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Zarathustra a Mirafiori (II)


operai

Nel 2021 è stato pubblicato per Quodlibet il volume La rivoluzione in esilio. Scritti su Mario Tronti, a cura di Andrea Cerutti e Giulia Dettori. A un mese dalla scomparsa di Tronti, riprendiamo oggi il saggio di Andrea Cerutti contenuto in quella raccolta, che presenta una significativa tesi: l’operaismo trontiano discende da Marx quanto da Nietzsche. Ridotto a una formula si potrebbe dire: il pensiero negativo innestato sul corpo della classe operaia; ecco il vertiginoso esperimento. Pubblichiamo oggi la seconda parte del testo.


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L’operaismo è dunque antideologico ma non è mai stato spontaneista. Al contrario, per tenere insieme il punto di vista operaio senza più poter contare su fermi appigli ideologici diventava necessario enfatizzare proprio l’elemento organizzativo. Detto altrimenti, il nichilismo che faceva della classe la massima contraddizione dentro il sistema, la esponeva, al contempo, al rischio immanente di finire irretita dalle forme democratiche del welfare e dei diritti. Per Tronti, sono state due le derive contrarie all’eccezione operaia, peraltro connesse tra loro, una quella economicistica: la lotta sul salario se ridotta a rivendicazione economica diventava negoziabile sino a tramutarsi in funzione dello stesso sviluppo capitalistico secondo le forme del welfare. L’altra, più pericolosa, era la deriva filantropica dell’interesse generale e dell’uguaglianza dei diritti: «la pax democratica diventa il valore universale per tutti gli uomini di buona volontà, non importa se capitalisti o operai» che «convivono producendo e consumando in vista dell’unico bene comune, è l’utopia realizzata del capitalismo»[1].

La deriva filantropica va intesa come fase finale del progressismo, un eterno spontaneo progredire verso un nulla pieno di merci e diritti. Un meccanismo inerziale senza soggetto, il contrario di una potenza che distrugge e crea. Per Nietzsche, che vedeva il pericolo, «occorre appellarsi a immense forze contrarie per potersi opporre a questo naturale, troppo naturale progressus in simile, la prosecuzione dell’uomo nel simile, nel consueto, nel medio, nel gregario – nel volgare!»[2].

Per Tronti, già in Operai e capitale, era dunque imprescindibile passare al politico, alzare il livello di intensità della separazione tra la classe e il suo nemico. L’unica «forza contraria» invocata da Nietzsche era per Tronti la parzialità operaia che per non essere assimilata avrebbe dovuto appunto organizzarsi, perché l’opposto di uno «spontaneo progredire» è proprio l’organizzazione di una potenza contraria. Organizzarsi in una forza politica tale «da costituire un potere di decisione autonomo rispetto a tutta quanta la società, una terra di nessuno dove non può arrivare l’ordine capitalistico»[3]. Solo così gli operai avrebbero acquisito consapevolezza della loro potenza. Nella spontaneità del conflitto al massimo avrebbero rivendicato la ricchezza prodotta, restando però subalterni, come organizzazione invece si sarebbero potuti rifiutare di produrla per mettere in ginocchio, nuovi signori della società industriale, il proprio nemico. Pertanto, «organizzazione del no operaio» come «rifiuto di collaborare attivamente allo sviluppo capitalistico, rifiuto di proporre positivamente un programma di rivendicazioni»[4].

L’accento sull’elemento dell’organizzazione torna peraltro costantemente nelle pagine di Operai e capitale, basterebbe estrapolarlo dalle precedenti citazioni: «organizzazione dell’alienazione», «organizzarsi come elemento irrazionale», «organizzazione dell’anarchia»… Per saltare dall’economico al politico si deve attraversare il passaggio obbligato dell’organizzazione. L’operaista si presentava quindi a un tempo «anarchico e istituzionale, negatore e organizzato, “belva” e “compagno”». Era una critica, da rivendicare invece come una imprescindibile conquista intellettuale.

Organizzazione significava organizzare il conflitto e, allo stesso tempo, dare forma a una nuova aristocrazia di popolo, consapevole di essere eccezione, differenza, autonomia, di essere, in quella contingenza, il «momento vitale di tutto ciò che esiste e quindi potere assoluto di decisione sulla sua sopravvivenza»[5], sino a pensare e praticare il rovesciamento del segno di signoria e servitù, «Il Servo diventava il borghese, l’operaio diventava il Signore»[6]. Se per creare bisogna distruggere e se l’atto creativo è appannaggio delle aristocrazie, allora la classe operaia, che era la sola a volere e potere distruggere l’esistente, era anche l’unica forza creatrice. Ed ancora, era aristocratica perché aveva la sfrontatezza di affermare il proprio vantaggio in danno dell’interesse generale perché «quel che è dannoso a me, è dannoso in se stesso»[7], perché voleva essere se stessa contro ogni assimilazione. «La classe aristocratica è stata sempre, in principio, la casta barbarica: la sua preponderanza non stava in primo luogo nella forza fisica, ma in quella psichica»[8]… una barbarie proletaria. Per dare un esempio del cinismo e della spregiudicatezza di questa nuova razza potenzialmente dominante, Tronti menzionava gli operai americani degli anni quaranta e le loro lotte nel periodo bellico: «non più la parola d’ordine antiquata e socialista della lotta alla guerra, ma la rivendicazione di classe più moderna e sovversiva che si potesse allora concepire: partecipazione operaia ai profitti di guerra»[9], non per rendersi complice del capitalismo ma per colpirlo meglio.

Il passaggio dall’economico al politico è cruciale e qui trova nuova conferma la rottura che Operai e capitale ha rappresentato rispetto alla tradizione marxista: la classe operaia non era più l’erede della filosofia classica tedesca, restava in Germania ma per raccogliere un’altra eredità, quella del pensiero negativo con tutte le implicazioni che ciò comportava e di cui si è detto. Tra queste quella dell’autonomia del politico e, quindi, della sua radicale contrapposizione alla sfera economica; questo passo su Weber letto tramite Aron, contenuto in Operai e capitale, lo conferma:


«Alle riunioni del Consiglio degli operai e dei soldati di Heidelberg, a cui Weber partecipava nel ’18, avrebbe potuto ben portare, ben elaborate le leggi proletarie di una politica di potenza. «L’antica problematica, quale sia la miglior forma di governo, egli l’avrebbe liquidata come priva d’importanza. La lotta fra classi e individui per il dominio o potere gli sembrava essere l’essenza, o se si vuole, il dato di fatto costante della politica». No, non si sta parlando di Lenin, ma appunto ancora di Max Weber, «erede di Machiavelli e… contemporaneo di Nietzsche», come correttamente lo ha definito, proprio nel contesto sopra citato, Raymond Aron. Ma il politico di cui parla Weber si chiama Lenin […] La verità è che solo dal punto di vista operaio poteva forse essere compiutamente applicata la concezione weberiana dell’agire tutto e solo politico[10]».


Quale sia la miglior forma di governo è proprio un tema irrilevante. D’altronde, i programmi politici devono inevitabilmente avere contenuti più o meno buoni per tutti. Se elaborati da chi ha il potere sono giochi di società utili per le campagne elettorali, se invece sono i subalterni a scriverli è ancora peggio, perché in questo caso opera il loro istinto gregario, che segretamente cerca il consenso del nemico. Dunque, per la lotta di una parte che vuole il dominio sull’altra restano carta straccia perché quello che invece conta è il ribaltamento dei rapporti di forza. Tutto il resto in politica è tattica, uno strumento per la guerra. Non a caso in Operai e capitale era assente qualsiasi contenuto programmatico, anche la parola d’ordine «rifiuto del lavoro» non aveva nulla a che vedere con le ideologie oggi in voga sul tempo libero: in quel rifiuto vi era semmai «un particolare tipo di nichilismo operaio, tattico, politico nel senso […] dell’agire necessitato sulla contingenza, per mettere in difficoltà l’avversario sul punto in quel momento più sensibile del suo diretto interesse»[11]. Pure le rivendicazioni economiche potevano andare bene ma solo se intese come un passaggio tattico volto ad esasperare il nemico, lo stesso partito assumeva il ruolo di mero strumento organizzativo senza professioni di fede e se ce n’era uno già in campo tanto valeva adoperare quello, per non parlare delle istituzioni democratiche, quelle possono essere utili basta che non si creda nella democrazia, persino il capitalismo, sulla linea della Nep leniniana, poteva essere sfruttato dal potere operaio. Insomma, «siate predatori e conquistatori finché non potete essere dominatori e padroni»[12]. E se non siete subalterni non dovrete giustificarvi di nulla.

In breve, la «belva e compagno», secondo la definizione di Fortini, avrebbe dovuto sviluppare, come Federico il Grande nel fulminante ritratto di Nietzsche:


«quella nuova e più pericolosa specie di scetticismo […] Questo scetticismo disprezza e cionondimeno attira a sé; scava e prende possesso; non crede in nulla, ma non si perde in ciò; offre allo spirito una pericolosa libertà, eppure raffrena severamente il cuore […] sia, ad esempio, come intrepidezza di sguardo, sia come coraggio e spietatezza di mano nel suo lavoro di scomposizione, sia come volontà tenace di rischiosi viaggi di scoperta, di spirituali spedizioni artiche sotto desolati e perigliosi cieli[13]».


Tradotto in termini trontiani: la fede nella capacità di sconfiggere sul campo i capitalisti e di mandarli all’inferno, pronti ad accogliere come un dono la «pericolosa libertà» di poter usare con spregiudicatezza ogni mezzo per battere il proprio nemico, come d’altronde il nemico ha sempre fatto contro di noi.

Sappiamo com’è finita. La classe operaia, «ultima casamatta da conquistare per l’universalismo borghese»[14], è stata travolta. Le ragioni della disfatta si possono solo intuire. Una, evidenziata da Tronti, è che «per abbattere la minaccia della centralità operaia il capitalismo ha dovuto abbattere la centralità dell’industria»[15]. Collegato a questo motivo vi è forse anche il mancato salto dall’alienazione alla sua organizzazione, che avrebbe potuto portare la classe fuori dalla fabbrica prima che quest’ultima le rovinasse addosso. Più complessivamente si può dire che sia giusto e necessario demolire per liberare spazi, ma non basta, altrimenti si rischia di finire inginocchiati davanti ai surrogati secolari delle antiche fedi pur di non vivere nel deserto. Nietzsche, profeta della distruzione, temeva questo esito e esortava il distruttore: «in nome del mio amore e della mia speranza, ti scongiuro: non buttar via l’eroe che è nella tua anima!»[16]. Dunque, la classe organizzata avrebbe dovuto creare i propri miti, simboli, i propri ideali certo sapendo che sarebbero stati caduchi non essendo più inscritti nella volta celeste.


«Alla rude razza pagana è mancato lo spirito che “soffia dove vuole”, ma che non ha voluto soffiare da quella parte. Il punto di vista operaio non ha prodotto troppa ideologia, ha prodotto troppa poca fede. Oppure, possiamo dire, aggravando forse il problema per i cultori della ragione laica: la lotta operaia ha fatto storia ma non ha creato mito. E una storia senza mito non dura e soprattutto non passa, nel senso che non prende corpo nella coscienza delle masse, per diventare alimento attivo di altre più decisive lotte[17]».


Poi rileviamo, ad ennesima smentita delle sciocchezze dei cultori del progressismo, che, a partire da quella sconfitta, è ricominciata la storia delle classi subalterne che «solo l’irruzione della classe operaia consapevolmente organizzata aveva interrotto»[18] e che i conflitti politici retrocessi a conflitti sociali sono incapaci di generare quell’intensità che contraddistingue appunto il politico e che sola può determinare lo stato d’eccezione. Mentre la classe operaia era interprete di una volontà di potenza, nei conflitti che vediamo oggi c’è il suo opposto, la volontà di autoconservazione, di ricavarsi una nicchia in cui sopravvivere.

Quella storia è finita definitivamente, possiamo dunque chiudere il libro che la raccontava o qualcosa rimane? Molti pensano che Operai e capitale sia da considerarsi una parentesi nella traiettoria filosofico-politica trontiana, seguita da rotture e riposizionamenti. Invece, nell’essenziale, vi è piena continuità tra quello che Tronti pensava allora e quello che, nelle differenti fasi, ha teorizzato in seguito. L’obiettivo polemico è infatti sempre stato, sin da Operai e capitale, con un crescente grado di consapevolezza, ancor prima dello sfruttamento capitalistico, quello che potremmo definire l’apparato ideologico democratico-progressista, con tutti i suoi correlati universalismi. Mai, in nessuna pagina di Operai e capitale, la fase democratica e borghese della storia è considerata come il preludio o l’anticamera di un possibile sbocco rivoluzionario. Non è mai un’alleata, bensì il nemico più temibile che, avanzando sotto le forme di un «processo immane e trascinante»[19], democratizza e quindi stabilizza il sistema di dominio.

Il libro di Tronti prefigurava quello che sarebbe arrivato, ovvero il trionfo capitalistico sotto le insegne dell’apparato ideologico democratico-progressista. La vittoria del nemico accompagnata da quell’ideologia non sarebbe stata soltanto materiale ma avrebbe drammaticamente conquistato cuori e menti con una pervasività senza precedenti storici. A tal punto – è storia di oggi – da far dimenticare agli uomini che esista qualcosa di diverso dal vendere se stessi sul mercato per potersi accaparrare ogni genere di merce e così raggiungere individualmente la propria piccola felicità a portata di mano; il tutto nel pieno rispetto dei diritti individuali, che devono essere garantiti perché ogni cittadino va messo a profitto senza discriminazioni.

Questo formidabile processo apparentemente inarrestabile di omologazione delle forme di vita ha al suo centro “l’ultimo uomo» profeticamente anticipato da Nietzsche, che Tronti definisce “il borghese-massa», ovvero colui che ha inventato la felicità, che non vuole governare né obbedire e soprattutto che vive nell’inganno di credersi libero mentre in realtà è il tipo umano più massificato e omologato che la storia ricordi.


«"L’ultimo uomo" – l’homo oeconomicus democraticus – ha vinto: perché tale non è più solo il comune cittadino della gente, è la stessa grande personalità del leader. Non è più solo l’uomo del popolo, è la figura del principe. Chi è infatti l’ultimo uomo? Also sprach Zarathustra, Proemio, 5: non è quello che attecchirà su un terreno povero e addomesticato, «dove nessun altro albero potrà più crescere»? l’uomo che non scaglierà più il suo dardo al di là di se stesso, finché «la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare»? quello che vivrà nel «tempo in cui l’uomo non partorirà più nessuna stella»? "Nessun pastore e un solo gregge", vuol dire questo: che il pastore è ora il primo degli animali del gregge. Questa democrazia è l’autogoverno degli ultimi uomini. Estinzione della politica. Comunismo ovvero Europa, realizzato e rovesciato[20]».


Una sorta di comunismo «realizzato e rovesciato», quindi senza orizzonte dice Tronti, che ha neutralizzato la sfera politica sopprimendo il conflitto e, d’altronde, se il popolo si autogoverna che motivo avrebbe di confliggere con se stesso? Da qui l’insistenza, evidente già in Operai e capitale, sull’eccezione, la differenza, il dissonante, l’inconciliabile, sulla parzialità, in una parola sul negativo, ovvero, con le parole di Nietzsche, sui «lati dell’esistenza finora negati non solo come necessari, ma anche come desiderabili; e non solo desiderabili in rapporto ai lati affermati sinora (per esempio come loro complemento e condizioni preliminari), ma anche per se stessi, come i lati dell’esistenza più possenti, più fecondi, più veri»[21]. Ed è proprio nell’insorgenza operaia novecentesca che questi «lati dell’esistenza» avevano trovato forza ed espressione politica; all’esito della sconfitta sono stati assorbiti, criminalizzati o marginalizzati nel privato.

Il negativo è dunque libertà che passa attraverso il conflitto. Tronti, come Nietzsche, è stato ed è, senza soluzione di continuità nel suo itinerario teorico, un pensatore del conflitto. Ogni contenuto, ogni percorso indicato è un esperimento; provare tutto per esperimento. Potremmo dire, come il mago in Zarathustra, «tutto è menzogna in me, ma che io sia infranto – questo mio infrangermi è autentico[22]. Questo nocciolo conflittuale e indistruttibile è al fondo di tutta l’opera di Tronti: le diverse strade che da allora ha intrapreso vanno viste come mezzi utili per la battaglia. Perché il conflitto non è necessario per conquistare la libertà ma, più profondamente, esso stesso è libertà. Questa è una tesi filosofica e antropologica che Tronti così descrive:


«Io non ho mai creduto a quel falso del messaggio cristiano, legittimato dalla Chiesa, usato per ammaestrare i fedeli circa la lotta tra il bene e il male. Ho solo capito, per prova ed errore, che il male è quando non succede niente, quei lunghi tempi della vicenda umana grigi e spenti […] Il bene è quando sei costretto a schierarti. È la caduta nel peccato che ti fa nascere alla libertà. Senza questa costrizione esterna, in interiore homine non abita verità alcuna[23]».


Analogamente Nietzsche, dopo aver descritto i «travisatori dello spirito libero» come coloro che mirano all’«universale verde felicità-da-pascolo delle greggi, con sicurezza, assenza di pericoli, benessere, alleggerimento della vita per ognuno», affronta la questione della «pianta uomo» per affermare che questa nella storia è cresciuta vigorosa in altezza «sotto condizioni opposte e che per questo la pericolosità della sua situazione dovette aumentare in misura semplicemente enorme, la sua forza inventiva e dissimulatrice (il suo «spirito») svilupparsi, sotto una lunga oppressione e costrizione, in sottigliezza e temerarietà, e la sua volontà di vita potenziarsi fino all’assoluta volontà di potenza»[24]. E ancora: «Si dovrebbe cercare il massimo tipo di uomo libero laddove viene costantemente superata la massima resistenza»[25].

Il conflitto, il negativo deve però assumere un punto di vista, una postazione ben definita che gli consenta di dare forma alla sua ostilità, alla sua differenza verso un nemico che vuole e può integrarti. Punto di vista significa trascendenza contro l’immanenza degli odierni conflitti legati a singole evanescenti occasioni specifiche. La trascendenza del punto di vista è la condizione necessaria per un conflitto che sia già oltre senza avere la pretesa di sapere cosa sia quell’oltre. Tronti ha più volte ribadito che il punto di vista permane anche senza la classe. Permane proprio perché trascende: classe operaia è infatti solo il nome che si è dato a una forza che, in quella data congiuntura storica, si era data una forma definita. Il punto di vista è, prima di ogni altra cosa, una prospettiva sull’esistenza che pertiene a ciascun spirito libero. Così Tronti ha intitolato il suo ultimo libro rifacendosi proprio a questa figura nietzscheana. Allo stesso modo della classe descritta in Operai e capitale, lo spirito libero fonda se stesso su una «grande separazione»: «“piuttosto morire che vivere qui”, così parla la voce imperiosa della seduzione»[26], «un odio per l’amore»[27], «volontà di autodeterminarsi, di porre da sé dei valori, questa volontà di volontà libera»[28], «fino a quella matura libertà dello spirito, che è tanto padronanza di sé quanto disciplina del cuore, e che apre la via a molti e opposti modi di pensare»[29] e «che dà allo spirito libero la pericolosa prerogativa di poter vivere d’ora innanzi per esperimento e di potersi offrire all’avventura»[30]. Sino al disvelamento dell’enigma di quella grande separazione:


«Dovevi diventare padrone di te stesso, padrone anche delle tue virtù. Prima erano esse le tue padrone; ma esse devono essere solo tuoi strumenti accanto ad altri strumenti. Dovevi acquistare potere sul tuo pro e contro e imparare a saperli staccare e riattaccare, secondo il tuo scopo superiore. Dovevi imparare a comprendere ciò che appartiene alla prospettiva in ogni giudizio di valore: lo spostamento, la deformazione e l’apparente teleologia degli orizzonti e ogni altra cosa che fa parte della prospettiva […] Dovevi imparare a comprendere la necessaria ingiustizia di ogni pro e contro, l’ingiustizia come inseparabile dalla vita, la vita stessa come condizionata dalla prospettiva e dalla sua ingiustizia. Dovevi soprattutto vedere coi tuoi occhi dove l’ingiustizia è sempre più grande: là cioè dove la vita è sviluppata nel modo più piccolo, più ristretto, più meschino e più primordiale e tuttavia non può fare a meno di prendere se stessa come scopo e misura delle cose e di sgretolare e porre in questione segretamente e grettamente e incessantemente, per amore della sua conservazione, ciò che è superiore, più grande e più ricco[31]».


Lo spirito libero, con le parole di un altro maestro «operaista», dice: «anche se mi si dimostra mille volte che, per i motivi in vigore, una cosa è buona oppure bella, io sono e rimango indifferente, e l’unico segno sul quale regolerò il mio giudizio è: se la sua presenza mi abbassa o mi innalza. Se mi desta alla vita, oppure no»[32]. Il soffio dello spirito libero lo percepiamo quando sentiamo l’urgenza di separarci dal presente che ci soffoca e non ci lascia in pace con il suo asfissiante attivismo, da questa vita piccola, ristretta e meschina che pretende amore per cose che non ci riguardano. «Grande separazione non è da ciò che è stato, ma da ciò che è, dal qui e ora. È questo “qui”, questo “a casa”, che va abbandonato. L’odio per l’amore del presente è il sentimento dell’“uomo nobile”, cioè dello “spirito libero”»[33]. Fa bene Tronti a precisare che l’odio non è semplicemente contro il presente, ma proprio contro l’amore del presente. Non soltanto contro i meccanismi di sfruttamento, ma ancor prima contro le sue ideologie filantropico-umanitarie che ci spingono ad amare la nostra generale condizione di pazienti volontari di un’accogliente clinica psichiatrica.

Sull’odio esistenziale – non sulla critica teorica, che viene dopo – costruiamo giorno per giorno il nostro punto di vista libero, fuori e contro questa civiltà nemica. Poi di nuovo dentro per dare battaglia ma forti della consapevolezza di appartenere a quel fuori trascendente e per questo mai catturabili dall’immanenza. Se la classe operaia era, o almeno poteva essere, quella terra di nessuno inaccessibile all’ordine nemico, oggi quella terra si è ritirata dentro di noi. E dunque «Essere spirito libero vuol dire fondare una scuola interiore, dove si è maestri di se stessi, e discepoli di se stessi: sempre, ogni ora del proprio tempo, in ogni spazio della storia di tutti»[34].

La parabola che abbiamo raccontato, che va dalla potenza politica operaia all’interiorità impolitica dello spirito libero, la troviamo racchiusa nella definizione che Thomas Mann dà del romanticismo come l’espressione più pura dell’interiorità, Innerlichkeit: è «un’ironia che su tutto si libra […] non è per nulla debolezza e fantasticheria; è profondità cosciente della propria forza e pienezza; un pessimismo dell’onestà che si allea al reale, al vero» e che «tiene in scarsissimo conto ogni moralismo teorico e ogni mascheramento idealistico del mondo»[35]. Dall’eccedenza operaia alla nostra libera interiorità persiste, orgoglioso, il senso di distacco, l’ironia rispetto al presente che ci assedia, uno sguardo lucido che svela i suoi mascheramenti e la volontà di essere forti per non cedere mai. Con Musil si potrebbe dire matematica e mistica.

La classe operaia poteva stare dentro – anche se poi quello stare troppo dentro si è rivelato forse esiziale – e contro perché era una forza politica. Noi non ce lo possiamo permettere; per ora siamo esistenze invisibili unite dall’appartenenza ad una medesima patria dello spirito, un partito invisibile. «Noi vogliamo essere sempre soltanto con noi»[36], sapendo peraltro di non poter bastare a noi stessi.


«Ecco ch’io muoio e scompaio, diresti, e in un attimo sono un nulla. Le anime sono mortali come i corpi. Ma il nodo di cause, nel quale io sono intrecciato, torna di nuovo, – esso mi creerà di nuovo! Io stesso appartengo alle cause dell’eterno ritorno»[37].



Note [1] Tronti, Noi operaisti, cit., p. 63. [2] Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., p. 191. [3] Tronti, Operai e capitale, cit., p. 254. [4] Ivi, p. 249. [5] Ivi, p. 11. [6] Tronti, Noi operaisti, cit., p. 91. [7] Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., p. 179. [8] Ivi, p. 175. [9] Tronti, Operai e capitale, p. 291. [10] Ivi, p. 284. [11] Tronti, Noi operaisti, cit., p. 75. [12] Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 204. [13] Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., pp. 116-117. [14] Tronti, Noi operaisti, cit., p. 63-64. [15] Tronti, Cari compagni, cit. [16] Nietzsche, Così parlò Zarathustra, a cura G. Colli e M. Montinari, trad. M. Montinari, Adelphi, Milano 2011, p. 45. [17] Tronti, Noi operaisti, cit., pp. 85-86. [18] Mario Tronti, La politica al tramonto, Einaudi, Torino 1998, p. 76. [19] Ivi, p. 191. [20] Ivi, p. 192. [21] Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, cit., pp. 106-107. [22] Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 297. [23] Tronti, Noi operaisti, cit., p. 48. [24] Nietzsche, Al di là del bene e del male, pp. 49-50. [25] Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, cit., p. 114. [26] Friedrich Nietzsche, Umano troppo umano, 2 voll., a cura G. Colli e Mazzino Montinari, trad. S. Giametta, Adelphi, Milano 2013, vol. I, p. 6. [27] Ibid. [28] Ibid. [29] Ivi, p. 7. [30] Ibid. [31] Ivi, pp. 9-10. [32] Robert Musil, L’uomo senza qualità, 2 voll., a cura A. Frisè, trad. A. Rho, G. Benedetti e L. Castoldi, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 873. [33] Tronti, Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, cit., p. 262. [34] Ivi, p. 265. [35] Mann, La Germania e i tedeschi, cit., pp. 330-331 [36] Bloch, Thomas Munzer teologo della rivoluzione, cit., p. 29. [37] Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 259



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Andrea Cerutti (Torino, 1968) è un avvocato. È animatore del blog trontiano www.azioneparallela.org. Insieme a Giulia Dettori ha curato il volume collettaneo La rivoluzione in esilio. Scritti su Mario Tronti, pubblicato per Quodlibet.

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