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Assalto al cielo (e ritorno). Sulla teologia politica di Mario Tronti


Thomas Berra


Mario Tronti, si sa, ha sempre avuto il coraggio di muoversi in partibus infidelium, tentando di avanzare sul terreno nemico, appropriandosi del suo pensiero per rovesciarlo in un’altra direzione. In questo percorso, a partire dagli anni Ottanta, inizia quello che Federico Battistutta definisce il «terzo momento» della sua ricerca, cioè lo sviluppo del filone teologico-politico. È comprendendone i motivi e gli scopi che possiamo leggere le riflessioni trontiane sullo spirito libero – uno spirito che nulla a che vedere con le pappette del cuore new age: «stare in pace con sé, oggi, vuol dire entrare in guerra con il mondo». Oppure sulla profezia, vale a dire la capacità di vedere e dire quello che gli altri non vedono e non dicono: non la visione idealizzata dell’utopia, bensì la forza sovvertitrice di un realismo rivoluzionario; non un pensiero rivolto al futuro, ma l’anticipazione di un altro presente possibile. In questo percorso Tronti è sempre guidato dal suo sguardo irriducibilmente unilaterale, dalla parzialità del punto di vista – non quello degli ultimi, ma di chi rifiuta di esserlo; non il grido di debolezza delle vittime, ma l’urlo di guerra di una forza collettiva; non l’interesse generale di salvare il mondo, ma l’interesse di parte di metterlo sottosopra. In questo cammino trontiano, più che ricercare cesure nette, è meglio provare a osservare la misteriosa curva della sua retta.

Consigliamo di accompagnare il saggio con la lettura di M. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009.


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Per preghiera, dovete intendere qualcos’altro rispetto al canto nella Chiesa cristiana: pregando si grida, si geme, si prende d’assalto il cielo.

Jacob Taubes


La terra è fatta di cielo.

La menzogna non ha nido.

Mai nessuno s’è perduto.

Tutto è verità e cammino.

Fernando Pessoa



Per il conflitto sociale

Pensare la politica come una pratica di trasformazione sociale e agita fino in fondo come espressione, non di un’astratta volontà generale, ma scegliendo deliberatamente la parzialità, il collocarsi da una parte ben precisa: quella del punto di vista degli ultimi. Ecco, queste poche, scarne righe possono forse sintetizzare il lavoro intellettuale di Mario Tronti che si dipana ormai da oltre mezzo secolo. Una raccolta di suoi testi di qualche anno fa testimonia questa lunga militanza intellettuale [1].

La sua vicenda prende avvio nei primi anni Sessanta quando, insieme a Raniero Panzieri (allora dissidente del Partito socialista), darà vita alla rivista «Quaderni rossi» e con essa all’avventura operaista. In quegli anni le organizzazioni storiche (partiti e sindacati) della classe operaia erano legate all’idea di un progressivo sviluppo delle forze produttive, intese come motore del cammino dell’umanità verso una società migliore, ma ostacolato dalla babele del mercato e distorto dall’iniqua distribuzione della ricchezza sociale. Tale visione, che leggeva il capitalismo come proprietà privata e mercato, contrapponendogli un socialismo inteso come proprietà pubblica e pianificazione, finiva per accettare sostanzialmente l’organizzazione capitalistica della produzione. Ma in quegli stessi anni l’irruzione nel mercato del lavoro di una nuova figura sociale, quella dell’operaio massa, avrebbe scompaginato le carte. Tronti, insieme agli altri operaisti, analizzando quei mutamenti, propose una differente analisi delle relazioni di classe, ponendo in particolare l’attenzione sull’elemento soggettivo, rivendicando la centralità politica della classe e non delle organizzazioni politiche e sindacali che all’epoca la rappresentavano, costituendo in buona parte la matrice da cui successivamente si sarebbero originati i movimenti sociali e politici lungo tutto il periodo ’68-77. Inutile dilungarsi: a testimonianza di quella fase resta l’opera senz’altro più importante di Tronti, Operai e capitale (uscita nel 1966 nei saggi einaudiani). Il titolo stesso del libro compendia bene il metodo operaista, vale a dire la dichiarazione di un conflitto irriducibile fra classe operaia e sviluppo capitalistico, un conflitto tale da assumere una portata ontologica tra l’irriducibilità della vita, da una parte, e le dinamiche di sfruttamento di questa, dall’altra.

Si sa: da quel periodo ben presto lo stesso Tronti prenderà le distanze, considerandolo esaurito e scegliendo di rientrare nelle fila del Partito comunista, intraprendendo a quel punto una riflessione sulle categorie del politico, alla ricerca di strumenti utili a colmare quelli che a suo avviso erano i limiti delle pratiche della soggettività sociale. È la fase dell’autonomia del politico.



Nel silenzio della rivoluzione

Ma in queste righe l’attenzione sarà rivolta al terzo momento del pensiero di Tronti, avviato negli anni Ottanta e che segna il suo avvicinamento al filone teologico-politico.

Tutto parte dalla vittoria neoliberista a livello planetario, da un lato, e dall’esperienza fallimentare del «socialismo reale», dall’altro. È una fase contraddistinta dal disincanto nei confronti delle potenzialità dell’agire politico (viviamo un’epoca su cui grava il «silenzio della rivoluzione») e da una generalizzata sfiducia verso la stessa democrazia politica («le democrazie occidentali sono le più perfette dittature del denaro», scriverà), la quale ormai assume le sembianze di una servitù volontaria e una tirannica «biopolitica di massa», dove – attraverso la massificazione e l’omologazione dei pensieri e dei comportamenti, costretti nel circuito produzione-circolazione-consumo – «la singolarità è concessa nel privato ma è negata nel pubblico». Il panorama globale è pertanto desolante, ma – qui è la svolta di Tronti – il politico non esaurisce l’ambito dei rapporti umani: accanto a esso, al di là di esso, si dà una dimensione ulteriore, che può insistere sul politico, determinandolo e forzandolo dall’esterno. È la dimensione spirituale.

Attraverso tale dispositivo lo studioso romano rileggerà, teologizzandolo, anche il suo stesso passato prossimo, come nel caso della rottura avvenuta con Toni Negri all’interno dell’esperienza operaista, riconducendola all’opposizione eschaton/katechon: «La differenza tra me e Toni Negri non è tanto riconducibile a Spinoza o Hobbes, è piuttosto di altro tipo. Toni mantiene il paradigma escatologico, io invece assumo il paradigma katecontico» [2]. Dove eschaton sta a significare l’evento ultimo, la venuta del Regno e katechon, invece, la forza che trattiene la venuta dell’Anticristo. Ovviamente qui i concetti vanno secolarizzati: nel primo caso sta a indicare un’accelerazione del corso della storia in senso rivoluzionario; nel secondo, al contrario, un rallentamento di tale processo per ricomporre e organizzare nuove soggettività [3].

Va detto subito che Tronti non è l’unico, fra i contemporanei, a essersi misurato con questo genere di contaminazioni; diversi contributi, provenienti un po’ da tutti i continenti, provano o hanno provato a coniugare Marx e la teologia. Penso, ad esempio, agli studi di Luciano Parinetto, ben lontani da quelli di Tronti e ancora oggi poco riconosciuti o, per citare un lavoro non europeo, Enrique Dussel col suo saggio sulle Metafore teologiche di Marx [4]. Nel caso di Tronti, la sua teologia politica attinge a figure di enorme spessore della filosofia contemporanea, sono i nomi (oltre a quello di Schmitt) di Walter Benjamin, Ernst Bloch e Jacob Taubes, i quali hanno fatto di questo corpo a corpo tra pensiero politico rivoluzionario e tensione teologica la ragion d’essere della loro ricerca come della loro stessa esistenza [5].



Lo spirito che disordina il mondo

Teologia politica significa misurarsi con l’utopia concreta e non è certo un caso se oggi la letteratura utopica è in crisi, laddove prevalgono e abbondano le distopie, i futuri catastrofici lungo le tracce di Orwell, Huxley o Ballard. Insomma, dinanzi alle passioni tristi e ai tempi cupi che stiamo attraversando va ritrovata la strada per riscoprire una dimensione utopica della politica, quella che sogna una trasformazione radicale dell’esistente, tale da non lasciare nulla al di fuori. Ma non basta: affinché non scada in mero esercizio consolatorio va ricalibrata e pensata nei termini teologico-politici, in quanto collocandosi su questo piano è possibile tendere a «quel non-ancora realistico che andiamo cercando»; poiché utopia vuol dire (e qui Tronti cita Bloch) «nominare del tutto diversamente il nome di Dio, quel nome insieme perduto e non mai trovato». E questo incontro tra il politico e il teologico – due saperi che per troppo tempo si sono bellamente ignorati – alla fine potrà risultare fertile a entrambi, perché non c’è solo crisi della politica, ma è anche ben tangibile una crisi della religione: «ricongiungerle – aggiunge Tronti – è il compito messianico attuale».

Certo il cammino lungo il piano teologico-politico è tutt’altro che facile, presenta rischi non indifferenti. Il primo, più evidente, è quello della deriva fondamentalista, laddove politica e religione si sovrappongono, imponendo all’intero corpo sociale, senza possibilità alcuna di approccio critico o di dialogo, un insieme di valori non negoziabili. Qui il legame religioso vuole sostituire con la forza il legame sociale e, i nostri tempi, in ogni continente, ci mostrano ampiamente esempi del genere. A ben vedere ciò accade quando la politica è sofferente, non sa mantenersi all’altezza delle richieste e va alla ricerca di supplenze o surrogati di ogni sorta. Ma è chiaro che non è certo questo il cammino teologico politico che interessa a Tronti. Sotto questo punto di vista la cesura con il passato è netta: il teologico-politico contemporaneo segue una via sotterranea, più lenta, assai meno spettacolare, è l’incontro in una terra di nessuno tra la sfera sociale della politica e quella interiore della spiritualità. Forse, seppur di sfuggita, è bene chiarire il fatto che spiritualità e religione non sono da intendere come sinonimi, in quanto la spiritualità è qualcosa di più ampio della religione, la quale è soltanto una forma tra le molte in cui si può esprimere quel campo di esperienze che è la dimensione spirituale, la quale alberga e può manifestarsi in ogni essere umano, prima di una eventuale adesione a una confessione religiosa. Già più di mezzo secolo fa Ricoeur parlava dell’approssimarsi di «un’età post-religiosa» [6].

Scrive Tronti: «C’è una zona di mistero da coltivare con cura come una risorsa, di fronte alla quale conviene fermarsi a contemplare». E ancora: «Questo mondo interiore è un mondo vasto – più vasto del mondo esterno – e tendenzialmente infinito. […] Ma infinito è anche da intendersi come indefinito, e quindi non traducibile in numeri, in leggi, in codici, e soprattutto non traducibile, per fortuna, in immagini, dal momento che viviamo nella società dell’immagine». Di più: oggigiorno la spiritualità possiede un valore aggiunto dal momento in cui «il capitalismo ha fatto deserto all’interno dell’uomo […] ha reciso le radici dell’anima all’interno della persona». Per questo, aggiunge Tronti, questa dimensione possiede «una forte e profonda carica antagonistica nei confronti dell’attuale organizzazione della vita e confesso che a volte mi sembra questa l’ultima e definitiva frontiera della resistenza nei confronti dell’aggressione proveniente dal mondo esterno». Non è un caso, infatti, se oggi si assiste a un vero e proprio processo di colonizzazione delle coscienze così come dell’inconscio, un processo studiato e pianificato, attraverso i media, i social, la pubblicità e le campagne politiche volte a seminare paura e odio nella società. Definita così la sfera della spiritualità, come luogo privilegiato dell’interiorità, potrebbe affacciarsi a questo punto la prospettiva della spiritualità intesa come ricerca del proprio benessere personale, una sorta di nuova fuga mundi, un accantucciarsi interiore dinanzi allo sfacelo planetario per coltivare e proteggere il proprio piccolo io. Se si vuole è questo, in estrema sintesi, l’esito di buona parte della spiritualità new age che ha mietuto successi nei decenni trascorsi e che oggi mostra finalmente segni di crisi. No, su questo Tronti non ci sta, anzi rivendica in modo lapidario il potenziale conflittuale della spiritualità come vero e proprio valore: «stare in pace con sé, oggi, vuol dire entrare in guerra con il mondo». La pace interiore a cui si può aspirare è proporzionale alla capacità di costruire conflitto in seno alla società per disordinare il mondo. A chi critica una simile affermazione, sostenendo che questo mondo è già disordinato, Tronti replica osservando che l’attuale disordine altro non è se non la conseguenza del nuovo ordine globale: «è un ordine che dall’alto provoca questo disordine. Noi abbiamo bisogno di disordinare il mondo dal basso». E conclude: «Io credo che dovremmo ripartire da qui, da quando Gesù risorto sta per lasciare i discepoli e dice loro: ricevete lo Spirito. Ecco il lascito inutilizzato che abbiamo tra le mani. Veramente diceva: ricevete lo Spirito Santo. Ma qui sorge un’altra domanda: è necessario che sia Santo questo spirito, non basta che sia – appunto – Spirito?».



Profezia, critica del presente e tempo che viene


Fin qui la spiritualità come esperienza sorgiva. Ma a un certo punto, come si è detto, la spiritualità deve uscire dalla dimensione interiore per articolarsi nel sociale e coniugarsi nel politico. Scrive Tronti: «Nel Magnificat leggiamo: abbattere i potenti, innalzare gli umili. Ecco il teologico. Come abbattere i potenti, come innalzare gli umili. Ecco il politico»[7]. E fra tutti i linguaggi quello profetico è quello che meglio si presta, secondo Tronti, a esprimere la prospettiva teologico politica: «Dire oggi politica e profezia vuol dire richiamare la politica a una tensione profetica». Ma questa parola viene assunta in un significato circoscritto, finanche limitato, rispetto al senso letterale (profezia come predizione di un evento futuro per ambasceria divina). Profezia oggi per Tronti non è predire e neppure prevedere, la parola profetica non annuncia il futuro, non prefigura l’isola che non c’è, ma si limita a vedere con chiarezza il presente, mostrare quello che gli altri non vedono o non vogliono vedere. «Profezia è discorso di libertà. Libertà dal proprio tempo, e da chi lo comanda. I dominatori non hanno bisogno di profeti. Hanno, per servizio, i loro funzionari. […] Sono gli oppressi ad aver bisogno dell’azione e della parola profetica» [8]. Questo è il massimo a cui si può aspirare in questi tempi: profezia come critica radicale del presente [9].

La politica volge al tramonto e la profezia appare muta, sembra questo lo scenario finale che emerge dalla riflessione teologico-politica. Ma non si può seguire Tronti fino in fondo lungo questa strada, l’apertura che il teologico-politico consente, delinea, deve delineare altri orizzonti che meritano il rischio dell’esplorazione. Se è vero che profezia è, e dev’essere, critica del presente, ciò è possibile perché al contempo riesce a cogliere, per quanto fugaci, bagliori di futuro dentro l’insistenza opprimente dell’esistente. In fondo a criticare il presente sono bravi anche i peggiori reazionari e conservatori, ma quello che loro non potranno mai fare è denunciare il presente alla luce di ciò che sta venendo, di un futuro non come prolungamento dell’esistente, ma rottura e discontinuità con tutto quello che c’è.

Se è vero, come sottolinea lo stesso Tronti, che il Novecento ha visto all’opera una forma di profezia inedita, laica, collettiva, incarnata dal movimento operaio – «un soggetto sociale, una potenza politica, capace del grande gesto, la guida di un processo rivoluzionario» [10] – allo stesso modo oggi va radicalmente ripensata la profezia alla luce della storia presente. Nel nostro tempo occorrono occhi in grado di vederla e orecchie in grado di sentirla, perché non ci sono più profeti permanenti e dichiarati, neppure in forma secolarizzata (la classe egemone, l’avanguardia politica); possiamo imbatterci in soggetti, aggregazioni di soggettività, che possono svolgere una funzione profetica per un determinato arco di tempo per venire successivamente sostituiti da altri. Oggi la profezia, quando c’è, è disseminata, si muove orizzontalmente, è, fra l’altro, fino in fondo espressione di quel «sapere sociale generale» intravisto da Marx nel suo celebre Frammento sulle macchine (un testo peraltro amato da Tronti).

Allora è da ripensare la profezia proprio alla luce della contemporaneità, della mobilità, della provvisorietà e della contingenza. Penso a figure come Greta Thunberg e all’indiscutibile impatto che sta dimostrando, soprattutto verso i più giovani. Penso alle donne latinoamericane di «Ni una menos», al loro programma e alla loro capacità, partendo dal basso, di costruire mobilitazioni a livello mondiale. Penso alla denuncia da parte dei popoli nativi (dal Chiapas all’Amazzonia) della distruzione sistematica di interi ecosistemi a opera delle multinazionali. E si potrebbe proseguire.

In breve: l’immagine di una classe sociale egemonica e di un partito in grado di organizzarla politicamente appartiene al repertorio del Novecento, non a questo nuovo secolo. Per questo è urgente ripensare non solo le nuove forme di composizione sociale e le tipologie di aggregazione e organizzazione, ma anche un immaginario rinnovato con i nuovi scenari che possono aprirsi, le contaminazioni a vari livelli, le trasformazioni che coinvolgono tutti gli ambiti, in primis le procedure cognitive e comunicative.

Tutto ciò sta producendo ricadute non solo sul piano politico ma anche su quello religioso e spirituale. Si parlava poco sopra di nuove forme di profezia, ora le stesse tecnologie comunicative e il sapere sociale stanno producendo enormi mutamenti sotto i nostri occhi. Si pensi al fatto che il successo delle religioni monoteiste sarebbe stato impensabile senza il passaggio dall’oralità alla scrittura, poiché con la scrittura tipologie di discorso orale, fino allora separate e distinte, sono confluite in un unico corpus monopolizzato e gestito da una classe di scribi e di sacerdoti, a garanzia del mantenimento della gerarchia, dell’ordine e dell’ortodossia (il dogmatismo è assai meno presente nelle civiltà orali). Si consideri pure l’apporto che l’invenzione della stampa a caratteri mobili ha offerto al successo della riforma protestante e alla diffusione delle numerose correnti al suo interno, dal momento che il testo a stampa sottrae le scritture ai vertici ecclesiastici per consegnarle a moltitudini di fedeli e alla loro libera interpretazione. Oggi la rivoluzione informatica, accanto agli aspetti oscuri e inquietanti che contiene, offre la possibilità di un accesso libero a ogni frammento di sapere, unitamente a una condivisione e a una circolazione sempre più allargata, socializzando le conoscenze, aprendo così scenari inediti (c’è anche chi ha letto la rete come una manifestazione della noosfera, così come è rinvenibile nell’impresa teologica novecentesca di Teilhard de Chardin), in cui ogni aspetto della società si trova toccato e coinvolto, incluse la politica, le religioni e la spiritualità.

E, al rapporto (problematico) fra profezia e politica sarà bene affiancare quello (poco esplorato) fra mistica e politica che la decostruzione, oggi sempre più forte, dei processi di produzione di soggettività può aprire. Così, all’autorità del discorso del profeta, al suo linguaggio esplicito, duro e indubitabile, vediamo insinuarsi l’esperienza mistica, l’esperienza di ciò che cresce e si trasforma senza essere incatenata da nessuna legge e da nessuna autorità, il suo riversarsi in «sempre nuovi strati di senso» e «il suo scontro con la vita religiosa del suo tempo e della sua comunità» [11]. Anche su questo piano sarà bene collocarsi e lavorare. In fondo l’assalto al cielo continua, in altre forme.



La terra è fatta di cielo

Addenda. L’espressione «assalto al cielo» non è stata usata per prima da Taubes, si sa, ma risale a Marx e al suo commento all’esperienza della Comune di Parigi del 1871. Taubes, come altri, l’ha ripresa e adattata. Fra l’altro questa espressione ritorna anche nella chiusa de Il dominio e il sabotaggio di Toni Negri [12], testo chiave per comprendere il ’77. L’ultimo paragrafo del libriccino, intitolato appunto «… e i proletari assaltano il cielo», dopo aver sintetizzato quanto sviluppato nelle pagine precedenti, si conclude proprio con queste parole: «Il nostro sabotaggio organizza l’assalto proletario al cielo. E finalmente non ci sarà più quel maledetto cielo!». Qui, aspetto non irrilevante, non solo il cielo viene assalito, ma è per così dire abolito (su questo si tornerà più avanti).

Ma, sempre in tema di cose celesti, un controcanto negriano alla teologia politica di Tronti sta in un saggio del 1990, poco considerato, Il lavoro di Giobbe [13], un libro che è qualcosa di più di un commento al testo sapienziale biblico. Sia detto subito che Negri si colloca lungo il solco di un’interpretazione materialistica e demitizzante del testo, in direzione di una laicizzazione e secolarizzazione delle religioni, pur mantenendo vivo «il contenuto pratico, etico, passionale della verità religiosa». (Fra l’altro, sempre Negri in un successivo libro-intervista dirà sempre in tema di religione: «Non ho mai avuto nulla contro la religione – sono semplicemente contro la trascendenza. Rifiuto assolutamente ogni forma di trascendenza. Ma certi aspetti della religione, e soprattutto certe esperienze religiose, hanno veramente la capacità costruire non solo in un modo mistico ma anche in un modo ascetico» [14]).

Quello che davvero conta è andare al cuore del messaggio soggiacente al Libro di Giobbe, laddove si descrive il percorso di ricostruzione di un mondo etico dopo aver decostruito la fede nella giustizia divina. Il chiedere ragione del male da parte di Giobbe, la sua sfida lanciata verso Dio, il suo protestare e bestemmiare «sono la macchina ontologica del rinascere della passione». Il dispositivo del Messia allora diviene gesto liberatore, apportando un surplus di essere e di materialità perché è proprio «attraverso il corpo che si compie la redenzione, attraverso quel corpo che è stato martoriato dal lavoro e da esso modificato». E ancora: «In Giobbe il Messia è il segno della resurrezione della carne, così come nel comunismo il Messia è segno della resurrezione del lavoro». (Allontanarsi dall’Impero è seguire il Messia, aveva detto a suo tempo Taubes.)

Escatologia, profezia, messianismo al cuore dell’operaismo, dunque? Riprendendo una distinzione risalente a Buber [15] si tratterebbe di un’escatologia profetica, in cui le soggettività sono chiamate a partecipare in prima persona alla redenzione, per distinguerla da un’escatologia apocalittica dove il processo redentivo è predeterminato, una macchina oggettiva in cui gli esseri umani sono solo strumenti per un fine che non gli appartiene (secondo Buber la dimensione apocalittica è un tratto che avrebbe caratterizzato il marxismo-leninismo).

Ma, accantonata la prospettiva katecontica, anche quella messianica, dentro il pluriverso frastagliato e postcoloniale in cui viviamo, sembra non godere di buona fama. Ecco come la descrivono Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro [16]: «la millenaria narrativa patriarcale, repressiva, trascendentalista, razzista e fallocratica che attraversa come in filo rosso la storia dell’Occidente, da san Paolo a Marx, Husserl, Heidegger e oltre». Anche Graeber, partendo da un’altra prospettiva, invita ad abbandonare suggestioni escatologiche. In uno scritto irriverente (a tratti superficiale) sul post-operaismo suggerisce di smettere di inseguire figure messianiche (la classe sociale ritenuta più avanzata in un dato momento, il luogo ove più alte sono le contraddizioni ecc.) per un’altra idea di rivoluzione, cogliendo il divenire storico come un campo di possibilità permanente, dato che non vi è motivo per cui non si possa provare a intraprendere, in ogni dove e in qualsiasi momento, una concreta costruzione di un futuro di redenzione [17].

Per finire: a ben vedere anche la metafora dell’assalto al cielo, pur con tutta la sua potenza e fascino, cela tratti ambigui, a partire dalla sua verticalità. Certo, il cielo, come luogo di separazione e di potere che sovrasta signoreggiando su tutto, va smontato, ma quest’immagine porta con sé tutta una serie di problemi, come l’ingaggiare uno scontro frontale di fatto funzionale al nemico a quello, inebriati dall’altezza, di finire col sostituirsi agli olimpi. Forse, anche qui, c’è bisogno di un diverso immaginario e i versi di Pessoa, involontariamente, diventano suggestioni utili. Qui c’è un piano di immanenza, totalmente orizzontale, in cui e terra e cielo costituiscono una sola esperienza e vi è sensibilità verso i processi di produzione di soggettività; vediamo così interagire affetti, veicolare micropoteri e contropoteri, dove la militanza è gioiosa e non c’è un centro attorno a cui ruota tutto il resto, ma un camminare senza sosta poiché ogni punto può aprire su nuove linee di fuga e dove il camminare stesso diventa fonte di conoscenze e, soprattutto, perché non c’è un/una fine della storia, ma tutto, davvero tutto, è verità e cammino.


Note [1] Il demone della politica. Antologia di scritti 1958-2015, Il Mulino, Bologna 2017, a cura di Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M.H. Mascat, a cui vanno riferite, salvo diversa indicazione, le citazioni trontiane [2] M. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009. [3] Del katechon si è occupato, fra gli altri, anche Cacciari ne Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013. [4] Inschibboleth, Roma 2018. [5] Un confronto diretto fra Tronti e alcuni di questi autori lo troviamo in M. Tronti, Il nano e il manichino. La teologia come lingua della politica, Castelvecchi, Roma 2015. [6] Cfr. P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1982. [7] M. Tronti, Disperate speranze, «Infiniti mondi», n.11, 2019. [8] M. Tronti, Cenni di castella, Cadmo, Fiesole 2001. [9] Per la critica del presente è anche il titolo di un altro volumetto trontiano uscito nel 2013 per Ediesse. [10] M. Tronti, Dello spirito libero, Il Saggiatore, Milano 2015. [11] Sono citazioni da Gershom Scholem, l’amico/nemico di Taubes, tratte da Autorità religiosa e misticismo, in La kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 1980. [12] Feltrinelli, Milano 1978. [13] SugarCo, Milano 1990. [14] Negri on Negri, conversazione con A. Dufourmentelle, Routledge, London 2004. [15] Cfr. M. Buber, Sentieri in utopia, a cura di D. Di Cesare, Marietti, Genova-Milano 2009. [16] In Esiste un mondo a venire?, Nottetempo, Milano 2017. [17] D. Graeber, La rivoluzione che viene, Manni, S. Cesario di Lecce 2012.

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