Il seguente testo di Sergio Bologna, tratto dal volume, a cura di Alberto Magnaghi, La rivista «Quaderni del territorio». Dalla città fabbrica alla città digitale. Saggi e ricerche (1976-1981), edito da DeriveApprodi nel 2021, ripercorre le intuizioni teoriche della rivista connesse ai processi di ristrutturazione produttiva compiutisi in quegli anni: dal decentramento produttivo nel quadro di una nuova divisione internazionale del lavoro all’utilizzo della flessibilità come metodo di gestione della forza-lavoro; dalla terziarizzazione – e al suo stretto rapporto con il processo industriale – alla precarizzazione della forza-lavoro. Percorsi di ricerca sviluppati poi negli anni successivi e che spiegano l’importanza ricoperta dalla rivista nel pensiero operaista.
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«Quaderni del Territorio» comincia a nascere nel 1972-73 con i progetti di ricerca che troveranno spazio nel primo numero. Un anno decisivo il 1973, un anno di svolta, che per certi versi rappresenta il punto più alto raggiunto dalle lotte iniziate con il ciclo del ’68 e al tempo stesso il punto di rottura di quel ciclo, provocato da un evento che avrebbe scosso il mondo capitalistico di tutto l’Occidente: la cosiddetta «crisi petrolifera» (ottobre 1973). In aprile si era conclusa la lotta per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, deludente sul piano degli aumenti di salario (erosi in anticipo da circa 200 ore di sciopero) ma importante per il peso che finalmente veniva dato alla questione ambientale, per l’inquadramento unico operai-impiegati e soprattutto per la conquista del diritto allo studio (150 ore). La crisi petrolifera – a parte gli effetti devastanti sui costi di determinati settori industriali – porta alla ribalta del potere mondiale gli Emirati Arabi e crea una massa di liquidità che determinerà a breve l’inizio della finanziarizzazione dell’economia, ma incide anche in maniera significativa sullo standard of life della borghesia occidentale, sull’auto come strumento di mobilità, ad esempio. Chi è stato componente attiva dei movimenti di rivolta del ’67-68, soprattutto chi ha partecipato in prima persona alla rivolta operaia del ’69 e dell’autunno caldo, chi poteva disporre di quel sistema di pensiero così organico come l’operaismo, colse immediatamente che l’aria era cambiata e che la controffensiva capitalistica avrebbe spazzato via anche molti elementi sui quali si era costruita la crescita postbellica in Europa. Prevalse in quel momento il pessimismo della ragione, controcorrente e minoritario perché l’insieme delle forze gruppuscolari che avevano agitato le acque del ’68 continuava a pensare e ad agire come se l’onda del ’68 fosse destinata anzi a crescere. Queste forze semmai individuavano le zone di resistenza capitalistica nella reazione del terrorismo nero protetto e manovrato da importanti apparati di Stato. Chi si era nutrito del pensiero operaista invece guardava più lontano, consapevole che la qualità dell’attacco subìto dal capitale nel periodo ’67-73 avrebbe prima o dopo scatenato una controffensiva altrettanto carica di aspetti innovativi, non una semplice «reazione» ma una vera e propria «rivoluzione dall’alto». Concetto che Marx aveva elaborato sull’esperienza delle lotte di classe in Francia e in particolare dalle innovazioni che il capitale era riuscito a imporre durante il regime di Napoleone III (nascita delle società per azioni, nascita della banca d’affari, trappola del debito nei confronti dei paesi in via di sviluppo, nascita delle grandi infrastrutture ferroviarie, apertura del canale di Suez ecc.). Nel ’73 nasce «Primo Maggio», nel ’76 esce il primo numero di «Quaderni del territorio». Tra coloro che vi daranno impulso ci sono persone che hanno avuto un ruolo non del tutto secondario in «Potere operaio» e che in parte se ne sono allontanate. Ma mentre «Primo Maggio» decide di agire e di diffondersi in quel magma informale ma estremamente stimolante rappresentato dai circuiti delle librerie alternative e delle iniziative politi-culturali autogestite, «Quaderni del Territorio» apre un fronte d’innovazione delle discipline esercitate nelle Facoltà di Architettura che cambierà profondamente la didattica, i contenuti e l’approccio metodologico in più punti del mondo universitario. Viene spontaneo a questo punto il paragone con l’Istituto di Dottrina dello Stato della Facoltà di Scienze Politiche di Padova diretto da Toni Negri. È stata un’esperienza dirompente nel mondo accademico italiano. L’irruente determinazione di Negri, la sua produzione scientifica, la spregiudicatezza con la quale conquistò una posizione di potere impensabile da parte di uno studioso che si richiamava esplicitamente alle esperienze rivoluzionarie, aveva dimostrato che la fortezza accademica era espugnabile. Ma quella esperienza rimase isolata, non riuscì a moltiplicarsi, a generarne altre della stessa consistenza. Alberto Magnaghi e i suoi compagni sono riusciti invece a creare una vera e propria «scuola» che ormai si è insediata in diversi sedi universitarie e ha ottenuto un riconoscimento internazionale per la sua originalità e carica innovativa nel mondo dell’urbanistica e della scienza del territorio.
I connotati della «rivoluzione dall’alto»
Quali sono le grandi trasformazioni dell’assetto capitalistico che i ricercatori di «Quaderni del territorio» riescono a individuare? L’editoriale del numero 1, firmato da Alberto Magnaghi, prende le mosse da un interrogativo tipico degli studiosi di urbanistica, da un tema molto «tradizionale», il tema della metropoli «dal volto umano», del decongestionamento delle città. Tema caro a chi continuava a illudersi che la rivolta operaia del ’68-69 era dovuta ai tram troppo affollati, all’assenza di fognature nei nuovi complessi residenziali, alla mancanza di asili nido – tutte cose giuste e sacrosante ma che non andavano alla radice dei problemi. Magnaghi scrive:
Ma la «riforma democratica» della metropoli, entro lo sviluppo, non si è data. Nella crisi, il processo si è rovesciato: sono direttamente le forze trainanti del Capitale a operare il decongestionamento delle metropoli: non certo nel senso voluto dai «pianificatori democratici», ma come strumento specifico di attacco alla composizione di classe, per riprodurre squilibri a scala più allargata e costruire nuove gerarchie e stratificazioni nella forza lavoro sociale, per ricostituirne l’asservimento al processo di valorizzazione del capitale.
E ancora:
Lo smantellamento di quel gigantesco «laboratorio artificiale» che è la metropoli proletaria si configura sostanzialmente come tentativo di espulsione della forza lavoro massificate nei settori trainati del precedente modello di sviluppo, entro un processo di valorizzazione delle aree stesse attuato con l’incremento relativo di funzioni terziarie di comando, e di settori ad alta composizione tecnica di capitale; processo che deve avere come conseguenza il fatto di rendere politicamente minoritario l’«operaio massa», modificando radicalmente la struttura e la composizione della forza lavoro (p. 17).
A dimostrazione di queste tesi seguono le relazioni di tre corposi progetti di ricerca empirica, il primo di carattere generale, il secondo sull’area torinese e il ciclo dell’auto, il terzo sull’area della metropoli lombarda. Torino e Milano ancora una volta al centro dell’attenzione, là dove lo scontro di classe si è manifestato nelle sue forme più nitide, là dove la composizione di classe presenta ogni tipo di sfaccettatura. Il primo di questi saggi, a cura di Mariarita Andreola, Giancarlo Capitani, Pietro Laureano e Giancarlo Paba, mette a fuoco lucidamente il fenomeno planetario che sarà destinato a mutare il volto del capitalismo globale nel mezzo secolo successivo, il decentramento produttivo nel quadro di una nuova divisione internazionale del lavoro:
La redistribuzione multinazionale dei cicli e delle attività produttive si realizza dunque mediante la localizzazione di funzioni direttamente produttive in aree geografiche i cui attributi «ambientali» vengono valutati dall’impresa in base a un sistema di variabili che si riassumono nella combinazione di differenziali salariali, o comunque connessi a funzioni a monte e a valle della produzione, e di «differenziali politici» (p. 48).
Sull’esempio del ciclo dell’auto, del settore petrolchimico, della siderurgia e di altri comparti industriali il fenomeno del decentramento viene analizzato e documentato.
Il massiccio processo di redistribuzione delle attività produttive a scala multinazionale esporta dunque i meccanismi di formazione e di riproduzione di forza lavoro salariata ad alcune aree geografiche che ne garantiscano coattivamente il funzionamento. Ma estendendo geograficamente l’area del salario l’iniziativa capitalistica può trovare soltanto sul medio periodo una risposta alle proprie «impossibilità» nelle economie sviluppate. In prospettiva essa costruisce nel sottosviluppo le condizioni materiali per la trasformazione dello sfruttamento di rapina a sfruttamento mediato dal sistema di fabbrica (p. 64).
Si avverte subito la lezione operaista, il fenomeno del decentramento non è analizzato e percepito solo come movimento fisico, meccanico, di trasferimento d’impianti e know-how, è letto alla luce delle implicazioni che questi trasferimenti possono avere sulla composizione di classe. Si tratta d’interrogarsi su quali saranno i nuovi «teatri del conflitto». La risposta è, a dirla tutta, un po’ «fideistica»:
Ma ampliando la classe dei salariati essa la classe capitalista va soltanto estendendo le dimensioni del proprio accerchiamento e la possibilità della sua estinzione (p. 94). «Quaderni del territorio» individua qui chiaramente quella che sarà una delle caratteristiche fondamentali della strategia capitalistica dei decenni a venire, la tendenza forse più importante dell’apparato produttivo/distributivo da cui si generano i nuovi metodi di gestione della forza lavoro, l’incarnazione stessa del postfordismo: la flessibilità.
Le caratteristiche degli impianti si adeguano alla natura di questo rapporto di dominio internazionale, alla molteplicità e variabilità della composizione di classe, alla imponderabilità e imprevedibilità del rapporto politico e di potere. Essi sono diversificati nei vari mercati o, meglio, rispetto alle diverse composizioni di classe; flessibili, possibili, cioè, di rapida conversione e ammortamento prima che l’impianto stesso e le altre attrezzature divengano obsolete, ma soprattutto sono sostituibili perché la strategia del moderno assetto della dominazione capitalistica si fonda sulla possibilità di giocare la molteplicità delle risorse e delle situazioni, contro l’attacco particolare; si basa sulla possibilità di spostare, ristrutturare o lasciare completamente inutilizzate le fabbriche se ciò è necessario: sulla capacità di usare la crisi come attacco alla classe, di creare lavoro, sviluppo quanto di distruggerlo (p. 64).
Siamo nel 1976, se pensiamo che il termine «flessibilità» diventerà una specie di mantra negli anni ’80, ripetuto alla noia da tutti i discorsi riguardanti il modo di produzione dominante, dobbiamo riconoscere ai ricercatori dei «Quaderni» una bella dose di capacità di visione anticipatrice. «La ristrutturazione del ciclo Fiat nell’area metropolitana torinese», a cura di Silvia Belforte, Emanuela Merli, Paolo Morello, Danilo Riva, è il titolo del saggio successivo. Qui risulta con asso- luta evidenza il peso che il pensiero di Romano Alquati ha esercitato sull’approccio metodologico dei «Quaderni del territorio». Se i suoi scritti hanno esercitato un’influenza notevole su più generazioni di ricercatori interessati alle problematiche di fabbrica e alla società-fabbrica, a me pare che le tracce del suo magistero nel percorso dei «Quaderni» sono tante e così profonde che meriterebbero forse un’analisi specifica. Indubbiamente il legame con Alberto e con la sua militanza politica a Torino è stato uno dei motivi principali di questo rapporto così stretto ma anche l’interesse specifico che Romano ha sempre dimostrato per le interrelazioni tra fabbrica e territorio:
... a partire dagli anni Settanta emerge un primo nuovo carattere fondamentale di organizzazione: la disaggregazione territoriale del corpo principale del ciclo di impresa, e il conseguente abbandono della grande fabbrica quale modello di riferimento per l’espansione della multinazionale. Tale. Disaggregazione territoriale si sviluppa su due piani. Il primo è quello costituito dal decentramento delle nuove estensioni di produzione nazionale al di fuori dell’area torinese. Sulla base dell’accordo sindacale del ’69, entrano in funzione nel ’71 i primi stabilimenti del primo programma triennale per il mezzogiorno, per un’occupazione complessiva dell’ordine di 20 mila unità. Il secondo piano è quello della ulteriore integrazione internazionale dei flussi di produzione con le diverse consociate e licenziatarie all’estero. È del 1974 l’entrata in funzione dello stabilimento Fsm in Slesia (Polonia), il quale rifornisce direttamente Mirafiori dell’intero gruppo motore della 126 (p. 115).
Ma l’orizzonte abbracciato da questo saggio è molto più ampio e va ben al di là della tematica della ristrutturazione del ciclo, perché tocca due ambiti d’indagine che negli anni seguenti avrebbero assunto importanza cruciale: il problema del terziario e il problema della Cassa integrazione. Fedeli all’approccio alquatiano, gli autori cominciano a osservare il terziario dentro il processo produttivo, evitando di cadere nella trappola che considera il terziario un qualcosa a sé stante dalla manifattura, un generico settore dei servizi dove c’è di tutto, dalla finanza al trasporto, dalla salute alla consulenza d’impresa. Questo consente loro di osservare da vicino i mutamenti della composizione di classe, la terziarizzazione delle tute blu, la moltiplicazione delle figure di tecnici necessari alla gestione di processi ormai avviati verso l’automazione. Il terziario non comincia là dove finisce la manifattura, il secondario; il terziario nasce all’interno del processo industriale. Il terziario cambia il peso, l’importanza dell’operaio massa nel ciclo, ne organizza e gestisce il controllo in maniera più sofisticata del vecchio taylorismo fordista. Ma assieme alle modificazioni indotte dalla terziarizzazione interna i ricercatori dei «Quaderni» vedono chiaramente la preoccupante crescita di occupazione marginale (lavoro a domicilio, doppio lavoro all’interno del ciclo trainante, lavoro precario). Direi che questo è il vero punto di svolta del lavoro dei «Quaderni», capaci d’individuare con anticipo quella che sarà la grande epocale tendenza alla precarizzazione della forza lavoro. Ci arrivano prima di altre riviste, prima del sindacato ed è questo un merito che va loro riconosciuto, forse anch’esso debitore d’intuizioni alquatiane. E poi la Cassa integrazione, alla quale il saggio dedica un’analisi dettagliata del suo impiego in area torinese. Soltanto oggi forse noi ci rendiamo conto del ruolo assolutamente fondamentale che ha potuto svolgere lo strumento della Cig nell’imbrigliare la resistenza operaia, nell’emarginare le avanguardie di lotta e nel trascinare l’industria italiana verso la palude dell’assistenzialismo. Altrove ho cercato di focalizzare meglio il ruolo della Cig come «arma di pacificazione di massa» (v. il mio saggio Il lungo autunno per l’Annale Feltrinelli 2017). Qui mi limito a ricordare che anche «Primo Maggio» dedicherà in quegli anni un’attenzione particolare alla Cassa integrazione nella sua evoluzione come misura di sostegno alle imprese ma soprattutto come strumento di selezione e discriminazione politica (in particolare documentando la vicenda dell’Innocenti di Lambrate). «Il ruolo dell’area lombarda nei processi di ristrutturazione produttiva», a cura di Lucia Martini e Sandra Perelli, è il titolo del saggio successivo. Qui va subito notato che una parte consistente del saggio riproduce le dispense che le autrici, in particolare Sandra Perelli, avevano preparato per il corso delle 150 ore intitolato «Analisi territoriale dell’area di Lambrate» che si era tenuto alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano nell’anno accademico 1974-75. Questo dimostra come il gruppo dei «Quaderni del Territorio» avesse immediatamente colto il carattere innovativo del diritto allo studio sancito dal contratto dei metalmeccanici del 1973 e avesse subito messo a disposizione della classe operaia delle concentrazioni industriali più vicine le strutture universitarie, approfittando dell’opportunità di poter avviare un percorso di conricerca e un’esperienza didattica del tutto nuova e stimolante. Che cosa hanno rappresentato le 150 ore? Una bellissima sfida per tutti coloro che esercitavano il ruolo di docenti nella scuola e nell’Università. Si doveva trovare una forma nuova e degli strumenti nuovi della didattica, i libri di testo tradizionali, anche i migliori, non funzionavano. Ci fu quindi una mobilitazione d’intelligenze che coinvolse in misura prioritaria le iniziative politico-culturali autogestite e i docenti universitari più sensibili al richiamo della missione dell’insegnamento. Fu l’occasione di consentire l’incontro tra studenti e gruppi di operai di fabbrica, di delegati, che chiedevano di sapere, che volevano capire meglio le dinamiche del capitale. Quel rapporto fabbrica-università che si era aperto con le lotte studentesche del ’67-68 ora veniva in un certo senso istituzionalizzato da accordi sindacali, che avrebbero potuto – se portati fino in fondo – cambiare l’assetto dell’insegnamento sia della scuola dell’obbligo che dell’istruzione secondaria. Parlando di Milano e della sua area metropolitana l’analisi delle due ricercatrici si concentra subito sul problema del terziario:
La tendenza al processo di terziarizzazione dell’area risulta ulteriormente avvalorata dallo spostamento della struttura produttiva sui settori ad alta composizione organica di capitale, in grado cioè di restringere la base produttiva dentro allo sviluppo, e quindi di aumentare in termini relativi il peso del terziario. Questi settori su cui si rivendica da più parti lo sviluppo come elemento risolutore della crisi economica e a cui si inneggia perché trainanti di scienza e ricerca scientifica sono l’arma di lungo periodo, ma di importanza strategica, su cui si basa il processo di ristrutturazione in atto a livello internazionale. La tendenza indotta da questo disegno per quanto riguarda la composizione della forza lavoro è quella della contrazione del proletariato di fabbrica e di un aumento relativo, da una parte del lavoro precario a monte e a valle del ciclo, dall’altra degli strati sociali intermedi in un aumento generale della socializzazione del lavoro (p. 172).
Mentre nella saggistica tradizionale generalmente si considera lo sviluppo del terziario a Milano in termini positivi, come segno della «modernità» milanese, come salto di qualità verso uno stadio del capitalismo che ormai ha varcato i confini della manifattura, come indicatore della presenza di una borghesia più articolata, non solo socialmente più rilevante della classe operaia ma anche più ricca di opportunità, il giudizio di Lucia Martini e Sandra Perelli invece colloca il processo di terziarizzazione nel contesto più ampio della «rivoluzione dall’alto»:
Il processo di terziarizzazione, come attacco alla organizzazione operaia, si comprende in tutta la sua portata, per quanto riguarda l’area lombarda, se si legano tutti i fattori precedentemente esposti all’attacco concomitante di espulsione, dai centri di maggiore concentrazione produttiva, della residenza operaia. Se negli anni Cinquanta le aree dello sviluppo industriale sono state sede sia di localizzazione industriale che di residenza operaia, negli anni Sessanta si inverte questo segno, alla residenza operaia si sostituisce quella del ceto piccolo e medio borghese addetto al terziario in tutte le aree di più antico insediamento industriale: Milano, ma anche Gallarate, Busto, Magenta, Bergamo ecc. Questo «fenomeno» di terziarizzazione del territorio che è stato oggetto di mistificate attenzioni negli scontri sui vari Prg, al di là dei meccanismi della struttura capitalistica su cui si alimenta, come la rendita, non soddisfa in effetti nessuna oggettiva necessità se non quella di usare il territorio come ulteriore e complementare fattore di stratificazione sociale con la finalità politica di rompere il tessuto di iniziativa operaia, di generalizzazione della lotta, di saldatura fra lotta di fabbrica e sul territorio, che costituiscono la caratteristica del ciclo di lotte operaie che si è sviluppato lungo gli anni Sessanta (p. 173).
In netta contrapposizione alle analisi che vedono nella terziarizzazione una tendenza inarrestabile verso la creazione di una popolazione lavorativa più qualificata, più colta, con redditi più elevati e quindi un graduale avvicinamento della società a un modello di maggiore razionalità, di maggiore attenzione alla scienza e alla conoscenza, insomma una forma di civiltà superiore, «Quaderni del territorio» non esita a scoprire invece le dinamiche nascoste di degrado che questo processo contiene, ad esempio nell’incentivare la precarizzazione del lavoro e il ritorno a forme addirittura pre-industriali come il lavoro a domicilio:
... ulteriore modificazione della composizione della forza lavoro con lo sviluppo di comparti produttivi come il poligrafico e la telefonia o parti dell’elettronico la cui organizzazione del lavoro è basata sulla centralità di una nuova figura di tecnico massificato e proletarizzato contrapposto all’operaio massa che è stato l’avanguardia delle lotte operaie degli anni Sessanta. Spesso all’interno di questi comparti, unita allo sviluppo di ·questa nuova figura di tecnico, vi è lo sviluppo del lavoro precario e del lavoro a domicilio per le lavorazioni meno massificabili e riqualificate e rispettivamente più povere e disarticolabili dalla successione delle fasi del ciclo di produzione (p. 183).
Anticipazioni e abbagli della ricerca militante
Il primo numero dei «Quaderni» non si chiude qui, ci sono altri contributi importanti ma quelli che abbiamo citato sembrano sufficienti a dare un quadro dei meriti e anche delle debolezze o, meglio, delle estremizzazioni della ricerca militante di quegli anni, meriti e difetti che il gruppo attorno ad Alberto Magnaghi condivide con altre esperienze che si richiamavano all’operaismo. Oggi sappiamo bene cosa stava succedendo nei «piani alti» del capitalismo italiano di quegli anni e quanto sappiamo non conferma certo un quadro di lucida controffensiva in grado di arginare e neutralizzare la spinta operaia che si era prodotta nell’autunno caldo e aveva proseguito ininterrotta anche dopo la crisi petrolifera, benché con una tensione molto minore. Che il padronato italiano sia stato in grado di riformulare una strategia vincente dopo il 1975-76 non c’è dubbio ma insieme a questa ripresa di lucidità mise allo scoperto momenti di vero e proprio smarrimento, pulsioni autodistruttive e soprattutto un grado di conflittualità interna che certe volte sembrava mettere in secondo piano la guerra di classe. Non basta ricordare la vicenda Montedison e in genere tutta la tragedia della chimica italiana, quella che privò il paese di una delle sue risorse industriali più importanti, non basta ricordare la vicenda Alfa Romeo e la cacciata di Luraghi, il virus del degrado cominciò a infestare il grande e glorioso settore pubblico, divenuto terra di scorribande di correnti democristiane tra loro rivali. Ma anche le operazioni d’internazionalizzazione apparentemente più intelligenti, come la collaborazione tra Pirelli e Dunlop o la vicenda Innocenti-Leyland dimostrano un’incapacità di portare a termine quel salto di qualità che la nuova divisione del lavoro a livello planetario stava cominciando a disegnare. Sono gli anni in cui la finanza, invece di essere da stimolo e da volano del progresso industriale, diventa o uno strumento di cristallizzazione dei rapporti di potere e di consolidamento di un’oligarchia (il «salotto buono» di Mediobanca) o un vero e proprio bordello dove servizi deviati e avventurieri di ogni risma cercano di destabilizzare imprese e istituzioni. Mentre nelle nostre analisi il capitalismo mondiale veniva raffigurato come una macchina perfetta dotata di una sala di comando in grado di tenere tutto sotto controllo, nella realtà quello italiano aveva al suo interno non pochi focolai di caos. Malgrado queste insufficienze, malgrado le estremizzazioni in cui siamo caduti tutti quanti in quel periodo, anche i critici più accaniti non possono negare che i ricercatori dei «Quaderni dei territorio» hanno visto lontano e hanno visto giusto. Le tendenze del capitalismo che hanno individuato sono quelle con cui avremmo dovuto fare i conti nei decenni successivi. E questo merito non può essere attribuito altro che al loro stretto legame con le lotte, a una partecipazione che è l’essenza della ricerca militante. È attribuibile certamente anche al magistero operaista perché quel sistema di pensiero politico implica necessariamente un comportamento civile ed etico adeguato. La ricerca militante non si fa solo nelle biblioteche o nelle aule di un’istituzione, si fa anche – o soprattutto – sul campo, non accanto ma dentro le lotte. Questa filosofia accompagnerà la vicenda dei «Quaderni» per tutta la loro durata e avrà una verifica importante alla fine del 1977 quando, su iniziativa dei redattori di questa rivista, si organizza a Milano, nella sede della Facoltà di Architettura del Politecnico, un convegno sull’occupazione giovanile assieme ad altre riviste, tra cui «Primo Maggio», «aut aut» e «Marxiana». Il clima è di nuovo effervescente, nei mesi precedenti si era sviluppato nelle università e nelle scuole il cosiddetto «movimento del ’77» che poneva non pochi problemi sia alla politica della sinistra e del sindacato sia a quella dell’area extraparlamentare. Un nuovo soggetto sociale che chiamammo «proletariato giovanile» si presentava sulla scena. Sembrava voler tagliare i ponti con la generazione del ’68, invece il post-operaismo – se possiamo usare questo termine da questo momento in poi – riuscì a coglierne alcune caratteristiche essenziali assai stimolanti e riuscì a dialogarci. Il movimento del ’77 fu una fiammata che presto si estinse ma quel fuoco produsse delle idee sulle quali ancora oggi possiamo continuare a lavorare e con le quali molti di coloro che oggi si muovono su un terreno anticapitalista possono caratterizzare le loro azioni. Il convegno del ’77 s’intitolava sulla «occupazione giovanile», perché in esso, tra le altre cose, si discuteva della legge di preavviamento al lavoro che il parlamento aveva approvato con il contributo determinante dell’opposizione. Erano state istituite delle liste speciali alle quali in poco tempo si era iscritta la maggioranza di quel bacino di circa un milione di disoccupati sotto i 25 anni che avrebbe potuto diventare la base di un nuovo movimento politico e sociale, un bacino che in parte preoccupava, in parte suscitava speranze, in parte faceva semplicemente gola a chi voleva approfittarne. La legge incoraggiava e incentivava la costituzione di cooperative di lavoro e di altre iniziative mutualistiche con un’impostazione nettamente «lavorista» mentre nel movimento del ’77 la parola d’ordine del rifiuto del lavoro, inteso come rifiuto dello sfruttamento, andava in direzione opposta. Nel settembre i sindacati confederali avevano esplicitamente invitato i giovani a costituire leghe di disoccupati e a entrare con queste formazioni autonome nel sindacato, come se si potesse fondare una Federazione dei giovani disoccupati dotata di piena autonomia accanto alle tradizionali Federazioni di categoria1. Nello stesso mese le correnti e i gruppi più radicali del movimento del ’77 convocavano a Bologna un grande meeting per dare corpo politico e struttura organizzata al movimento. Ambedue questi progetti fallirono, i giovani disoccupati non si fidavano del sindacato, la rivalità tra i gruppi e la fortissima pressione esterna esercitata dai gruppi armati mandarono a monte i buoni propositi del meeting di Bologna. «Quaderni del Territorio» e gli altri organizzatori del convegno non si arrendono a questo secondo fallimento e ritengono che un convegno preparato da ricerche empiriche di spessore possa consentire un approccio più «riflessivo», più meditato al problema dell’organizzazione rispetto allo stile aggressivo e scandito da parole d’ordine urlate che aveva caratterizzato il meeting di Bologna. Naturalmente s’illudevano, il magma del movimento aveva continuato a ribollire, gestirlo o comunque pensare di controllarlo diventava sempre più complicato, la pressione dei gruppi di lotta armata si fece sempre più forte e doveva raggiungere l’apice pochi mesi dopo, il 16 marzo 1978, con il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione della sua scorta. Si preparava una grande, drammatica resa dei conti che avrebbe inghiottito anche alcuni dei protagonisti di questa avvincente avventura intellettuale. Ma il seme gettato in quegli anni aveva in sé una tale carica vitale che, dopo un lungo periodo di repressione/depressione in cui tutto ciò che gli anni Settanta avevano prodotto d’innovativo sembrava ridotto in cenere, le idee, le scoperte, le provocazioni, le scommesse di ricerca dei «Quaderni» e di altre riviste ritornavano alla luce e s’imponevano per la loro qualità. Nato come tipico prodotto del fordismo, il pensiero operaista diventava tra i migliori interpreti del postfordismo. Il numero 5 di «Quaderni del territorio» riporta gran parte delle riflessioni emerse durante il convegno. È dall’editoriale intitolato Occupazione giovanile, fabbrica diffusa, inchiesta operaia a firma di Giancarlo Capitani, Alberto Magnaghi e Augusto Perelli che si evince «il senso» che gli organizzatori hanno voluto attribuire al convegno, indicandone chiaramente le prospettive di sviluppo:
Le nuove forme cooperazione, produttiva e di consumo in servizi, in agricoltura e nell’artigianato (che si ripropongono, al di là di specifiche forme di «controeconomia» e di autosussistenza, tensioni alla rottura della gerarchia nelle struttura produttiva, egualitarismo retributivo, produzione di beni tendenzialmente connessi a valori d’uso emergenti nella vita associativa); le tendenze massicce allo sviluppo del lavoro autonomo, legate allo sviluppo del doppio lavoro e all’uso del salario come garanzia di servizi (in particolare nel commercio, nell’artigianato, nel terziario, oltre che nell’industria, ma con connotazioni già apertamente di dipendenza dalla grande impresa); lo sviluppo di forme illegali di cooperazione e produzione (ad esempio le «economie del ghetto»); forme di autogestione o gestione alternativa di strutture distributive (nel campo dell’alimentazione, dell’informazione, delle librerie ecc.); forme autonome di gestione della produzione di informazione (radio libere, stampa con circuiti alternativi ecc.); forme di intervento e gestione alternativa nella erogazione di servizi (ospedali, scuole, centri sociali e culturali autogestiti ecc.). Tutte queste esperienze presenti nel movimento, sfiorano solamente il problema della produzione, tanto più se ne evidenziamo l’aspetto economico produttivo: esse infatti riguardano per lo più produzioni commerciali di piccola scala, oscillano nelle loro valenze politiche fra autogestione e autosfruttamento, si muovono nelle strettoie di una bassa composizione di capitale. Occorre perciò analizzare queste esperienze non tanto nel loro aspetto aziendale-produttivo, quanto nella tensione politica che rappresentano nei confronti dell’intero apparato produttivo, come innesco di un rapporto fra bisogni emergenti e produzione. E avendo comunque presente che nell’inchiesta il modo in cui la determinazione sociale di bisogni e di valori d’uso si imbatte con l’intera dimensione dei rapporti di produzione capitalistici... il fatto che non si dia in questa fase un soggetto centrale, egemonico rispetto al sistema della forza lavoro, impongono che l’inchiesta debba procedere dalle specificità di sezioni di classe e di componenti di movimento, configurandosi come processo attivo di confronto, più che come analisi oggettiva, esterna, delle forme e degli strumenti delle lotte. L’inchiesta dunque è per noi un terreno complesso di conricerca (pp. XV-XVI).
Come si vede, erano già tracciati chiaramente alcuni percorsi di ricerca e di iniziativa concreta che ci avrebbero dato la forza di superare la crisi degli anni Ottanta e Novanta e di riprendere un’iniziativa progettuale per la rappresentanza e per la tutela delle nuove forme di lavoro, per la costruzione di uno stile di vita alternativo, per un nuovo ordinamento del territorio, per un tentativo di resistenza ai cambiamenti climatici.
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Sergio Bologna (Trieste, 1937) ha insegnato in varie Università, in Italia e in Germania. Si è occupato di storia del movimento operaio, ha partecipato alla fondazione di riviste quali «Classe operaia» e «Primo Maggio». Espulso dall’Università, ha scelto di fare il consulente e in questa veste è stato coordinatore del settore merci del Piano Generale dei Trasporti e della Logistica (1998-2000), membro del Comitato scientifico per il Piano Nazionale della Logistica (2010-2012) ed esperto del CNEL sui problemi marittimo-portuali. Per DeriveApprodi ha pubblicato: Ceti medi senza futuro (2007), Maggio ’68 in Francia scritto con Giario Daghini (2008), Banche e crisi (2013), Tempesta perfetta sui mari (2017).
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