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Il formarsi della classe operaia

Rileggendo E.P. Thompson


Foto di Roberto Gelini


Gigi Roggero mi chiede un intervento per una nuova impresa editoriale su un bilancio dell’influenza che ha avuto nella storiografia dei mondi del lavoro la pubblicazione ormai 57 anni fa del vero e proprio «capolavoro» (nel senso della tradizione artigianale e operaia) di Edward P. Thompson The Making of the English Working Class. Alla pur meritoria traduzione italiana della fine del ’68 da parte del Saggiatore fu assegnato il titolo Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, in una edizione di lusso più adatta a una strenna natalizia che a una lettura da parte di giovani studenti e di militanti, il pubblico a cui l’autore aspirava. Il titolo inoltre entrava in parte in contraddizione con gli elementi essenziali del volume, come si accennerà più oltre. Bisogna osservare però l’importanza di questa edizione precoce in un periodo in cui la lettura dei testi in lingua originale era meno diffusa di oggi e una traduzione rappresentava anche l’introduzione di un’opera nel dibattito disciplinare. La prima edizione francese, ad esempio, fu pubblicata solo nel 1988!


Premetto che esattamente a cinquant’anni dalla prima edizione Piero Brunello, uno storico con molti interessi in comune con Thompson pubblicò – nel 2013 – un bilancio della sua ricezione, delle critiche e delle successive aperture della storiografia europea e americana a mio parere esaustivo a cui rimando, sulla rivista on line StoriAmestre).

Molte delle osservazioni e soprattutto dei bilanci che Piero Brunello trae, anche sulla scorta della costante discussione a distanza che Edoardo Grendi, storico essenziale per lo meno in Italia per studiare il laburismo delle origini ha intrapreso con Edward P. Thompson non possono che essere condivise. Probabilmente a causa di una mia remota, remotissima formazione teorica (marxologica) non sono particolarmente incline alle riflessioni metodologiche e nemmeno ai bilanci storiografici perché mi sono poi impegnata con entusiasmo in un corpo a corpo con le fonti che continuo tuttora a praticare. Mi limiterò quindi soprattutto a qualche riflessione sul modo in cui nella mia ricerca personale mi sono misurata con Thompson. Oggi del resto, a più di mezzo secolo, possiamo confrontarci con la sua opera anche criticandone alcuni aspetti al di là del fascino anche letterario che ne emana.

Cito qui per suggerire una comparazione con la situazione della storiografia italiana alla quale Thompson ha imposto di reagire. La nostra storiografia dei mondi del lavoro vive un radicale rinnovamento dopo la caduta del fascismo che comunque rappresenta una svolta. La generazione dei «vecchi maestri», attiva soprattutto dagli anni Cinquanta agli anni Settanta del Novecento ci ha trasmesso un patrimonio importante di studi sui partiti politici di riferimento del movimento operaio, sui movimenti sindacali, sulla loro formazione, i loro gruppi dirigenti, le loro differenze e radicamenti regionali, ricerche esemplari sulle Camere del lavoro, delle Leghe di lavoratori, delle società di mestiere, delle associazioni mutualistiche e cooperative. Questo patrimonio è stato troppo in fretta giudicato ripetitivo ma costituisce ancor oggi una acquisizione preziosa. I cantieri di questi lavori sono spesso stati addirittura abbandonati quando restava ancora molto lavoro da fare. Cito solo alcune ricerche esemplari coordinate da Aldo Agosti e Gian Mario Bravo sul socialismo e le lotte sociali in Piemonte, che dimostrano anche come gli studi del mondo del lavoro sono spesso indotte a superare le partizioni cronologiche valide per la storia generale.

All’inizio degli anni Ottanta, quando molti studiosi della storia politica del movimento operaio ne avevano decretato l’obsolescenza, era già nata una nuova storiografia che si è sviluppata almeno per una decina d’anni. Era stata suscitata e alimentata da passioni e progetti estranei all’università – ma anche la precedente stagione traeva la sua forza da un comune orizzonte politico. Con una forzatura potremmo definirla come un cantiere di ricerche intorno alle lotte operaie le cui suggestioni venivano dall’operaismo teorico di intellettuali militanti quali Raniero Panzieri e Mario Tronti (al di là delle contrapposizione che allora apparivano inconciliabili che hanno a un certo punto diviso le loro imprese politiche). Questa storiografia si è sottratta ai rischi della storia ideologica e ha profondamente innovato e arricchito l’uso delle fonti e ne ha reso possibile un uso critico più approfondito. La nostra generazione, che oggi ha superato l’età dei bilanci, si riconosce in parte nel bilancio critico tratto da Stefano Musso nella presentazione dell’Annale Tra fabbrica e società. Mondi operai nell’Italia del Novecento (Feltrinelli, Milano 1999). Siamo entrati nel «mestiere» forti delle acquisizioni dei «vecchi maestri» ma ci ha ispirato soprattutto l’opera di Stefano Merli Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale (La Nuova Italia, Firenze 1972). Un lavoro polemico con l’operaismo teorico ma radicato negli stessi problemi. Gli aspetti originali del suo lavoro nascono da un confronto «corpo a corpo» con la storiografia comunista italiana ma implicitamente proprio con le ricerche di E.P. Thompson che sarebbe limitativo ridurre, con Stefano Musso, a esponente particolarmente creativo della svolta culturale.

Da questi incontri sono nati molte ricerche e molti gruppi: la rivista «Classe», i libri di Liliana Lanzardo sugli operai della Fiat e il Pci nel secondo dopoguerra, di Giuseppe Maione sul «Biennio rosso», di Bruno Cartosio e di Sergio Bologna, responsabili della rivista «Primo maggio», di Stefano Musso, di Santo Peli. Io stessa sono inserita in questa corrente. Queste ricerche si sono immerse all’inseguimento dell’autonomia della classe operaia, già iscritta nella sua composizione tecnica. Le culture politiche e le mentalità che le plasmavano non sono più al centro della ricerca.


Ci si è sforzati di comprendere con la massima precisione la composizione sociale dei partiti socialisti e comunisti, delle correnti del sindacalismo, del movimento dei consigli, dei momenti insurrezionali degli anni Venti. Discussioni intense si sono impegnate sull’attribuzione di determinati momenti politici del Primo dopoguerra agli operai di mestiere o ai giovani non qualificati… Discussioni spesso rimaste aperte mentre anche molti di questi cantieri sono rimasti in corso e non completati.

Queste ricerche appassionate hanno trovato il loro limite nel rifiuto di assumere il ruolo delle culture profonde nei mondi operai: quelle analisi si limitavano con fierezza allo studio dei rapporti di forza conquistati o persi nei rapporti di produzione immediati. La «degradazione del lavoro» analizzata da Braverman, l’imposizione di un cottimo o di innovazioni tecniche che rivoluzionavano l’organizzazione del lavoro erano più importanti, nelle vittorie e nelle sconfitte della classe operaia, dei dibattiti politici e della coscienza che ne derivava. Nelle sue forme più radicali questa storiografia è stata minoritaria ma ha profondamente influenzato la nostra generazione che si è voluta allieva diretta dei capitoli storici del Capitale.

In seguito la produzione scientifica degli studi di storia dei mondi del lavoro, investita dal prestigio del cosiddetto linguistic turn, ha rimosso l’ambizione comune alle generazioni precedenti: fare la storia delle classi sociali come soggetto collettivo. Tuttavia gli studi di storia locale e culturale hanno a loro volta ampliato le nostre conoscenze in molte direzioni: la composizione sociologica dei gruppi di operai e operaie, i loro spostamenti nell’emigrazione e nelle città di arrivo, le storie delle famiglie, la plasticità dei rapporti con la professione, i rapporti fra città e campagne, i bilanci famigliari, il lavoro a domicilio e quel lavoro operaio che spesso nell’Italia della fine del XIX secolo non si svolgeva in «vere e proprie fabbriche».

Che relazione ha avuto il lavoro di Thompson con questi sviluppi? Potremmo dire in estrema sintesi che esso rifiuta una concezione esclusivamente economica della «classe operaia» ma la segue nella sua costituzione attraverso le culture e soprattutto i comportamenti conflittuali non esclusivamente né prioritariamente nelle «vere e proprie fabbriche». Gli intrecci colla storiografia italiana dopo gli anni Cinquanta e Sessanta sono evidenti.

Ho l’impressione che molti aspetti innovativi si possano individuare nelle ricerche di Stefano Merli. Oggi si insiste sulla volontà di scrivere le storie (al plurale) di operai e operaie nei loro progetti di vita e del ruolo non univoco del lavoro in questi progetti, nel corso del tempo e delle generazioni. Tutti questi temi originali (ma Terre e telai di Franco Ramella risale già al 1983) ci hanno spinto a usare le fonti di polizia, i libri matricola, le statistiche sullo standard di vita e i bilanci delle famiglie. Ma queste reti di informazioni conservano o disperdono la centralità dell’esperienza di classe rendendola afferrabile nel suo farsi mobile? Certo Thompson ci ha insegnato molto a questo proposito.


Alcune successive riflessioni: la vicenda personale e culturale di Thompson non potrebbe essere concepita effettivamente fuori dal contesto inglese. Cresce in una famiglia di metodisti non conformisti; ottimi studi a Cambridge. Aderisce al Partito comunista inglese in un paese in cui il movimento operaio anche radicale finiva per essere ricompreso in una corrente o un’altra del Labour e vi aderisce in piena guerra, seguendo le orme del fratello, scosso dal richiamo antifascista internazionale. Dopo un’esperienza di cooperazione internazionale in Jugoslavia, insegna letteratura in corsi per adulti dell’università di Leeds, inserendosi in una tradizione di estraneità all’accademia e di self help operaio. Buona parte, essenziale, della sua esperienza politica che si svolge dopo l’uscita dal Partito comunista in occasione della rivolta operaia ungherese e la denuncia dell’esperienza sovietica come una società che violava al tempo stesso le libertà collettive e la dignità personale, la ritroviamo in tutto il corso della sua successiva militanza. Nonostante la stima reciproca non collabora con quel gruppo di storici marxisti legati al Partito comunista che durò fino al XX congresso e in cui proprio Hobsbawm maturò molte delle sue ricerche. E infatti sia esplicitamente sia nel vivo della ricerca i lavori di Thompson si differenziano sia dall’approccio marxista sia da quello dell’importante gruppo di storici economici di orientamento liberale ai quali pure dobbiamo preziose conoscenze sulle trasformazioni della società inglese fra Sette e Ottocento. I liberali, gli storici «ottimisti» vedevano solo l’incremento della massa salariale di cui gli operai almeno prima della lunga depressione disponevano rispetto ai lavoratori a domicilio di quaranta o cinquant’anni prima, non considerando il valore della perdita della libertà ma anche – si può aggiungere – il fatto che l’urbanesimo e la separazione dalle economie famigliari di sussistenza costringevano gli operai a procurarsi tutti i beni di prima necessità sul mercato. I «marxisti» vedevano la o le classi operaie come il prodotto, certo politicamente centrale, di un processo di concentrazione di capitali, grandi investimenti, modernizzazione e meccanizzazione dei processi produttivi che, come scriveva con fierezza il dottor Hure (e l’italiano Alessandro Rossi di Schio), avevano vinto la battaglia contro la mano operaia e la sua capacità di determinare anche il profitto dell’imprenditore. Un processo dunque essenzialmente economico che Thompson individua in una classe operaia prodotta dal cotonificio e di cui il giovane Engels nella sua «missione» famigliare a Manchester fece la traumatica esperienza. Thompson invece individua l’origine della classe operaia come processo al tempo stesso sociale e morale prima ancora che nei conflitti nei luoghi di produzione, nella lunga resistenza all’affermazione del mercato del lavoro e del passaggio dalla manifattura alla vera e propria industria. Un importante ruolo ha la difesa di una tradizione – in larga misura supposta – di un primato dei bisogni della sussistenza rispetto a quelli del profitto e quindi un grande rilievo è dato alle agitazioni annonarie e all’aspirazione al controllo dei prezzi contro gli accaparratori. Ricordiamo anche la valorizzazione della sia pure durissima ma graduale iniziazione al lavoro dei bambini e adolescenti rispetto alla spietata gerarchia di fabbrica e alla loro subordinazione ai ritmi della macchina. Thompson, che in questo accompagna e in parte anticipa le ricerche di Hobsbawm che hanno conosciuto [1] una ripresa relativamente recente, restituisce al movimento luddita una dimensione non «selvaggia» e reazionaria ma ne analizza le strategie razionali di difesa di economie artigianali e di intere comunità locali. A suo parere certo destinate alla sconfitta, ma patrimonio di culture di autonomia e di etica che si sarebbero ritrovate nel corso di pochi decenni nei conflitti industriali. Come ricorda infatti Jarrige qui citato, quando la meccanizzazione si produceva nel quadro di una nuova industria, creatrice di nuovo lavoro, suscitava resistenze limitate, ma il conflitto poteva essere violentissimo e tenace quando l’innovazione veniva introdotta in un’attività consolidata e quindi provocava un sensibile aumento di povertà e disoccupazione, soprattutto in un territorio rurale, e come il Lancashire o la Normandie.


Del resto negli anni Trenta e soprattutto Quaranta ad esempio in Francia, dove il predominio della grande impresa si può collocare solo negli anni Venti del XX secolo, una rete di petizioni, articoli, associazioni operaie si organizza intorno alla parola d’ordine «organisation du travail» che non significa ancora organizzazione tecnica dei processi lavorativi ma resistenza al mercato del lavoro e alla concorrenza fra lavoratori. L’insurrezione del giugno 1848 è la manifestazione più esplicita di questa resistenza che nei termini di Thompson si potrebbe definire «economia morale».

A questo punto ci si potrebbe però domandare a quale marxismo si riferiscono le polemiche di Thompson (ma anche di altri storici «culturalisti»). Dato che Marx individua come rivolta operaia una insurrezione di disoccupati in cui prevalevano lavoratori di piccole imprese, artigiani, lavoratori di attività note come métiers de Paris. Insomma i tipografi e i fabbricanti di ventagli che troviamo nelle barricate dei Misérables. La percezione che Marx ha della classe nel ’48 è legata proprio alla difesa economica e morale di una economia non sottoposta al mercato del lavoro.

In seguito gli storici sociali – soprattutto quelli che ho citato all’inizio di questo intervento – si sono misurati con il farsi e i comportamenti delle classi utilizzando il marxismo come orizzonte metodologico con gli strumenti del Capitale e dei Grundrisse, senza aderire alla riduzione della storia cosiddetta marxista ortodossa del lavoro a una sezione dello sviluppo del capitale. La formazione sociale capitalistica quando impone la centralità del mercato e del profitto anche in significative isole di sviluppo – è il caso dell’Italia degli anni fra il 1880 e il 1900 ed è il caso dell’Impero russo più o meno nello stesso periodo – subordina anche le aree dell’arcipelago dove ancora prevalgono piccola impresa, lavoro artigianale, lavoro a domicilio, pluriattività. Questa interpretazione include anche i tessitori, i calzettai, i cimatori ludditi di Thompson, che sono a pieno titolo «classe operaia» per le tumultuose trasformazioni che li investono quanto per la loro resistenza a esse. Per rifarci a un movimento operaio che in forza del suo protagonismo politico ha attirato l’attenzione del pubblico non specialistico per i suoi esiti ma non abbastanza per le sue origini: gli operai delle officine Putilov e degli arsenali e dei porti (legati le prime, anche nell’immaginario, agli scioperi del 1904/1905 e del ’17, i secondi ai movimenti rivoluzionari soviettisti e alla rivolta di Kronstadt) hanno contribuito al socialismo russo e ai comportamenti e culture delle sue classi operaie quanto vi hanno contribuito i sarti a domicilio, cappellai e pellettieri ebrei che, organizzati nel Bund, sono stati a lungo la componente più numerosa del Partito socialdemocratico russo. Molti di questi lavoratori – spinti dalla necessità economica e dalla fuga dai pogrom – hanno poi alimentato una importante immigrazione negli Usa e in Francia e li troviamo in prima fila in quei movimenti sindacali…

Mi sono allontanata da Thompson ma ho spiegato i problemi e le domande oltre che le suggestioni che la sua lettura mi ha posto. Comportamenti conflittuali operai e una difesa della libertà e indipendenza del mestiere come risorsa per opporsi anche quando sono mutate l’organizzazione del lavoro e la composizione tecnica del capitale li ritroviamo in tutto l’Occidente innanzitutto europeo – il solo territorio per cui ho una competenza diretta – in Italia, in Francia, in Belgio, in Germania. Thompson ha descritto e teorizzato con capacità pionieristica questi processi con una accentuazione che gli appartiene sulla dimensione antropologica di questa resistenza. Molti dei «mondi che abbiamo perduto» erano idealizzati o anche più gerarchici e violenti di quelli della rivoluzione industriale, ma la loro trasformazione utopica li ha resi strumenti possibili di lotta in una «guerriglia» dove anche il linguaggio e le rappresentazioni hanno un significato importante.

Magistrale e ancora una volta anticipatore è stato lo studio dei ludditi, una serie di azioni e comportamenti presenti, come si è già detto, anche nel continente [2], ma particolarmente prolungati e intensi in Inghilterra. In questo studio Thompson usa con particolare finezza le fonti archivistiche sulle azioni di infiltrazione della «spia Oliver» e sulle difficoltà di penetrare quella che potremmo definire «opacità» delle comunità proletarie alla compromissione coi poteri sociali e politici, una solidarietà presente anche in chi non praticava direttamente le azioni dei ludditi ma vi si identificava. Azioni che ricadevano ancora in una penalità di antichi regimi visto che furono comminate pene di morte per reati che in fondo riguardavano solo cose e non persone, se non occasionalmente e marginalmente. Una riflessione ulteriore sull’emergere di una coscienza di classe nella borghesia industriale (fino alla sua piena affermazione politica con la riforma elettorale del 1832) Thompson ce la fornisce in uno dei saggi della raccolta pubblicata in Italia nel 1981, Lotta di classe senza classe? (1978) [3], dove in parte smentisce l’indicazione sulla unicità delle classi contrapposte e segue con estrema finezza i percorsi delle stratificazioni di classe fra aristocratici e imprenditori moderni, fra paternalismo tradizionale e rigore borghese.

Adesso qualche riflessione sui compiti attuali che si impongono agli storici e a coloro che insistono nell’analisi della composizione delle classi sociali.

Già nel 1998 Yann Moulier-Boutang, in una di quelle vastissime ricerche rese possibili da un sistema universitario che con tutti i suoi limiti resisteva ancora all’imperativo della spendibilità immediatamente professionalizzante dei saperi, aveva proposto una genealogia più lunga e soprattutto geograficamente più vasta dei rapporti di lavoro capitalistici che includeva il lavoro schiavistico permanente, il servaggio, la «servitù a tempo determinato», il sistema dei coolies [4]. Un lavoro che non è circolato molto in Italia nonostante la traduzione da parte della casa editrice Manifestolibri nel 2002 e che anticipava molti dei discorsi e delle innovazioni della storia globale del lavoro. Dalla sua vastissima ed erudita ricerca emergono aspetti allora lontani dalla piena consapevolezza sia degli storici che degli analisti sociali. Innanzitutto la cosiddetta globalizzazione e innanzitutto la globalizzazione del mercato del lavoro sarebbe in quest’ottica addirittura consustanziale allo sviluppo del capitalismo fin dalla sua formazione e non necessariamente coincide con gli spostamenti fisici dei lavoratori. Il processo di liberazione giuridica non sarebbe sempre e comunque un portato dello sviluppo del capitalismo. Le migrazioni sotto contratto fanno anch’esse parte dell’ingabbiamento dei lavoratori e la ricerca prima citata critica, ampliandola, la nozione marxiana di esercito industriale di riserva. Piero Brunello, nel suo dialogo con Thompson citato all’inizio, ricorda il libro di Peter Linebaugh e Markus Rediker, The Many-Headed Hydra. Saylors, Slaves, Commoners and the Hidden History of the Revolutionary Atlantic [5] che poneva ancora al centro della ricerca la formazione della classe operaia ma «sostituisce la manifattura tessile con la nave, e la classe operaia inglese con i marinai e con gli schiavi dell’Atlantico. Le vicende si svolgono nel corso dei due secoli Seicento e Settecento nei porti dell’Atlantico britannico: nelle coste dell’Africa, nelle colonie in America, nei porti in Gran Bretagna, nelle piantagioni dei Caraibi, nelle campagne irlandesi e nelle città inglesi. I moti presi in esame sono rivolte di schiavi neri, tumulti urbani a opera di una folla di marinai e di schiavi, proteste in difesa dei “beni comuni” a opera dei commoners che ne sono espropriati, cospirazioni in differenti paesi. La cooperazione nel lavoro e le comuni esperienze di lotta, in cui si mescolavano credenze africane e tradizioni antiautoritarie inglesi, formavano legami di solidarietà dalle piantagioni delle Americhe alle campagne irlandesi, alle navi nell’Atlantico e alle strade di Londra, dando vita a un proletariato atlantico multirazziale, multinazionale e multietnico» [6]. Questi sono solo due dei lavori – il primo di grande rilievo teorico – che pongono un problema con cui il presente si deve misurare e che è rimasto nella sua forma più esplicita estraneo alla ricerca di Thompson a cui Linebaugh e Rediker – pur riconoscendo un grande debito metodologico nei suoi confronti nel senso della «storia dal basso» – rimproverano la dimensione nazionale sia geografica sia nazionale. Si potrebbe obbiettare a queste critiche, poi riprese da molti autori della cosiddetta «storia globale del lavoro» che fanno riferimento all’International Institute of Social History di Amsterdam, che a essere nazionale, anzi molto a lungo locale era la percezione che gli stessi operai avevano del loro terreno d’azione e che soprattutto le acquisizioni legislative in cui gradualmente si cristallizzarono le conquiste operaie, in primo luogo la riduzione e fissazione per legge degli orari di lavoro, si verificavano sul piano nazionale. D’altra parte l’esperienza di internazionalismo – per usare la «vecchia» e gloriosa espressione – più concreta per gli stessi lavoratori europei fu quella delle migrazioni nella stessa Europa e nelle Americhe, come dimostra anche l’attenzione che a questi temi riservano le Internazionali politiche e poi sindacali. La coesistenza e il passaggio nei comportamenti fra xenofobia e fratellanza nei conflitti è d’altra parte un punto di vista che è ormai stabilmente presente negli studi sui mondi del lavoro ed è comprensibile solo tenendo conto dei confini e della loro «effrazione» da parte delle migrazioni. Continuo a credere che questa forzatura dei limiti europei sia un arricchimento e non una smentita dell’importanza delle ricerche sulle vicende nazionali e locali.


Un altro aspetto di cui tenere conto rileggendo Thompson con gli occhi del presente è quello della definizione di «classe operaia» oggi (ma, osservata con uno sguardo che si serve degli strumenti analitici marxiani più che delle definizioni marxiste novecentesche, probabilmente sempre) molto più estesa. Una working class che include il lavoro intellettuale salariato, il lavoro formalmente autonomo ma comandato, le forme contrattuali più diverse, comprese quelle che hanno reso irriconoscibile la definizione stessa, istituzionale e sociale, di cooperativa.

Queste figure sociali sono – naturalmente – assenti dalla ricerca di Thompson come lo erano dalla società di quegli anni. Tuttavia nella sua ricerca la working class non si definisce, lo abbiamo visto, attraverso la sua partecipazione a una condizione in cui il lavoro salariato e la grande impresa si sono del tutto affermati, ma anche attraverso una resistenza anche culturale a questa affermazione e la partecipazione a lotte per gli approvvigionamenti e i prezzi che solo superficialmente possono essere definite movimenti di mob. Non certo per caso d’altra parte questi movimenti hanno accompagnato tutti i momenti di rottura della legittimità dello stato centrale, fra il ’17 e e il ’20, nell’immediato secondo dopoguerra e nel ’77 sia pure in forme diversissime. Questa ricerca costante della soggettività di classe resta dunque esemplare e rende il rapporto del lettore di oggi con The Making of the English Working Class non solo una straordinaria acquisizione di conoscenze ma uno stimolo a procedere nella stessa direzione.


Milano, luglio 2020


Note

[1] Ad esempio François Jarrige, Au temps des « tueuses de bras ». Les bris de machines à l’aube de l’ère industrielle (1780-1860), collection Carnot, Presses universitaires de Rennes, Rennes 2009.

[2] Su questa discussione in Francia sotto la monarchia liberale orléanista, rimando al mio L’invenzione della classe operaia. Conflitti di lavoro, organizzazione del lavoro e della società in Francia intorno al 1848, FrancoAngeli, Milano 2002.

[3] Società patrizia e cultura plebea, a cura di Edoardo Grendi, Einaudi, Torino 1981.

[4] De l’esclavage au salariat. Économie historique du salariat bridé, Puf, Paris 1998.

[5] Beacon Press, Boston 2000; trad. it. I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria, Feltrinelli, Milano 2004.

[6] Piero Brunello, A cinquant’anni da The making of working class (1963-2013), «Storiamestre», pp. 17-18.

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