienze sociali e Ordoliberalismo (Il Mulino, 2013 e 2022). Il suo dialogo con Mario Tronti La politica al tramonto è uno dei testi che compone Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio (MachinaLibro, 2024).

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