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Controdizionario del conflitto (VII)

di Stefano Ammirato, Gianmarco Cantafio, Alessandro Gaudio, Gennaro Montuoro



È al carattere che la militanza assume in questo delicatissimo periodo storico che guardano tutte le voci del Controdizionario approntato dalla redazione di «Malanova». Il cantiere aperto di ricerca su nuove ipotesi politiche e orizzonti praticabili è giunto alla settima uscita su «Machina» e include le voci Militanza, Mutui, Normalità, Parlamentari e Patrimoniale. Sono state scritte in fasi differenti ma poi aggiornate, provando a coniugare lo sguardo sull’attualità con un orizzonte di analisi più ampio. Anche queste, come le precedenti, non devono in nessun caso essere lette come lemmi e vanno ad arricchire il Controdizionario, ossia un dizionario che mette in discussione se stesso.



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Militanza

Si sono spesso individuate due esigenze fondamentali della militanza: da una parte, la controformazione, incentrata su un piano collettivo di ricerca e conricerca, intesa come momento metodologico di analisi nella contraddizione, come relazione in atto, inchiesta attiva che consiste nel riprodursi della conflittualità ingenerata dalla relazione asimmetrica tra soggetto e oggetto della ricerca e, nel caso del lavoro, distorta dall’estrazione di plusvalore; dall’altra, la controsoggettivazione, concepita come processo di incarnazione concreta del conflitto.

Sono obiettivi da perseguire attraverso l’osservazione analitica, prima ancora che per mezzo della creatività, ossia della centralità del soggetto nel decidere e scegliere. Lo si spiega molto bene in un lavoro di Gigi Roggero, intitolato Elogio della militanza. Note su soggettività e composizione di classe (DeriveApprodi, 2016), in cui, partendo da alcuni concetti ereditati dalla tradizione dell’operaismo italiano, si arrivano a indagare le difficoltà delle lotte inscritte nella travagliata fase attuale. Nello specifico, è dall’inventiva delle lotte che bisogna apprendere, acquisire coscienza della propria vulnerabilità, della propria materialità, della propria inclusione: inventiva che riesca ad arrivare prima dell’esperto e della macchina tecnica, tratteggiando autonomamente uno scenario che vada oltre l’immaginario indolente e automatico imposto dal capitale, oltre la gestione tecnicizzata e siliconizzata dell’esistente (cfr. É. Sadin, La siliconizzazione del mondo. L’irresistibile espansione del liberismo digitale [2016], trad. it. di D. Petruccioli, Einaudi, Torino 2018).

Gestione che invece, dentro ciascuno di noi, compone pazientemente e inesorabilmente la macchina: una supermacchina, in verità, tanto supercorpo quanto super Io, quindi sbagliata, perché statica e artificiale, perché consente di fare un passo e poi di rifarlo, senza permettere di guardare dentro se stessi, senza cercare di capire meglio.

L’inventiva del conflitto o, ma è la medesima cosa, quella del comportamento, è essa stessa politica, non tecnica, perché solo in questo caso si traduce in forza viva di trasformazione capace, con il pensiero e l’analisi, di andare oltre l’ineluttabilità della linea di sviluppo indicata dal capitale e dalle istituzioni esistenti. Non ricercare, dunque, un’alternativa più umana al sistema di riproduzione capitalista, ma andare oltre, assumendo una posizione di totale incompatibilità rispetto all’accettazione del conflitto capitale-lavoro.

Inventiva da militante che prevede che si metta interamente in gioco la propria vita, in modo da agire quotidianamente la tensione conflittuale. Il militante, è il caso di ribadirlo, non è un volontario, né un attivista adoperato da chiunque o operante per chiunque, come se non avesse un pensiero, ma solo mani e bocca, altoparlante e striscione: è un soggetto divisivo, disincantato, che prende posizione e costringe a schierarsi. Senza costanza e una dura assunzione di responsabilità, il militante, non solo cessa di essere tale, ma è facilmente relegato a un ruolo contemplativo, astratto, quasi astorico, divenendo mera intellighenzia che si muove nello spazio inerte imposto dallo sfruttamento e dalla strumentalizzazione, pervaso dal gran desiderio mortale, già nel 1965 lo diceva Paolo Volponi nella Macchina mondiale, di lasciare tutto com’è e di ammalarsi, poi, per la sorte che gli è capitata, magari lamentandosi come un cane che abbaia fuori dalla chiesa. Il riferimento è a F. Bedani e F. Ioannilli, a cura di, Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, DeriveApprodi, Roma 2020. Il titolo del volume riprende la definizione che da più parti si è data della spiccata soggettività rivoluzionaria di Alquati.

E invece l’affermazione del militante presuppone una paziente organizzazione, talvolta anche incerta e contraddittoria ma comunque viva, di soggettivazione e autonomia, superando il limite imposto dalla macchina capitalistica che prevede l’adorazione di se stesso e della macchina e, perciò, l’avvilimento e la perdita della coscienza. Da élite o avanguardia di pensiero bisognerebbe farsi piuttosto soggetto che analizza la prassi della contraddizione per individuare una prassi di rottura con la contraddizione.

Senza lotta non c’è autonomia. Senza trasformazione collettiva della soggettività non c’è autonomia. Senza formazione non c’è autonomia. D’altro canto, autonomia non è aderenza strumentale alla vertenza, capitalizzazione o, ancora peggio, sindacalizzazione della vertenza. Essa non passa dalla rivendicazione dell’ovvio e, in quanto prassi militante in essere, non può giacere nell’individuazione di un modo alternativo di restare nel ciclo di riproduzione capitalista. Alla semplificazione e alle scorciatoie strumentali l’autonomia oppone la complessità, il sapere autenticato dalla pratica nelle contraddizioni, il sapere che si produce nelle lotte, il disagio della civiltà che, con Freud, paventando una comunione più intima dell’Io con l’ambiente, risponde all’avvizzito discorso del capitalista e al suo corteo di permissività (cfr. S. Freud, Il disagio della civiltà [1929], trad. it. di E. Sagittario, in Id., Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino 2010, pp. 197-280).

Senza autonomia l’operaio sociale resta semplice attore dell’innovazione, interamente sussunto, dunque agito nell’impresa e industrializzato nella fabbrica totale, incluso come soggettività media, vale a dire stemperata, dal processo di sussunzione capitalistica. Si tratta di un processo continuo di sradicamento della soggettività e di reimpianto della coscienza mediata, assoggettata e normalizzata.

Eppure, anche in questo periodo di forte crisi, l’antagonismo, che non sprofonda nel godimento autocelebrativo e autoassolutivo, che non cede alla frustrazione dell’improduttività delle lotte, quindi in grado quantomeno di delineare le mura della prigione nella quale viviamo, continua a esistere. Magari come potenzialità, soltanto come spettro, comunque dotato della capacità di interrompere e rovesciare sé stesso e le cose che ha intorno, di superare la continuità capitalistica ornamentale e stregonesca, il suo sonno e la sua smemoratezza.

Il progetto di risoggettivizzazione del singolo e di ricomposizione politica del corpo sociale può nascere in qualsiasi momento (persino oggi, sì), allorché si produca uno scarto nella rappresentazione del sistema capitalistico. Per quanto non sia facile andare al di là della sua capacità di resistenza, davvero basterebbe questo semplice «resto» non contabilizzato, fatto di essere come presenza-a-sé e, nella lotta, come tono che risuona nel rapporto con l’Altro-da-sé, per rinnovare lo statuto del soggetto, rendendolo irriducibile alla sua impronta produttiva, all’immagine frammentata che ne restituisce lo specchio della modernità. Riappropriandosi di quel che resta fuori dalla produzione − quel quid non sussunto (o che ancora non lo è del tutto), che tutto sommato è equivalente al plusvalore dell’economia capitalista −, il soggetto fuori norma entra nel mondo, si fa momento autonomo della ritmica comunitaria e pone fine al tempo del comprendere-niente. Non si tratta semplicemente di essere anti, ma magari di essere altro all’interno di un mondo che ingloba, di una macchina dalla quale non si sfugge. La sola pratica della resistenza, da più versanti paventata, rimarrebbe comunque un tentativo di risposta meramente difensivo rispetto allo stato attuale delle cose. Non è sufficiente anelare; bisogna costruire, attraverso la creatività nelle lotte e nelle pratiche, un’altra possibilità.

Mentre la vertenzialità prova a strappare bocconi di agibilità nel sistema dato, la militanza prova a tessere nuova soggettività, capace di ribaltare le forze in campo e di costruire un altro sistema a sua immagine e somiglianza. Il militante, da inattuale dunque, agisce contro il tempo e non fuori da esso. Nessun idealismo, nessuna vaga utopia: semplicemente non accetta il tempo dato, per costruire, attraverso la lotta, la contrapposizione e l’incompatibilità, il proprio tempo autonomo (cfr. G. Roggero, L’operaismo politico italiano. Genealogia, storia, metodo, DeriveApprodi, Roma 2019, pp. 15-16). Da inattuale, entrare nel mondo: non sarebbe sufficiente questo perché si torni a parlare, con cognizione di causa, di militanza?



Mutui

La recente soluzione, proposta qualche tempo fa dal Governo e attuata da Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), di rinegoziazione dei mutui ha soltanto traslato il peso del problema debitorio sulle future generazioni. Un’operazione semplice quanto pericolosa: il debito non è scomparso, è stato semplicemente spalmato su più anni con un meccanismo che non farà altro che accrescere il valore complessivo degli interessi sul mutuo. È vero, la rinegoziazione ha prodotto della liquidità immediata che le amministrazioni locali potranno utilizzare, ma è il classico cane che si morde la coda perché il fardello finanziario legato alla rimodulazione degli interessi colpirà inesorabilmente la futura capacità di spesa delle amministrazioni, facendo gravare il tutto, ancora una volta, sulle spalle delle comunità.

Nonostante sia evidente la trappola del debito, questa operazione è stata salutata positivamente da migliaia di amministratori locali, tanto da indurre Fabrizio Palermo, amministratore delegato di Cdp, a dichiarare che «circa un ente su due ha rinegoziato le proprie posizioni: un dato che testimonia il successo dell’iniziativa». Regioni ed enti locali hanno rinegoziato il 60% dei loro mutui rivedendo 80 mila contratti con Cdp (su un totale di 135.000) per un debito residuo che si attesta sui 20 miliardi di euro.

Questa operazione, che ha interessato 3100 amministrazioni locali, per l’anno corrente ha liberato risorse per 800 milioni di euro. Il dato regionale è decisamente sopra la media nazionale con moltissimi enti che hanno aderito all’iniziativa di Cdp: 292 enti locali calabresi hanno rinegoziato oltre 8300 mutui per un debito residuo complessivo di 1,5 miliardi liberando risorse per oltre 55 milioni di euro per interessi non pagati nell’immediato ma che, come si accennava sopra, verranno restituiti a caro prezzo perché semplicemente posticipati con il meccanismo finanziario della distribuzione degli interessi sugli anni residui di vita del mutuo contratto.

Spingere il problema più in là negli anni non è certamente la soluzione migliore perché vuol dire trasferire i problemi economico-finanziari alle future generazioni. Avrebbe avuto molto più senso una richiesta allo Stato di poter accendere, per tutto il prossimo biennio, mutui a tasso zero, sulla falsariga di quelli concessi alle imprese private.

In soli due giorni, e per giunta con la garanzia dello Stato, il Governo ha dato il via libera all’erogazione di un prestito del valore di 6,3 miliardi a Fca (che ha sede fiscale all’estero), ma non si capisce perché – con altrettanta solerzia − non si riescano a reperire analoghe risorse per i comuni, al fine di farli uscire dall’emergenza con una possibilità concreta di spesa ordinaria e straordinaria. Sono proposte che ogni sindaco dovrebbe considerare come prioritarie per la propria azione di governo senza ipotecare il futuro di un’intera comunità territoriale con i meccanismi perversi del debito.



Normalità

Si fa sempre più evidente la correlazione tra proliferazione del Covid-19, produzione industriale di alimenti e sviluppo degli allevamenti intensivi: a statuirla, di recente, ha contribuito un lungo articolo di Ángel Luis Lara, studioso madrileno di cinema, apparso su «El Diario» alla fine nel marzo del 2020 e poi tradotto in Italia, per «il Manifesto», da Pierluigi Sullo. Già solo il titolo incuriosisce e inquieta: Non torniamo alla normalità. La normalità è il problema.

Il processo globale di «urbanizzazione» della popolazione di animali allevati − che, è bene ricordarlo, è quasi tre volte maggiore di quella umana − è all’origine della generazione di tempeste virali zoonotiche come quella che stiamo attraversando. Alla luce di quanto detto, appare ancora più assurdo fronteggiare questa emergenza senza affrontarne le cause strutturali, cioè combattendola come se fosse un fenomeno isolato e secondo quella logica emergenziale cui ci hanno abituato governi nazionali e amministrazioni locali. Sul pericolo di una stagionalizzazione di un virus così mobile e aggressivo non c’è bisogno di soffermarsi, anche perché c’è chi lo ha fatto prima e meglio. In assenza di un vaccino efficace o di un qualche farmaco, da più parti si paventano ipotesi che prevedono periodi di quarantena e di autoisolamento fino al 2022 e nuove ondate di Covid-19 addirittura fino al 2025. Siamo davvero pronti ad attenerci periodicamente e per chissà quanti anni a un modello di interazione sociale studiato, di volta in volta, a tavolino?

Se la risposta a questa domanda è no, cerchiamo di considerare alcune evidenze e di ripartire da quelle. L’industrializzazione capitalista del ciclo alimentare e la drammatica erosione dei sistemi sanitari pubblici avrebbero contribuito in maniera decisiva, insieme ad altri fattori, a trasformare un microrganismo in tempesta. E allora, invece di prendersela di volta in volta con tizio e caio, invece di individuare un comodo capro espiatorio, perché non mettere in questione l’intera ragione neoliberista? Non sarà questa la vera formazione sociale cui è sempre più necessario contrapporsi con decisione? Come farlo?

Ángel Luis Lara fornisce una risposta a questa domanda invitandoci ad affrontare non solo il capitalismo in sé, ma anche il capitalismo in me, per evitare che ci impongano la restaurazione intatta della normalità, ossia della struttura che ci ha condotti a questo punto. Insomma, sarebbero gli stessi concetti di genere umano e di bene comune quelli dai quali ricominciare. E nonostante siamo congenitamente disillusi e viviamo in Calabria, dobbiamo sforzarci di non considerarla un’utopia. Se poi utopia fosse, il modello è di gran lunga preferibile a quello che quotidianamente, da troppo tempo, ci impone la realtà.



Parlamentari

Nella questione del taglio dei parlamentari, mossa da un coacervo di slogan populisti, trovano spazio concetti di casta, stipendi stellari, professionisti della politica e altro, in una confusione tale da arrivare al paradosso del taglio dei parlamentari piuttosto che al taglio degli stipendi, approdando alla semplicistica equazione che per ridurre gli sprechi basta tagliare il numero delle uscite invece che rivedere i capitoli di spesa. Paradossale in quanto fa eco, almeno nel suo concetto fondante, alle politiche di austerity che, all’ottimizzazione delle risorse, preferiscono i tagli lineari, per risparmiare senza urtare certi equilibri, nella consapevolezza che se l’acqua scarseggia i pesci grossi fanno fuori quelli piccoli e si ripristina l’equilibrio. Questo è il corollario della faccenda cui fanno seguito le ragioni del Sì e le ragioni del No.

Se tentassimo di smarcarci da domande a trabocchetto, che non spostano di molto lo status quo, e dalla finta opzione di votare «il meno peggio», provando invece a leggere il nostro presente, cominceremo a capire come il referendum costituisca un finto problema. Da un lato, le barricate di cartapesta della «sinistra» che parla di attacco alla democrazia, dall’altro, le cantilene sul risparmio per il contribuente e sul colpo alla casta dei parlamentari. Nel mezzo forse ci sarebbe del vero se solo riuscissimo a coglierne il significato, cercando nella complessità di una politica che ha fatto della chiarezza il suo peggior nemico. Diamo per assodato che l’Unione Europea ha sussunto l’agire politico dei singoli Stati attraverso un ferreo controllo economico e che il Parlamento parrebbe servire solo a ratificare scelte fatte altrove, pena le purghe dell’austerity. Sembrerebbe, quindi, che il compito di controfirmare qualcosa possa spettare anche a un numero assai limitato di parlamentari. Ciò in realtà non è propriamente vero in quanto i «diktat» provengono molto spesso da trattati, protocolli e direttive, accettati senza troppe storie e spesso in maniera bipartisan dagli eurodeputati, salvo poi urlare allo scippo democratico quando i termini di quei trattati e dispositivi presentano il conto dell’incompetenza tricolore in Europa. Prima di abbandonarsi alle isterie da fine del mondo, sarebbe stato meglio non mandare soubrette, cantanti, trombati e riciclati vari in un’arena tanto decisiva.

Al di là delle proposte o degli slogan delle varie compagini partitiche, le scelte e le strategie tendono a somigliarsi. Solo uno sprovveduto non si accorgerebbe che tra il cavallo bianco di Napoleone e il bianco destriero dell’imperatore di Francia le differenze sono solo apparenti. Questo per dire, fuor di metafora, che le ricette economiche, le riforme sociali e le politiche del lavoro portate avanti negli ultimi 25 anni hanno un denominatore comune, cambia solo l’esecutore. Il comun denominatore è l’economia di mercato, gli esecutori sono stati, alternandosi, il centrodestra e il centrosinistra, indipendentemente da quanto strillato in campagna elettorale e da quanti parlamentari ci fossero a votare (spesso giusto il numero legale). Per non parlare dei decreti sicurezza nei quali il Pd ha staccato di due lunghezze la Lega sorpassandola a destra. Inoltre, per smantellare il discorso numerico, basterebbe ricordare come in passato passaggi storici di una certa importanza sono stati possibili grazie al trasformismo di pochi parlamentari (basta citare i casi rimasti indelebili nella memoria collettiva di Scilipoti e Razzi).

È chiaro che, da una parte, abbiamo un percorso obbligato dettato dalle esigenze di un mercato sempre più complesso e avido che ha modellato a suo uso e consumo i meccanismi della democrazia borghese e, dall’altra, si fa per dire, abbiamo le esigenze di bottega delle cordate di industriali e finanzieri piccoli e grandi che sostengono i partiti quando non ne fondano uno direttamente. In pratica più che uno scontro tra idee c’è un conflitto tra fazioni di un potere economico che tentano di scalarsi a vicenda o sopprimersi, portando la competizione economica in Parlamento, in barba ovviamente agli interessi sociali di un paese in ambasce. Questo, per sommi capi, il punto di vista «istituzionale» degli interessi particolari. Sul versante di quello che dovrebbe essere l’argine alla piena o all’invasione dei mercati troviamo molta confusione, mista a un senso di frustrazione e impotenza, che spesso sfocia in istinti suicidi, per lo più in concomitanza di scadenze elettorali.

La fase storica, complessa e aggressiva verso tutto quello che non è soggettività protagonista dell’economia, ha fatto saltare alcuni meccanismi consolidati del conflitto sociale, sia a opera dei soggetti, che da promotori della lotta si sono trasformati in pompieri a salvaguardia della loro rendita di posizione, sindacati confederati in primis, sia dai partitini della sinistra, che arrancano tra la costruzione del consenso per restare vivi e la ricerca di «idee nuove» per proporsi quale alternativa tutta interna a un sistema in crisi permanente. La rottura necessaria per ristabilire un equilibrio sociale, tanto nella ridistribuzione delle opportunità quanto nel recupero della dignità dei singoli e delle comunità, non può transitare nel solco scavato dagli interessi specifici e funzionali al mantenimento dello status quo. Non è possibile migliorare un sistema orientato allo sfruttamento scientifico delle risorse, siano esse umane o naturali; cosa si immagina di fare, addivenire a uno sfruttamento etico? All’equità della prevaricazione? Sfruttare tutti per sfruttare meno sembra essere l’implicito slogan di talune organizzazioni politiche. Su un altro versante si assiste a paradossali rivendicazioni, seppur dettate dalla mancanza cronica e generalizzata di mezzi di sussistenza, che non innescano una critica strutturale ai meccanismi mercatali, ma vi galleggiano sopra; reddito per far fronte all’esigenza dei consumi. Per garantire linfa vitale alla società dei consumi si è disposti a chiedere di continuare a produrre beni inutili con sistemi insostenibili; su tutte l’automotive e l’industria pesante. Ancora peggiore è la richiesta di opporsi all’inevitabile trasformazione della manifattura di massa in produzione automatizzata. Queste accelerazioni tecnologiche, unite all’estrema mobilità dei capitali lungo le catene di valore globali, stentano a essere capite e allora le proposte di reali alternative stentano a concretizzarsi.

Le tendenze che ormai si presentano come un processo inesorabile, sospinte da eventi come le pandemie, spingono a preferire agli operai che si ammalano le macchine, le reti neurali e l’informatica in generale che sono ovviamente in grado di infischiarsene dei virus provenienti dal regno animale e del completo sfruttamento dell’ambiente. Tutto questo processo sarà guidato dalle potenti lobby economico-finanziarie che hanno dimostrato, da sempre, di saper fare presa sugli appetiti dei nostri «rappresentanti» europei tanto da spingerli a votare tutto ciò che gli è gradito. Allora, più che semplificare tutto in un Sì e un No, servirebbe lo spazio per analizzare attentamente l’attuale infrastruttura istituzionale con i suoi meccanismi «democratici» che del demos, del popolo, se ne infischiano bellamente. Basta ridurre il numero di stipendi ai parlamentari per trasformare le sorti italiche? Se ne dubita, vista l’esiguità della somma sul complesso della spesa pubblica. Basta mantenere o addirittura aumentare i rappresentanti per garantire un meccanismo democratico pienamente efficace? Anche qui fa sorridere l’inadeguatezza della soluzione rispetto al problema.

Innanzitutto bisognerebbe ribaltare l’alto con il basso, ridare dignità agli enti locali, gli unici a essere veramente vicini ai cittadini, spogliati negli ultimi decenni di tutte le loro prerogative e capacità decisionali, ormai semplici meccanismi di amministrazione della spesa ordinaria in un contesto di garanzia del pareggio di bilancio. Inventare, attraverso il conflitto e la creatività dei movimenti, «nuove istituzioni» popolari che rendano capaci le popolazioni di prendere in mano il proprio destino lasciando meno spazio ai meccanismi della delega e della rappresentanza.

Non servirebbe a nulla, infatti, abbassare per legge il livello della decisione istituzionale se manca ciò che fa carburare la democrazia diretta e cioè il conflitto che non si trova al supermercato, semplicemente esiste oppure no. Come si costruisce un livello altro, ossia un percorso di reale incompatibilità? Oggi mancano autentiche «comunità insorgenti», mentre brulicano i comitati in difesa di qualcosa, ma spesso privi della capacità di lettura sistemica delle problematiche locali. Mancano visioni ampie e capacità di riconoscere il valore della comunità come elemento di rottura e creazione di incompatibilità. Mancano anche militanti capaci di avere l’occhio lungo rispetto a quelle che possiamo definire «tendenze e possibilità» da comprendere, anticipare e curvare rispetto al proprio piano strategico (quale?).

Di fronte a questa complessità il dualismo tra Sì e No a un referendum come lo si può inquadrare se non nel frenetico lucidar ottoni mentre la nave affonda?



Patrimoniale

Era quasi primavera, anche se gli ultimi studi dicono che circolasse già dall’inverno precedente, quando è scoppiata la prima ondata virale. Un mercato, un pipistrello o un pangolino, fatto sta che la causa principale della pandemia risiede senz’altro nell’irrazionale sfruttamento delle risorse del pianeta. Gli spazi vitali delle specie selvatiche si riducono sempre più e il contatto tra loro e gli uomini è sempre più probabile, così come il salto che il virus compie adattandosi a specie diverse. Giovanni Maga, direttore del Cnr-Igm di Pavia, spiega che i fattori coinvolti nella crescente frequenza di epidemie degli ultimi decenni sono molteplici: «Cambiamenti climatici che modificano l’habitat dei vettori animali di questi virus, l’intrusione umana in un numero di ecosistemi vergini sempre maggiore, la sovrappopolazione, la frequenza e rapidità di spostamenti delle persone». La stessa Greenpeace afferma che «il rischio potenziale potrebbe anche essere più esteso, assumendo una “dimensione temporale”. Lo scioglimento di ghiacci e ghiacciai, infatti, potrebbe rilasciare virus molto antichi e pericolosi. Nel gennaio 2020, per esempio, un team di scienziati cinesi e statunitensi ha comunicato di avere rintracciato all’interno di campioni di ghiaccio di 15.000 anni fa, prelevati dall’Altopiano tibetano, ben 33 virus, 28 dei quali sconosciuti. Tracce del virus della Spagnola sono state ritrovate congelate in Alaska, mentre frammenti di Dna del vaiolo sono riemersi dal permafrost nella Siberia nord-orientale. Proprio il permafrost rappresenta un ambiente perfetto per conservare batteri e virus, almeno fin quando non interviene il riscaldamento globale a liberarli».

Secondo gli esperti, ci dovremmo abituare a queste ondate virali. La scienza allora va in affanno, gli scienziati chiedono risorse per indagare il virus; è una corsa contro il tempo e forse non è bastato neanche trovare il vaccino per far sì che la normalità torni. Alla fine siamo come degli eroinomani che vanno in crisi di astinenza e, sempre più spesso, devono ritornare a iniettarsi il «farmaco» che regalerà un nuovo equilibrio. Purtroppo il «farmaco» è una nuova dose, più forte, di eroina.

Non serve disintossicarsi dall’eroina, basta farsi una dose maggiore per mantenere in equilibrio il sistema. Questo vale, ad esempio, per l’agricoltura industriale: immani latifondi su cui si impiantano ogni anno gli stessi prodotti impoverendo il terreno, desertificandolo. Inutile fare le rotazioni, basta aumentare la dose di concimi chimici. Come per l’eroinomane, prima o poi arriva la dose letale. Non occorre, afferma il capitalista, rinunciare all’estrazione forsennata di risorse per il nostro consumo, non serve dire basta alla spremuta di plusvalore che è arrivata a mungere le nostre stesse vite; basta premere ancora più forte, inventare una macchina che strizzi meglio.

Seguendo lo stesso principio, quindi, non serve rimuovere le cause che hanno messo in moto l’onda virale, basta trovare un vaccino e potremo tornare alla nostra vita di prima, tranquilli.

Oggi, ci troviamo nel pieno della terza ondata virale. Come dice Marco Bersani i 120 miliardi spesi non sono serviti per aggiustare la macchina sanitaria perché sono stati impiegati male seguendo le parole d’ordine della produzione e non quelle della riproduzione (M. Bersani, Virus: 5 mesi e 120 miliardi dopo, 29 ottobre 2020, consultabile al seguente Url: https://www.malanova.info/2020/10/29/virur-5-mesi-e-120-miliardi-dopo). Non c’è da unirsi che per gridare all’unisono contro un sistema che ha finalmente scoperto le carte della sua irrazionalità, rigettarlo in toto, chiedergli di giustificarsi per tutto quello che sta avvenendo, fargli dichiarare fallimento. E invece no, basta la Patrimoniale! Basta un vaccino. Non c’è da condannare un sistema totalmente irrazionale fin dai suoi assiomi fondamentali: basta aggiustarlo un po’. Tutto va bene, la ricchezza c’è, basta ridistribuirla. Pagateci, sembrerebbe dire la massa rivoltosa che si è mossa negli ultimi giorni, e poi chiudeteci. Siamo disposti all’eremitaggio, ma almeno dateci una scodella d’acqua pulita e un pugno di riso. Non importa da dove provengano i denari o, meglio, è importante che paghino i ricchi. Suppergiù è la ricetta proposta da Beppe Grillo e dai suoi ospiti del blog. Si istituisca un reddito di base universale attraverso una tassa mondiale sui ricchi del 7 o 8% (leggi Patrimoniale) per garantire a tutti gli abitanti del mondo un reddito mensile di 500 euro. Potrebbe sembrare un’ottima idea se non si confondesse la tattica con la strategia. «Se mi chiudi, mi paghi!», si grida. Certamente, ma c’è bisogno di una teoria capace di accogliere una simile proposta. All’interno del sistema dato, il 7% di tassazione non è che solletico per i mostruosi patrimoni di alcuni gruppi o di alcune famiglie. Questo garantirebbe loro di continuare a produrre con l’attuale ritmo accaparrandosi il 93% delle risorse lasciando per strada un 7% che garantirebbe alla massa di non morire di fame e anche di stare serena, di continuare a fregarsene del mondo rimbambendosi o terrorizzandosi davanti a uno schermo, sgranocchiando un po’ di pane e cipolla o banchettando con una scodella di riso e fagioli transgenici, a seconda di cosa passa la tessera. Certo, toccherà stare a casa, chiusi, perché alla fine siamo stati pagati per questo, mentre i filantropi se la spasseranno in qualche isola non toccata dal virus tra caviale e champagne!

Oggi sì, nell’emergenza, tatticamente, serve chiedere un po’ di reddito spalmato sulla cittadinanza per evitare che muoia di fame. Ma domani? Qual è la strategia? Oltre le nuvole dell’attualità, brilla ancora un sol dell’avvenire? Non basta togliere qualcosina ai padroni del mondo permettendo loro ancora di estrarre valore dall’ambiente e dalle nostre stesse vite, inquinando, saccheggiando, distruggendo. Bisogna spogliarli completamente e sovvertire il paradigma capitalistico.

Lo stato attuale dell’avanzamento tecnologico e scientifico permetterebbe di produrre, attraverso robotica, automazione e informatica, tutto il necessario per una vita dignitosa per tutti. Di sicuro, come diceva Gandhi, «Al mondo c’è abbastanza per soddisfare i bisogni di tutti ma non l’avidità di tutti». L’espansione economica su scala globale, la finanziarizzazione, mira solo al profitto individuale o corporativo. Bisogna allora tornare a localizzare il modo di produzione, tornare a un’economia e a una politica su scala locale (M. Bersani, Riprendiamoci il comune. Per un diverso futuro, urbano e rurale, 29 ottobre 2020, consultabile al seguente Url: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/riprendiamoci-il-comune-per-un-diverso-futuro-urbano-e-rurale), come nello swadeshi Gandhiano (ecn.org, Lo Swadeshi di Gandhi: l’alternativa alla globalizzazione, consultabile al seguente Url: http://www.ecn.org/molino/giornale/numero6/swadeshi.htm), interessate al benessere comunitario, a una società ecologicamente e socialmente orientata al rispetto delle risorse naturali e degli esseri viventi. Un’economia della cura, appunto.

Il problema è che l’attuale weltanschauung pone alla base di tutto un pronunciato individualismo quale vera leva per il progresso umano che, attraverso una forsennata concorrenza, farebbe emergere i migliori, i vincenti, che con le loro capacità sarebbero in grado non solo di arricchirsi facendo la propria felicità, ma anche di arricchire il mondo facendo tracimare verso il basso benessere per tutti. Tutto ciò ha portato al completo annichilimento della cooperazione umana basata sull’empatia e sul servizio, ribaltando i valori umani primari, spogliando letteralmente il mondo, causando l’attuale emergenza ambientale e climatica nonché l’odierna pandemia che ci vede reclusi o mascherati. Questa non è la vita paradisiaca prevista dai fautori del capitalismo.

Non basta una timida patrimoniale, bisogna fare il processo ai padroni, chiedere il conto dello stato delle cose. Il muro di Berlino è caduto e con esso l’utopia del socialismo reale. Acqua passata! Ora sono i signori dal pensiero unico a doversi giustificare sul perché le cose sono andate così male. Altri muri devono crollare e le masse rivoltose non devono chiedere un reddito di sussistenza, ma l’intera proprietà dei mezzi di produzione perché siano organizzati su basi sociali diverse. Per fare questo non servono agitatori del giorno dopo, servono militanti e organizzazioni capaci di anticipare tendenze, agirle nelle contraddizioni. Non servono padroni e schiavi, servono cooperanti. Non servono amministratori ma meccanismi di autogestione.

Il capitalismo è come una finca, dicono gli zapatisti, un latifondo, e i «sinistri» si ostinano a chiedere al padrone che venga loro dato almeno un ovetto. Invece, bisognerebbe avere il coraggio di chiedere la gallina, il pollaio e la terra intera perché il padrone ha fallito e non ha reso sicuro e felice quello spazio che aveva promesso. Il feudatario si nutre di «latte e miele» nel suo paradiso tropicale, perché il padrone non abita il latifondo, mentre noi siamo costretti a lavorare per pochi spiccioli girando con la mascherina.

Veniamo a riprenderci tutto per condividerlo e gestirlo in comune ribaltando la priorità tra produzione del capitale e riproduzione sociale, tra valore d’uso e valore di scambio, tra lavoro e sfruttamento. La pandemia ci ha insegnato che nulla può e deve mai più essere più come prima, che non può esistere produzione senza riproduzione, felicità senza cura.



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Stefano Ammirato, Gianmarco Cantafio, Alessandro Gaudio, Gennaro Montuoro fanno parte della redazione di «Malanova», progetto militante che si pone l’obiettivo di costruire una rete di informazione e approfondimento a partire dai territori del Sud.

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