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Verde petrolio. La natura nella città contemporanea



1. Paesaggi del capitale

Gli odierni territori metropolitani sono contraddistinti da una costellazione di spazi marginali, memoria di una visione della città come macchina produttiva. Con modi e intensità diverse, molti dei paesaggi urbani italiani che risalivano all’epoca del capitalismo fordista sono stati dismessi o trasfigurati dalle crisi di quest'ultimo. Il cambio di paradigma, avvenuto in maniera significativa a partire dagli anni ’70, viene prefigurato già durante gli anni della prepotente espansione urbana postbellica (Greppi, Pedrolli, 1963). I movimenti centrifughi del decentramento produttivo e residenziale hanno portato al concetto di città-territorio e a ragionare su un’urbanizzazione dilatata, discontinua, a bassa densità[1]. Negli ultimi decenni del ‘900, il recupero e la riqualificazione dell’esistente vengono adoperati per riparare alle disfunzioni di città amorfe e deliranti. All’interno dei tessuti urbani della diffusione e della dispersione assumono notevole rilevanza i brani di città avanzati, diventando gli spazi prediletti sui quali perlopiù lavorano ancora oggi le politiche di rigenerazione della città. I marginalia urbani (Gandy, 2013), luoghi che sono l’esito di un abbandono e l’indice di un destino incerto, possono essere letti come sintomo, nel senso di effetto e al contempo espressione, di un determinato sistema economico e politico. Questi scarti si potrebbero dire generati fisiologicamente dal processo metabolico della città, la cui forma tuttavia non può che essere considerata anche alla luce dei diversi processi di produzione.

Non a caso l’urbanistica come disciplina moderna nasce quando le forme di vita urbane, stravolte dalla crescente industrializzazione del sistema produttivo, necessitano di essere pianificate. Il sistema capitalistico come realtà storica produce la necessità di governare e prevedere la crescita urbana in quanto momento necessario al suo stesso sviluppo. La città industriale, o città fabbrica, mantiene per i primi decenni del Novecento l’assetto di un agglomerato governato da forze centripete di addensamento e coesione che mirano a concentrare popolazione e capitale: la compattezza della struttura urbana è perseguita principalmente in quanto vantaggiosa per l’economia delle relazioni sociali, della produzione e circolazione di merci (Aureli, 2016).

La forma della città che assume dimensioni territoriali è l’espressione del nuovo modo di produzione post-fordista. I suoi prodromi sono già visibili nel periodo della prepotente urbanizzazione, concentrata e intensiva, degli anni ’50 e ’60. I criteri del post-fordismo concorrono a trasformare e plasmare la geografia urbana: il processo produttivo e di circolazione del capitalismo avanzato esige nuove dimensioni, facendo leva sull’infrastrutturazione del territorio. Il sistema della fabbrica dacché trovava la sua localizzazione strategica nella città compatta si spalma oltre le sue mura ruinanti sull’intero territorio, toccando lo spazio intercomunale. Il decentramento industriale, in particolar modo al centro-nord italiano, anticipa e spiega il decentramento insediativo, portando gradualmente alla configurazione degli odierni territori metropolitani (Ombuen, 2017) frutto di una progressiva esplosione della città: dalla profusione di nuclei produttivi sul territorio dettata da convenienze economiche, alla realizzazione di nuove maglie infrastrutturali; dall’erosione della dimensione rurale in virtù di nuovi e frantumati insediamenti residenziali al dissennato consumo di suolo. Il processo si accompagna al pigro oblio della vitalità degli spazi pubblici, che di ogni città e di ogni sua escrescenza che voglia esserle affine costituisce l’anima più irrequieta. I paesaggi dismessi del capitale si rivelano i luoghi silenti e residuali sui quali scommette la città del futuro.


2. The call of the wild

Le politiche di sviluppo del territorio sono da tempo orientate verso due obiettivi: il riuso di ciò che nei cicli di espansione della città è divenuto desueto; la de-impermeabilizzazione dei suoli, per sostituire all’asfalto copiosamente steso nuove «infrastrutture verdi e blu»[2]. Gli spazi vacanti prodotti nell’evoluzione della forma urbis sono guardati ora come opportunità imperdibili per recuperare risorse in termini di sostenibilità. La natura in città, intesa come trasposizione di una parte del mondo vegetale e di quello animale nel tessuto urbanizzato, ha assunto funzioni eterogenee (le vesti della villa, del giardino signorile, del parco pubblico, dei prati civici, degli orti urbani, ecc.). Queste stesse funzioni sembrano confermarne ed esasperarne l’originaria funzione di rimedio e antidoto contro i mali urbani.

Tra l’Ottocento e il Novecento ai giardini e ai parchi urbani viene affidato un ruolo compensativo rispetto alle inconvenienze incalzanti dell’industrializzazione, a volte guardando con nostalgia il paesaggio rurale. Contro i disagi del capitalismo industriale si prescriveva una terapia estetica, somministrando intarsi e tasselli di natura edenica, appositamente arredata per ospitare i riti sociali. Talora razionale e addomesticato, talvolta volutamente spettinato e informale, il cosiddetto verde urbano abbandona stili rigidi e codificati (cfr. Metta, Olivetti, 2019). Oggi la strategia è cambiata. La terapia in voga, di ispirazione pseudo-ecologica (Gorz, 2009), tenta non solo di frenare il consumo di suolo ma di assimilare il mondo naturale a una merce preziosa. Alla strategia urbanistica della cura del ferro (tram, ferrovie, metrò), prescritta contro i malesseri del trasporto urbano, si aggiunge la cura della natura, che funge piuttosto da stupefacente palliativo. Questo nuovo antidoto è un sintomo preminente del capitalismo contemporaneo, che non si accontenta di mettere a lavoro l’intera natura umana (Virno, 2014) preferendo chiamare in gioco la natura nella sua totalità. Il valore della natura in città è oggi determinato dalla sua capacità in quanto ecosistema di contribuire alla corsa verso la sostenibilità ambientale, sociale ed economica. L’uomo cartesiano, maître et possesseur de la nature, da scienziato piegava il mondo naturale sotto il giogo del proprio dominio spirituale e materiale; ora si fa imprenditore, chiedendo aiuto a quella natura che a lungo ha assoggettato, affinché egli possa continuare a mantenere la sua posizione di dominus. Ecco quindi che le funzioni del ciclo vitale diventano servizi ecosistemici. I benefici multipli forniti dagli ecosistemi al genere umano (MA, 2005) sono stati classificati e contabilizzati appositamente a favore della nostra prosperità economica e del nostro benessere. A tal proposito, il concetto di «capitale naturale» indica il valore in termini fisici, monetari e di benessere che la biodiversità offre al genere umano. Presso l’ex Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare (MATTM; oggi MiTE) è stato istituito un comitato per il capitale naturale (CCN). La sua funzione è promuovere sistemi di contabilità ambientale predisponendo appositi bilanci. Si legga, ad esempio, un passo dal secondo rapporto del CCN che sprona ad affinare quanto più la misurazione del capitale naturale rivendicandone il fondamentale ruolo [3]:


«Questo Secondo Rapporto, inoltre, inizia a delineare un percorso metodologico importante in merito all’attribuzione di una misurazione monetaria del flusso di Servizi Ecosistemici prodotti dal nostro Capitale Naturale. Seguendo le Raccomandazioni del Primo Rapporto, si riporta una prima applicazione, del tutto introduttiva e sperimentale, dei sistemi di contabilità economico-ambientale di alcuni Servizi Ecosistemici come l’impollinazione agricola, i servizi ricreativi, la purificazione delle acque, oltre che valutazioni economiche della qualità degli habitat e dell’importante servizio di mitigazione dell’erosione del suolo. I valori monetari ottenuti, seppur frutto di metodologie da perfezionare e di ipotesi da raffinare nei prossimi rapporti, aprono una prospettiva ineludibile circa la straordinaria importanza del Capitale Naturale, anche in cooperazione con altri tipi di capitale come quello Culturale, in merito alla dimensione di quella Ricchezza delle Nazioni di cui si cerca la radice».

Sarebbe indispensabile testare metodi con i quali misurare il valore fisico e monetario della dotazione di foreste, biodiversità, fiumi, mari, insomma della totalità degli ecosistemi. Il valore è determinato dai benefici erogati dall’insieme di quegli elementi naturali che fino ad oggi sembrano essere stati pressoché ignorati. Per rendere perspicua l’azione giovevole della natura occorre tradurla in euro. Come si evince dalla sua definizione, i frutti dell’investimento del capitale naturale sono destinati alla nostra specie (ivi, p. 16):


«Il CN è stato definito, seguendo l’esempio del Regno Unito (UK NCC, 2013), come: “l’intero stock di asset naturali - organismi viventi, aria, acqua, suolo e risorse geologiche - che contribuiscono a fornire beni e servizi di valore, diretto o indiretto, per l’uomo e che sono necessari per la sopravvivenza dell’ambiente stesso da cui sono generati”».

Al monitoraggio dell’ambiente urbano e alla misurazione delle performance naturali fornite gratuitamente alla società è affidato il compito paradossale di rimediare ai mali del moderno modo di produzione. Il capitalismo contemporaneo sprona all’investimento in città resilienti come l’acciaio e che si rigenerano come arabe fenici, configurandosi come farmacon nella sua originaria duplice accezione di «veleno» e di «cura». Negli ultimi anni si sono scatenati progetti e letteratura aventi come oggetto questi concetti raffinati importati da altre discipline. Di recente, ha guadagnato posto in classifica anche una particolare pratica che affascina gli amanti dell’inverdimento, si tratta della forestazione urbana, chiamata talvolta «ri-forestazione». La foresta, lontana dal denotare metaforicamente la caoticità della vita metropolitana, viene indicata come medicina contro i mali urbani più disparati: sostanze inquinanti, isole di calore, dissesto idrogeologico, consumo di suolo, degrado di aree marginali, disagi psicologici, esclusione sociale, disoccupazione. Nella dialettica tra natura e cultura la prima diventa la soluzione agli spinosi problemi della seconda. Importati dall’oltreoceano, seguendo l’esempio di città statunitensi, gli hub verdi irrompono in Italia con l’incalzare delle crisi climatiche. Nonostante il lieve ritardo rispetto al panorama mondiale, è stato di recente approvato il Decreto attuativo della legge Clima che mette a disposizione 30 milioni di euro per la realizzazione di foreste urbane e periurbane nelle città metropolitane nel biennio 2020-2021. In qualche città all’avanguardia si supera la foresta per fare spazio alla giungla. Rivestendo di vegetazione tutte le superfici possibili di un’area densamente edificata, si darebbe l’impressione di una poderosa natura indomata o di un costoso tappeto? Non importa; lo slogan dominante risuona: città più verdi, più salutari, più felici.

Arrivati a toccare con mano i danni determinati da metropoli consumiste e sprovvedute, si propone di «tornare alla natura». Si segue l’illusione di ripristinare magicamente uno stato antecedente indeterminato e perduto. Questo stato di natura, obliato e ora ricercato, non sembra avere una collocazione temporale precisa. Non è chiaro se preceda in qualche modo la storia riferendosi all’età dell’oro esiodea, se coincida con il suo inizio nel paradiso terrestre, oppure se si collochi in tempi moderni quando il disegno della città ha smesso di avere a che fare con il paesaggio. Certamente poco o nulla c’entrano qui i ragionamenti di Hobbes.

Ciò che conta e si contesta non è la desiderabilità in sé della natura in città. Piuttosto l’immaginario che si evoca scegliendo tra i tanti paesaggi ed ecosistemi naturali quello della foresta o della giungla. Se alle porzioni urbanizzate oramai futili si sostituiscono alberi piantumati, perché prendere a prestito specifici ecosistemi per noi inconsueti? Similmente benevoli potrebbero essere ad esempio boschetti, selve, arboreti, praterie. Eppure questi non compaiono come attori protagonisti nelle attuali strategie ambientali. Banali sono divenuti i parchi e giardini. L’appeal della foresta deve la sua forza a desideri e paure codificate e consolidate nell’immaginario collettivo (Konijnendijk, 2008; Pandolfi, 2018). Per la società spettacolista (Debord, 1967) ogni bene si fa merce, una merce-spettacolo. Acquistando presunte foreste, non si trasforma la città ma la sua immagine. Il verde accresce il capitale simbolico (Harvey, 2018) e il capitale naturale delle metropoli, non è detto che aumenti di conseguenza la qualità della vita dello spazio urbano.


3. Inattualità degli scarti versus resti superlativi

Alcuni paesaggisti propongono un’interpretazione differente degli spazi residuali urbani. La letteratura annovera una moltitudine di termini con i quali classificarli[4]. Ricorre una medesima immagine: luoghi che sono l’esito di un abbandono e l’indice di un destino incerto. Si restituisce una percezione che oscilla tra l’entusiasmo liberato e il carezzevole perturbante. La rappresentazione, anche fotografica, dell’estetica e delle tonalità emotive del terrain vague (Solà-Morales, 1995) ne ha acceso il fascino e messo in risalto le contraddizioni: a far scalpore è il suo essere al di fuori del circuito ordinario della città, costituendo una sorta di rovina del contemporaneo.

Marginali, in senso simbolico e a volte spaziale, non sono solo gli avanzi determinati dal disegno a tavolino della città contemporanea ma anche quei luoghi che sono stati abbandonati a seguito del decentramento produttivo e residenziale postfordista. Lo scarto è il residuo espulso di volta in volta all’interno del processo vitale, l’«eccedenza» avrebbe detto Georges Bataille (1949). I paesaggi dello scarto sono i prodotti delle trasformazioni socio-economiche della città. Questi, in virtù della loro marginalità, ospitano una natura selvatica a lungo misconosciuta, nemica dei monumenti, indecorosa, infestante e irreprensibile. Le cosiddette erbacce, come anche le piante e gli alberi spontanei da sempre presenti nelle pieghe del tessuto urbano, vengono notate, legittimate, talvolta celebrate, fino ad essere riconosciute come rifugi ecologici, isole di biodiversità e definite in base a specifici ruoli (core areas, buffer zones, stepping stones). Eppure ciò che vince sullo spontaneo è l’immagine di nuove, brillanti e possenti foreste. Pare necessario che nel tessuto urbano ciò che avanza diventi straordinario e dismetta la sua attitudine incerta: il ranocchio nulla può se non diventare principe. Eppure qualcuno ha detto che il paesaggio è un presente del passato.

Spesso si descrivono questi luoghi mediante la forma della negazione: inutilizzati, incerti, non occupati, imprecisi, incolti. Il più delle volte questi aggettivi composti con prefissi di negazione ricorrono in lamentosi o critici giudizi di valore dispregiativo. Eppure l’utilizzo della negazione, l’adoperare il segno «non», semanticamente si limita a esprimere il non-essere, la differenza. Il valore di un enunciato negativo («questa tela non è bianca») mantiene e sospende il significato dell’affermazione corrispondente e non coincide affatto con l’affermazione del contrario. La negazione, che non qualifica ulteriormente gli stati di cose a cui si riferisce, apre le porte ad un campo semantico potenziale (Virno, 2013). Il carattere proprio dei paesaggi di scarto consiste nell’inattualità. Inattuali sono per un primo grezzo ordine di ragioni: non sono conformi agli interessi spettacolisti della visione dominante nell’architettura della città contemporanea; non godono di una reputazione felice per la gran parte delle persone; non sono portatori di valori comprensibili alla società dell’igiene e del decoro. L’unico interesse che per loro sembra essere nutrito coincide con il desiderio di riaccorparli con efficienza alla trama di spazi metropolitani ordinari.

Il secondo motivo che consente di chiamarli «inattuali» va rintracciato nell’accezione aristotelica della coppia potenza e atto. La potenza (che in greco suona dynamis) la si ha, è una facoltà, capacità, abilità che dir si voglia, indipendente dal suo uso, esiste a prescindere dagli atti in cui si concretizza (Aristotele, Metafisica, IX). Ad esempio potenza è per gli umani quella di parlare. Questi paesaggi sono inattuali anzitutto perché incarnano la sospensione di ciò che è abitabile, che può essere abitato e ancora non lo è. Nel ventaglio di configurazioni che questa specie di spazi può assumere generalmente la prima a verificarsi è il divenire ricettacolo di vegetazione potenziale.

Arriviamo a un ultimo motivo che correla i due precedenti: la negazione logica e la modalità del possibile (Virno, 2013). Dire che un paesaggio urbano è inattuale può essere parafrasato in due modi: questo paesaggio semplicemente non è attuale, non è ancora per noi realmente in uso, come diremmo essere altri luoghi abitualmente vissuti, manutenuti e disciplinati; questo paesaggio è potenziale, ovvero possiede una certa vocazione a divenire qualche cosa che ancora non è presente ai nostri occhi e proprio per questo potremmo allora dire che però è usabile. Immaginare ciò coincide con l’assodare due direzioni uguali e contrarie («è possibile che»; «è possibile che non»).

Gli spazi residuali della città contemporanea sono delle eccezioni, non più fabbriche, non ancora lotti edificati. Sono i luoghi del possibile, del non ancora, di una città altra dall’attuale. Questi paesaggi indefiniti costituiscono sistemi di possibilità, alternative alla realtà data. Fin qui ancora nulla di così nuovo all’orizzonte, solo una rasserenante carrellata di opportunità variegate alle quali eventualmente sarà lecito attingere. Occorre mobilitare il modo di pensare controfattuale (periodo ipotetico dell’irrealtà), che mette in scena cosa accadrebbe se le cose non stessero così come sono, per interrogarsi su cosa è necessario fare: non solo dire e immaginare le cose come non stanno ma definire una nuova direzione. Nel condizionale controfattuale la negazione schiude e sceglie una delle possibilità. Il linguaggio qui possiede una portata trasformatrice (Eliot, 2010, p. 57):


«Qui non c’è acqua, ma soltanto roccia

roccia non acqua e la strada di sabbia [...] se qui ci fosse acqua ci fermeremmo a bere

[…]»


Oppure ancora: «Se qui continuasse a crescere un bosco, chissà quali altri animali ci verrebbero».

I paesaggi metropolitani dello scarto sono già gremiti di forme vita, non è detto che il rimedio siano nuove pennellate di verde petrolio, accattivanti giungle o feticci di foreste. Si dà per assodato che la «Natura» (quella con la maiuscola iniziale che tutto comprende perché pura origine) è un costrutto culturale. Non meno plausibile è affermare che la metropoli è una formazione linguistica (Virno, 2002) che altera e modifica comportamenti pre-verbali e non verbali, retroagisce interamente sul nostro modo di stare al mondo e di trasformarlo. La città in quanto ambiente manipolato, progettato o improvvisato che sia, è vissuta mediante forme linguistiche. La città come esperienza è fatta di imperativi, ammonizioni, elogi, connettivi logici, periodi ipotetici, nomi propri e così via. La scelta di una strada si fa con il «se…allora…»; le aree a parcheggio ammoniscono sul dove lasciare in sosta l’auto; i bivi si leggono come disgiunzioni; scorci urbani incarnano paure e desideri; gli obelischi appaiono come dei fermacarte, scrisse Walter Benjamin (1983, pp. 31-32). Dicono che la città contemporanea si è fatta indicibile e irrappresentabile. Ciò ha il grado di verità al quale può ambire l’apparenza. Intrappolati nelle fantasmagorie della macchina metropolitana non resterebbe altro da fare che destreggiarsi tra impulsi sensoriali illusori. Non si potrebbe più conoscere e comprendere né tanto meno organizzare la propria esperienza e quella altrui. Più che rassegnarsi al commiato dal linguaggio messo in scena da Godard nel film Adieu au langage si tratta di comprendere il senso della sua onnipresenza (Virno, 2002, p. 59):


«Segno distintivo della metropoli contemporanea non è tanto il pullulare dei gerghi, quanto la piena identità di produzione materiale e comunicazione linguistica. Questa identità spiega e incrementa quel pullulare».

Occorre tentare di ravvisare le forme linguistiche che i paesaggi urbani incarnano e rendono appariscenti per immaginare ancora diversamente questo strano habitat che è la città.



Riferimenti bibliografici

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Note [1] Inter alia: città diffusa: Indovina, 1990; rururbanizzazione: Dematteis, 1992; urbanizzazione dispersa: Barattucci, 2004. [2] Definite nel 2013 dalla Commissione europea come «la rete di aree naturali e seminaturali pianificata a livello strategico con altri elementi ambientali, progettata e gestita in maniera da fornire un ampio spettro di servizi ecosistemici. Ne fanno parte gli spazi verdi (o blu, nel caso degli ecosistemi acquatici) e altri elementi fisici in aree sulla terraferma (incluse le aree costiere) e marine». [3] Comitato Capitale Naturale, Secondo Rapporto sullo Stato del Capitale Naturale in Italia, 2018, p. 8. [4] Inter alia: derelict land: Oxenham, 1966; vacant land: Northam, 1971; wasteland: Gemmell, 1977; the void: Borret & Eeckhout, 1999; dross: Lerup, 1994; terrain vague: Solà-Morales, 1995; paesaggi attuali, Stalker, 2000; dead zones e transgressive zones: Doron, 2000; superfluous landscapes: Nielson, 2002; spaces of uncertainty: Cupers & Miessen, 2002; Tiers-Paysage e délaissés: Cleḿent, 2004; drosscape: Berger, 2006; friche paysagée: Lizet, 2010; marginalia: Gandy, 2013.


Immagine: Christopher Wood

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