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La traversata degli anni Ottanta di Vasco



Moltissimi gli articoli, i libri, le riflessioni sul fenomeno Vasco Rossi. Buona parte di questa produzione si sofferma in particolare sull’aspetto musicale e testuale delle canzoni, sul modo di presentarle ai concerti. Altri trattano e raccontano la sua vita spericolata infarcendola d’aneddoti, dichiarazioni forti dell’artista, eventi che fanno scandalo. In questo saggio invece si prova ad analizzare il rapporto esistente fra vita e opera dell’artista con la storia degli anni Settanta e Ottanta, con particolare riferimento alle esperienze vissute e compiute dalle giovani generazioni in quei due decenni. (D.G.)


* * *


Prendi la strada che porta lontano

Scegli la via che ti prende la mano

(Vasco Rossi, Prendi la strada, 2011)


Vivere o sopravvivere? Il dilemma posto nella canzone Vivere del 1993 è stato risolto da Vasco Rossi quando ha precisato di non essere un sopravvissuto, se mai un super-vissuto che ne ha passate tante, intersecando vita privata col personaggio pubblico di successo. Ha iniziato vincendo contro la noia di un paese sull’appennino, quando ha partecipato a una delle prime radio libere, Punto Radio, per poi spostarsi a Bologna nei «famosi» e non ancora risolti anni Settanta, provato dalla «storia» impegnativa con una compagna femminista, in un rapporto di coppia fondato sulla «sincerità» e sul dialogo che s’infranse appena quei principi furono applicati. Ha attraversato gli anni Ottanta, «quelli più stupidi, ma anche i più belli e divertenti, quelli del sogno realizzato del rock in italiano», ha detto, delle canzoni sberleffo e delle provocazioni contro i perbenisti, i moralisti che «offrono buoni consigli» non potendo più «dare cattivo esempio», secondo la bella frase di De Andre tratta da Bocca di rosa.

Ha costruito la sua carriera artistica con testarda determinazione negli anni Ottanta, iniziata nella seconda metà degli anni Settanta, conquistata con lavoro, fatica, caparbietà in giro per l’Italia con un camper a contatto diretto col pubblico, raggiunto nei paesi più sperduti della provincia. Una vita spericolata, di quelle che non dormi mai, condotta senza risparmio di energie, esagerata, piena di guai. Ha due gravi incidenti stradali. Nell’aprile del 1984 è arrestato con l’accusa di spaccio di sostanze stupefacenti, si fa 22 giorni di carcere, prima di ottenere la libertà provvisoria; i suoi fans, nel frattempo, scrivono sui muri «Vasco libero». L’incontro con la droga sembra inscritto nel suo copione. Per diventare una star del rock non basta la proclamazione della necessità di fruire sregolatamente di sesso e musica, occorre aggiungerci la droga, secondo il trinomio maledetto proveniente dagli Stati Uniti: sesso, droga e rock and roll. Bollicine, una bellissima canzone del 1983, ricca di humour, di costruzioni linguistiche futuristico-demenziali, infarcite da interruzioni pubblicitarie («piccolo spazio pubblicità»), è anche un inno alla cocaina celato ironicamente sotto l’apparente inneggiare alla coca cola: «Coca-Casa-e-Chiesa/ Coca-Cola... e sei protagonista/Coca-Cola... per l’uomo/ che non deve chiedere... mai!».

Una vita maleducata, irriverente, anticonformista, che fa scandalo: il 14 dicembre del 1980 compare alla trasmissione Domenica in cantando Sensazioni forti («non importa se la vita sarà breve/vogliamo godere»); il giorno dopo lo scrittore Nantas Salvalaggio lo attacca chiedendosi perché la RAI mostri ai telespettatori della domenica pomeriggio, in gran parte donne e bambini, «un simile esempio di drogato». Nel 1982 si presenta al Festival di San Remo con la canzone Vado al massimo: «meglio rischiare, dice rispondendo polemicamente a Salvalaggio, che finire come quel tale che scrive sul giornale». La canzone piace più al pubblico che ai critici, più che una canzone l’autore la considera «uno schiaffo morale». L’anno dopo, sempre a San Remo, se ne esce con Vita spericolata, «una vita che se ne frega di tutto, sì!». Sfonda, nel senso che si fa riconoscere e viene riconosciuto da un pubblico che raccoglie due generazioni: i giovanissimi e gli stagionati giovani trentenni.

La carriera da rock star si sviluppa con progressione geometrica negli anni Novanta e seguenti, senza tregua, interrotta momentaneamente dall’imprevista malattia che lo coglie sul palco nel corso della tournée dell’estate 2011. Guarito, la ripresa viene con Modena Park nel giugno 2017, un concerto con più di 220 mila persone. Nel 2019 altri sei eventi all’insegna del gigantismo e della tecnologia di ultima generazione attraggono migliaia di spettatori. Un bel traguardo per chi era partito dall’ultimo posto al Festival di Sanremo del 1982. Superata la chiusura del Covid, il settantenne è ripartito col Vasco Live 2022 con concerti, di successo garantiti a priori, in dieci città. Altri sono previsti per quest’estate.


Da Zocca al movimento

Vasco Rossi nasce a Zocca, un paese di montagna in provincia di Modena, il 7 febbraio del 1952, la madre è casalinga, il padre camionista. Una famiglia proletaria e d’idee socialiste, il socialismo di Nenni, ci tiene a precisare, per distinguerlo da quello dell’arrogante Craxi[1]. La musica lo interessa, ama ascoltarla e produrla, tant’è vero che all’età di quattordici anni forma, assieme ad altri amici, il complesso dei Killer e successivamente quello dei Little Boys. Catturato dallo spirito del momento, si sente giovane tra i giovani in ribellione col passato e il buon senso paralizzante, parte di una collettività generazionale, da Zocca a Milano, da Milano a Londra, a Parigi, ai campus americani. La rivolta giovanile sessantottina lo coglie sui banchi della scuola media superiore. Ha sedici anni, ciò che accade nelle università e nella società italiana e nel mondo in quell’anno, lo strappano dalla vita pigra di provincia, da un sicuro avvenire fatto di un posto di lavoro garantito da impiegato. Termina gli studi, si diploma, matura il convincimento di non voler fare il ragioniere nella vita, perché è un lavoro noioso, grigio, ripetitivo, che richiede tanto impegno e da poche soddisfazioni. Si iscrive all’Università di Bologna, prima economia e commercio poi psicologia, quando il ’68 è appena terminato. Trova però ancora un clima effervescente, creativo, molto politicizzato, con lotte studentesche ancora vive e in fase di sviluppo. Si lascia coinvolgere nella lotta e nell’impegno politico, ma non è una buona esperienza o, almeno, la giudicherà negativamente: «In quegli anni era quasi obbligatorio, per un giovane, l’essere impegnato politicamente, e io mi lasciai coinvolgere... Ma era solo per andare dietro l’onda, perché a me della politica non me ne è mai fregato niente, e guardavo alle lotte del movimento come si guarda a una partita di pallone»[2].

Per ragioni anagrafiche gli sembra di aver perso il meglio del ’68, quello cantato anni dopo come il periodo in cui si «voleva al potere la fantasia», giorni «di grandi sogni», quando potevano essere «vere anche le utopie»[3]. Chi, come lui, è arrivato dopo la fine del movimento studentesco, si è perso «lo sballo» e si è trovato tutto il resto: «il conformismo e il moralismo di sinistra. La noia»[4]. Si sente parte di quell’area meno politica del movimento sessantottino, quella della musica beat, dei capelloni, delle comuni, delle ragazze yé-yé, che il prevalere della dimensione politica eclissa. Più anarchico e più indiano metropolitano, dell’ala creativa del movimento, che militante politico tutto d’un pezzo, si iscriverà difatti al Partito radicale di Marco Pannella. Il suo dirsi anarchico fu la reazione al troppo ideologismo politico e militante che gli si paventò davanti nella forma delle organizzazioni extraparlamentari di sinistra. Scopre allora e ancora oggi rivendica il suo voler essere libero, privo di costrizione esterne, imposte dalla morale o dal proprio ruolo, sottoposto solo alle regole che lui stesso si dà. Entra a far parte della compagnia «Teatro evento» che produce opere di teatro d’avanguardia e sperimentale. Con alcuni suoi amici nel 1972 apre a Montembrano in provincia di Modena un piccolo locale per i giovani, il Punto Club, che nel 1975 si trasforma in discoteca. Sempre in questo paese, nel 1975, inizia l’attività di una delle prime radio libere, Punto Radio, la cui sede, pochi mesi dopo si sposta a Zocca. Vasco Rossi è tra gli animatori della radio e lavora come disc-jockey nella discoteca Snoopy di Modena.

Come per molti giovani, sul finire degli anni Settanta, la politica, coi suoi riti, le sue istituzioni e i partiti, compreso quello comunista, perde di significato, invecchia. I giovani, canta rivolgendosi a un militante comunista, «se ne fregano/ del tuo impegno sindacale/tua figlia sta con quell’idiota che non puoi vedere/ tu continui ad invecchiare/ sempre convinto/ che il partito è l’unica soluzione». Segue poi un ritornello che è una chiara allusione ai governi di solidarietà nazionale: «tre partiti sul comò/ che facevano l’amore/ con la DC del professore». Alla fine del testo (Ambarabaccicoccò del 1978) si sente crescere da lontano un coro sempre più possente di «Scemo! Scemo!», uno degli slogan più in uso nelle assemblee del movimento del ’77.


Voglia di vivere, rabbia e disperazione

Dopo l’estate del ‘77 la situazione precipita: il convegno settembrino e bolognese sulla repressione rappresenta l’ultimo canto del cigno di una tumultuosa primavera. Piegato dalle azioni repressive degli apparati statali e istituzionali, quando il senso della sconfitta e dell’inutilità degli sforzi compiuti per cambiare il mondo e la vita quotidiana si fanno strada nel movimento, inizia un processo di disgregazione. Un’intera generazione che ha fatto dell’impegno e della partecipazione politica una ragione della propria esistenza vacilla e si ritira disordinatamente e sconcertata. La fiducia nel divenire progressivo della storia e della società comincia ad incrinarsi. Pesa il fatto di vivere in una società che risente pesantemente della crisi e della recessione economica che segnano la fine degli anni del boom e delle sicurezze sociali ad esso collegate. Difficile scommettere su un avvenire migliore del presente e del passato. «Portatemi Dio», canta dissacrante Vasco Rossi, «gli devo parlare/ gli voglio raccontare di una vita che ho vissuto e che non ho capito/ a cosa è servito/ che cosa ho pagato!?» (Portatemi Dio, 1983). Quasi contemporaneamente i Sex Pistols se l’erano presa col presente, col passato, con il futuro. In God Save the Queen predicavano con determinazione: «No future/ no future/ no future for you/ no future for me».

Se non c’è divenire, allora non ha più senso investire tempo e intelligenza nella militanza politica, battersi e sacrificarsi per un domani migliore. Tanto vale provare a vivere subito la felicità, non rimandarla a tempi migliori. È il caso di concedersi una vacanza, per divertirsi, per riposare: Voglio andare al mare è il titolo di una sua canzone del 1981. Dopo tanto darsi da fare, dopo tanto impegno politico e sociale, quest’estate «voglio proprio andare al mare», per fare indigestione «di donne e di sole/ di donne da sole». Il presente si assolutizza, richiede di vivere subito, godere qui ed ora. Un bisogno che urta contro considerazioni amare: il mondo non è cambiato.

Con la fine degli anni Settanta si chiude una parentesi e si ricomincia come se nulla fosse successo. Le relazioni interpersonali tornano a fondarsi sull’individualismo, sull’egoismo, sulla sopraffazione e sulla violenza. È difficile capire e farsi capire, ci si sente soli e sfiduciati: «ognuno col suo viaggio/ ognuno diverso/ e ognuno in fondo perso/ dentro i fatti (o i cazzi) suoi» (Vita spericolata, 1983). Lo Stato, lungi dall’essersi indebolito, si è rafforzato, il sistema dei partiti appare più forte che mai. Il consociativismo, il carrierismo politico, l'occupazione di tutti i posti possibili nei vari gradi delle istituzioni rappresentative sono pratiche ricorrente e diffuse che coinvolgono tutti i partiti, di destra, di sinistra, di centro. Di fronte a questo scempio «non c’è più niente da dire», si può «solo vomitare», così canta Vasco Rossi in una celebre canzone del 1981 che s’intitola Siamo solo noi, un inno alla «generazione di sconvolti/ che non han più santi/né eroi!», che si sente orfana e canta il suo diritto ad esserlo. Vomitare è un termine che ritroviamo nuovamente in una canzone del 1993, quando ricorda il Sessantotto come periodo di grandi sogni e di grandi illusioni per poi chiedersi: «non ricordo se chi c’era/ aveva queste facce qui/ non mi dire che è proprio così/ non mi dire che son quelli lì/ Stupendo!/ Mi viene il vomito!/ È più forte di me» (Stupendo,1993). L’allusione esplicita è rivolta a quei dirigenti sessantottini e dei gruppi della nuova sinistra che hanno fatto carriera nei vari campi delle professioni e della politica.

Anche il ruolo dell’artista-cantate si ridefinisce. Vasco Rossi si presenta come un provocatore dissacrante dei valori etici, morali, laici, borghesi. Il suo è un anticonformismo spregiudicato che non risparmia soprattutto quei valori e quei miti consolidatisi negli anni Settanta nel movimento giovanile e cioè, il femminismo, la politica, l’ideologia, l’impegno sociale. La copertina del suo primo lp, Ma cosa vuoi che sia una canzone, del 1978, riporta un manifesto scritto dallo stesso autore che recita: «Cos’è una canzone... qualche parola e una melodia? Uno strumento di lotta o una masturbazione psichica? Una sensazione? Che cos’è una canzone d’amore? Che cos’è una canzone politica? Impegnato, non impegnato... Si parla molto e si ascolta poco! Per quel che mi riguarda a fare canzoni mi diverto».

Siamo al rifiuto, dissacrante per l’epoca, della canzone impegnata, della canzone politica, pedagogica, educativa, tipica di molti cantautori di quel periodo. Un rifiuto che riflette la crisi sociale e politica degli anni Ottanta, l’inizio della fine delle ideologie forti e mobilitanti che avevano caratterizzato il Novecento. Senza questo distacco, senza operare questa rottura, Vasco Rossi, probabilmente non sarebbe stato in grado di rappresentare nelle sue canzoni i nuovi soggetti sociali protagonisti di quella trasmigrazione che dagli anni Ottanta porta agli anni Novanta e alla fine del Novecento.

Evidente anche la polemica contro la canzone d’amore all’italiana, impersonata negli anni Settanta da Claudio Baglioni col suo Piccolo grande amore il quale, in un’altra canzone, paragona la donna ad un «passerotto» pregato di «non andare via». Per lui la canzone d’amore è in genere l’espressione di un momento intimo, drammatico, a tratti pure violento nel linguaggio. Ama le affermazioni forti, che scandalizzano le femministe, le quali lo ripagano con l’accusa di essere un misogino, «l’interprete del maschilismo più vieto, del sessismo maniacale, del trivio da suburra[5]».


Vivere per eccesso

Dopo la sbornia degli anni Settanta, durante i quali si doveva essere coerenti perché tutto era politicamente importante, rivendica la soddisfazione di dire liberamente: «ogni volta che non sono coerente/ogni volta che non è importante» (Ogni volta, 1982), perché alle soglie degli anni Ottanta «coerenza, intelligenza» sono «tutte menate. Oggi si va di qua e di là»[6]. Stessa cosa dice, con un linguaggio più scientifico e meno popolare, un sociologo mettendo in evidenza la perdita di centro e la dissociazione che dà adito «alla contraddittorietà d’atteggiamenti e di comportamenti; ad uno stato d’incoerenza... ad un’eterogeneità che esprime soltanto la perdita di centro, la non abitudine a realizzarsi in termini unitari»[7]. Vasco Rossi ostenta il suo individualismo, «non faccio parte d’alcuna organizzazione o corporazione», rivendica come suo tratto caratteristico l’essere «antisociale», sostiene che «farsi i cazzi propri è sufficiente»[8].

Coglie la condizione di una generazione, che «non ha più santi né eroi», che però non si rassegna ritornare a una vita normale, fatta di figli, casa, famiglia e lavoro, perché ha vissuto al di sopra delle righe, della banalità quotidiana e vuol continuare ad andare «al massimo, a gonfie vele» per vedere «come va a finire» (Vado al massimo, 1982). Se ne fa interprete con Siamo solo noi (1981): «che non abbiamo vita regolare/ che non ci sappiamo limitare/ che non abbiamo più niente da dire/ che non vi stiamo neanche più ad ascoltare/ che ormai non credono più a niente».

Crollate le ideologie e le speranze rivoluzionarie, ripiegati su se stessi nel tentativo, alquanto improbabile, di cambiare almeno la vita quotidiana, collocati in una società che va in tutt’altra direzione rispetto a quella sperata, dove i legami e i rapporti sociali tra le persone tendono alla precarietà, non rimane che vivere per eccesso. Vivere pericolosamente come canta in Vita spericolata del 1983: una vita «maleducata», che non ha rispetto per nessuno e per niente, «che se ne frega», imprevedibile e non scontata («che non si sa mai»), «come quella dei film/ esagerata/ piena di guai». Vivere sopra le righe, intensamente, nel bene e nel male, più che dare un senso alla vita, avere i sensi pronti per recepirla in tutti i suoi aspetti. Quella canzone, trasgressiva, anticonformista piace ai giovani e ai trentenni che si sentono in lotta contro l’indifferenza, la banalità, il piattume del vivere quotidiano, il grigiore della vita nelle periferie delle metropoli, il deserto di emozioni e sensazioni dentro le quali si sprofonda vivendo nella provincia, nei piccoli comuni italiani; essa permette di sognare una vita diversa, sopra le righe del tedioso quotidiano. A questo pubblico, che comincia ad amarlo e a seguirlo nei vari appuntamenti della sua vita spericolata, egli, con le sue canzoni, non trasmette messaggi politici, filosofici o morali, non indica obiettivi e mete da raggiungere: «molto umilmente fotografo realtà e situazioni esistenti, senza la pretesa né di inventarle, né tantomeno di risolverle. Racconto sensazioni mie o che sono nell’aria, tutto qui. Non ho certo creato io le problematiche esistenziali, la droga, le sofferenze»[9].


Protagonismi femminili

La presa di coscienza femminista, le lotte del movimento, lo strumento dell’autocoscienza, hanno dato fiducia alle donne, sono diventate protagoniste in prima persona, separandosi dai loro compagni: «alza sempre la voce/ sa sempre tutto lei» (La strega, 1979). La denuncia del maschilismo, della separazione tra personale e politico, tra pubblico e privato, della non neutralità dei ruoli sociali, ma della loro dipendenza dal genere, ha consentito alle donne di rapportarsi meglio e senza grossi traumi con la crisi della politica, la fine dei movimenti di contestazione e dei gruppi della nuova sinistra. La crisi che si manifesta sul finire degli anni Settanta riguarda anche il rapporto tra uomini e donne. Il femminismo, con la denuncia del maschilismo, ha rotto l’armonia subordinata della coppia, scoprendo il rapporto di dominio e di sopraffazione.

Il femminismo, sottoponendo ad analisi gli aspetti quotidiani, soffermandosi sui particolari più intimi dei rapporti tra i sessi, non solo frantuma la politica riducendola al personale, ma mette in discussione l’identità maschile, il suo ruolo nella società e nell’agire quotidiano. Vasco Rossi coglie in quanto la vive questa crisi di ruolo e la drammatizza cantando figure ideal-tipiche di donne viste come soggetti forti. Donne che strapazzano gli uomini, li usano e li gettano, non si curano delle loro sofferenze. Uomini per altro che si lasciano facilmente convincere «dalla logica di calze nere« che la protagonista della canzone Brava (1981) usa per farlo innamorare e poi piantarlo, perché voleva solo divertirsi e prendersi gioco di lui. Ferito, amareggiato non gli resta che cadere in una sorta di disillusione cosmica. Oppure rassegnarsi e accettare il nuovo modo di essere delle donne: «Va bene, va bene/ va bene così! Telefonami!!!» (Va bene così, 1984).

Una donna, quella che canta, sessualmente superiore all’uomo perché fisiologicamente diversa e quindi capace di far finta di amare e di godere nel rapporto sessuale, senza i problemi che assillano la fisiologia maschile: l’erezione, il timore dell’eiaculazione precoce. Nella già citata canzone La strega, la protagonista può anche permettersi di «far l’amore per gioco», di far finta di provare piacere, se le conviene, senza perdere mai la testa. In Io non so più cosa fare (1979), Vasco Rossi racconta di un uomo che se ne sta tranquillo a riposare quando una donna gli si avvicina piano piano, comincia ad accarezzarlo dolcemente e poi a sfiorarlo con le labbra. L’approccio lo impensierisce, non sa cosa fare. Agendo secondo i vecchi parametri dovrebbe svegliarsi e «saltarle addosso» dimostrandole (ma mentre lo pensa già ne dubita) di «essere molto virile». Il fatto che lei insista non contribuisce e a risolvergli i dubbi, anzi li accresce: «magari è femminista/ vuole gestire/ Allora come devo fare/ dove la bacio/come la devo toccare». Domande nuove che affiorano nella testa di questo uomo e rappresentano una novità rispetto al modo di fare delle precedenti generazioni le quali, secondo la vulgata, non si ponevano certo di questi problemi, scegliendo loro i tempi, i modi e le situazioni. Ora le cose sono cambiate, i ruoli si sono invertiti e per di più quello maschile è in forte crisi d’identità. Ecco come si conclude la storiella narrata dalla canzone: «Vuole fare l’amore./ Anch’io!/Anch’io vorrei, dio se vorrei/ lasciarmi andare/ come mi viene in modo naturale/ma forse è meglio lasciar stare/ non posso rischiare/ forse è meglio che mi rimetta a dormire«. Diversamente la famosa canzone Albachiara del 1979 tratteggia la figura di una candida adolescente, timida, bella, studiosa, ma la conclusione del testo non lascia presagire nulla di buono. Infatti le ragazzine crescono e «Albachiara» a volte fa «pensieri strani» e con una mano si «sfiora... sola dentro una stanza». Anche Silvia è una ragazzina, pulita, che studia e vive in casa coi genitori, ma comincia già a mettersi un po’ di rossetto sulle labbra e un po’ di trucco, mentre la mamma brontola perché fa tardi a scuola, ma lei non sente perché si guarda allo specchio: «mentre una mano si ferma sul seno.../ è ancora piccolo... ma crescerà» (Silvia, 1978). Dalle sue canzoni emerge un rapporto difficile con le donne liberate ed emancipate dalle lotte degli anni Settanta, gli piacciono ma gli fanno paura, lo mettono in crisi. Resta un senso di insoddisfazione profonda, che non viene mai completamente appagato, che non si accontenta di un rapporto quotidiano, duraturo e di coppia, anche quando incontra qualcuna con la quale potrebbe fermarsi a vivere.


La discoteca

Alla fine degli anni Settanta approda in Italia la disco-music. Le discoteche diventano, nelle città, come nelle periferie e nella provincia, un punto di aggregazione e di incontro tra i giovani. Vasco Rossi la discoteca l’ha già scoperta come disk-jockey alcuni anni prima che la moda dilaghi e diventi fenomeno di massa. È pronto quindi a farsi interprete in alcune sue canzoni di questo mondo giovanile, soprattutto quello che si muove nella vasta provincia italiana, con un proprio stile di vita, un suo linguaggio, un suo look, dove trionfano modelli edonistici, la ricerca del piacere e del divertimento, dell’amore da consumarsi subito, a fine serata («non la portavo mica a casa»), senza grandi progetti di fidanzamento o di convivenza: «va be!, se la sposavo non lo so, ma cosa conta», recita in Colpa d’Alfredo (1980). L’automobile, nuova, fiammeggiante, potente, diventa uno status simbol del giovanotto provinciale, che l’acquista, magari a rate, perché ritiene che con quell’auto possa «caricare» più facilmente le ragazze.

L’ambiente non è certamente dei più colti e raffinati, emergono prepotentemente concezioni maschiliste e misogine, tipiche per altro dell’italiano medio, ma questo avviene, secondo Vasco Rossi, in un contesto nuovo perché questi ragazzotti sono il più delle volte degli «sfigati», degli sfortunati, che non hanno grande successo con le donne, le quali, appena loro si distraggono un attimo, li piantano in asso. È un aspetto sul quale il cantante insiste, la discoteca non è più il tradizionale luogo in cui l’uomo cerca la sua donna, la sceglie e la corteggia. La donna stessa, emancipata, sicura, decisa, non attende più di essere scelta, sceglie. Racconta infatti di gruppi di donne, «tutte molto affamate», che al sabato sera vanno in discoteca e poiché sono «amiche fidate», scelgono dicendosi fra di loro: «quello è il maschio più bello/non toccatemi quello»; non a caso il titolo di questa canzone del 1979 è La strega perché in questo modo riprende lo slogan del movimento delle donne che negli anni precedenti prediceva il ritorno delle streghe: «tremate, tremate, le streghe son tornate».

La discoteca è un luogo di incontro di personaggi più disparati, emblematico in questo senso è quello di Alfredo, che dà il titolo all’omonima canzone. Chi è Alfredo? Probabilmente un compagno, uno che è stato politicamente impegnato e che ora in discoteca si mette ancora a parlare di politica con i suoi amici. I suoi sono certamente «discorsi seri», ma in quell’ambiente sono fuori luogo, «inopportuni», anzi dannosi perché distraggono e ti «fanno sciupare tutte le occasioni». Infatti, per colpa di Alfredo, al protagonista della canzone «fregano» la ragazza, la quale si fa accompagnare a casa da un altro.


Per una nuova resistenza umana

Si afferma un agire strumentale che si fonda su un sistema di valori che enfatizza il carrierismo, il successo ad ogni costo, la competitività, il denaro, il «rampantismo», mentre contemporaneamente cresce l’influenza dei mass media, della televisione in particolare, su una società sempre più individualizzata e atomizzata. «Conta sì il denaro/ altro che chiacchiere!», canta Vasco Rossi nel 1985 chiedendosi Cosa succede in città, e prosegue descrivendo una metropoli dove trionfa la «confusione», la «maleducazione», un tessuto sociale che sta cambiando, anche se non si riesce ancora bene a capirne la direzione e il significato e che per ora esprime individualismo egoistico, indifferenza verso i propri simili. Una città dove, alla fine, non succede nulla di importante e di intelligente, perché la gente, sola e isolata nelle proprie case, è bombardata dalla televisione, pubblica e privata, un’overdose di immagini, parole, suoni, dove alla fine tutto è uguale, tutto può essere vero, ma anche falso, dipende: «Non sai più se è un film/ oppure se è successo veramente» (Non appari mai, 1993). All’omologazione, al pensiero unico, come dicono i grandi opinionisti, al piattume e conformismo di massa, occorre reagire, dire no. Troppa gente «si accontenta di come vanno le cose» senza fare nulla, senza reagire, senza cambiarle, dobbiamo dire «no a questa apatia a questa ipocrisia», dichiara Vasco Rossi, essere «dei partigiani... fare della resistenza umana»[10]. La resistenza umana invocata da Vasco Rossi, è la risposta, per dirla con lo storico Paul Ginsborg, al «fallimento della politica»[11] negli anni Ottanta.

Gli esperti sostengono che il punto di svolta della sua carriera è dato dalla pubblicazione di Liberi Liberi, nel 1989, album della consapevolezza e della malinconica disillusione e insoddisfazione. Mentre la propaganda, a seguito della caduta del muro di Berlino, prospetta un mondo di libertà, felicità e fine della storia, Vasco Rossi scopre di non essere più il giovane irriverentemente libero, della vita spericolata percorsa andando al massimo. Quindi si chiede, con tristezza dubbiosa: «Liberi…liberi, siamo noi / però liberi… da che cosa? / Chissà cos’è! / Finché eravamo giovani / era tutta un’altra cosa / …Chissà perché! / Forse eravamo stupidi / però adesso siamo …cosa?».

Crolla un mondo, un sistema, dalle macerie nascono nuove tensioni e nuovi conflitti. Ma è proprio questo sapere che il mondo sta cambiando, che un sistema, un periodo storico si chiude, a creare incertezze, imbarazzo nel vivere, perché si va verso un presente e un futuro che ancora non c’è, nel senso che non è stato pensato, previsto, progettato. Vasco Rossi non ha problemi né remore nel cantare la sua nostalgia profonda per il tempo perduto, quello che comunque non tornerà più: «guarda il tempo/ vola via non si torna/ comunque sia!» (Ormai è tardi, 1989) perché non è interessato a recuperare una memoria storica ma, se mai, a riscoprire emozioni e sensazioni: «sono lontani quei momenti/ perché la vita è un brivido che vola via/è tutto un equilibrio sopra la follia» (Sally, 1996). Vivere allora diventa un atto di coraggio, un gesto che va vissuto e costruito giorno dopo giorno. Vivere diventa un gesto che si giustifica da sé, non ha più bisogno di essere inserito in finalità e scopi terreni o ultraterreni. Solo l’esperienza, quello che si fa e si dice, sembra contare, sembra essere valido di per sé, senza bisogno di giustificazioni e di spiegazioni.


Conclusione

Quando nel 2005 ha ricevuto la Laurea ad Honorem in Scienze della Comunicazione, conferitagli dal Rettore dell’Università IULM di Milano per i meriti acquisiti, nel discorso di lode, il prof. Marco Santagata, ordinario di Letteratura italiana presso l'Università degli studi di Pisa, ha detto che Vasco Rossi ha saputo superare l’immobilità dell’immagine che ha dato di sé negli anni '80. Non sono però «cambiati né il tono, pessimista e doloroso, né la sostanza, creaturale, delle cose che dice. Il successo e la maturità non lo hanno intaccato. L'io debole della giovinezza, quello imprigionato nei suoi amori fallimentari, nella sua ribellione senza oggetto, nell'insoddisfazione per la vita, è rimasto debole anche dopo l'arrivo della maturità e del successo»[12]. Poco amante dei salotti mediatici. Non piace a certi «intelligenti sofisticati e radical chic», neppure alla critica critica, ma ha avuto e ha un successo enorme, duraturo nel tempo, conficcato ormai in più generazioni, un popolo di fasce d’età diverse che affolla i suoi concerti mettendo assieme nonne e nonni, coi loro figli e nipoti.

Vasco Rossi ha cantato la solitudine, prima quella generazionale di Siamo solo noi, poi quella del cittadino globale, immerso nella società fluida, ridotto a individuo (Siamo soli, 2001), costretto a vivere una vita dovuta al caso, non donata né eterodiretta da alcuno. Le canzoni sono una sorta di autobiografia esemplare e rappresentativa della sua esperienza di vita, condivisibile con miglia e migliaia di fans. «Volete sapere tutto di me? Ascoltate le mie canzoni», questo il consiglio che sempre ha elargito a chi voleva intromettersi nella sua vita privata. Il suo è sempre un raccontare che parte dall’«esistenza» più che dalla «coscienza». Scelte, amori, ripensamenti, grandi domande circa il senso del vivere, insomma, tutto ciò che è esistenza, intesa come esperienza obbligatoria, che viene prima della coscienza. La coscienza porta consapevolezza, ma anche disillusione, incertezza, difficoltà e solitudine. Siamo prigionieri di una vita capitataci addosso, che procede impetuosa, secondo le sue leggi naturali, che si rinnova ogni giorno, e non si può far altro che accettarla e viverla secondo un principio di responsabilità che è tutto e solo del soggetto. Una vita spoglia di potenze superiori, siano esse divinità, metafisici spiriti assoluti o forti ideologie, di fronte alla quale l’alternativa è semplice e secca: Vivere o niente (2011).

Le sue canzoni anticipano la filosofia, riflettono una tensione verso la saggezza cercata sulla propria pelle. Così l’individuo acquisisce una sua singolarità ingenua: ritiene di poter dare uno scopo tutto suo alla propria vita, poiché la vita non avendo bisogno di giustificarsi, è un valore in sé, vale perché c’è. Vasco Rossi interroga il senso della vita e della morte per scoprire, disarmato, che senso non c’è, ma una forza interiore, che consumiamo vivendo, ci costringe a cercarlo. Altrettanto ha fatto coi sentimenti d’amore, i tradimenti, le gelosie, nell’eterno conflitto, mai risolto, tra passione, ragione, esperienza.



Note [1] Io Vasco. L’autobiografia di Vasco Rossi, a cura di I. G. Casamonti, Nuova Eri, Torino 1993, p. 89. [2] Citato da A. Maffei, Vasco Rossi, Edizioni Blues Brothers, Milano 1990, p. 18. [3] V. Rossi, Stupendo, 1993. [4] Citato da F. Sabatino, Vasco Rossi, Forte Editore, Milano 1983, p. 69 e 56. [5] A. Maffei, cit., p. 39. [6] Citazione tratta da F. Sabatino, cit., p. 59. [7] F. Garelli, La generazione della vita quotidiana, Il Mulino, Bologna 1984, p. 313. [8] Blasco (alias Vasco Rossi), «Le tavole», Il blasco, n. 16, 1996 [9] «Voglio una vita morigerata», intervista a Vasco Rossi, Panorama, 26 maggio 1991. [10] Le dichiarazioni sono tratte rispettivamente da A. Maffei, cit., p. 30 e da Io Vasco..., cit., p. 33. [11] P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente, Einaudi, Torino 1998, p. 257. [12] Il testo è stato ripubblicato in Domani, 9 novembre 2020.


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Thomas Berra


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Diego Giachetti (1954) vive a Torino. Si è occupato di movimenti giovanili e di protesta attorno al ’68 e delle lotte operaie nel corso dell’autunno caldo. Molteplici le sue pubblicazioni, tra le quali La rivolta di corso Traiano (1997-2019); Un Sessantotto e tre conflitti (2008). Con DeriveApprodi ha pubblicato Nessuno ci può giudicare (2005) e Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills (2021).


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