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Una lettera senza tempo




Egregio Direttore,

Le invio questa lettera consapevole del fatto che troverà più di una buona ragione per non pubblicarla. Se così fosse non mi permetterei comunque di biasimarla. Mi rendo perfettamente conto che il contenuto è piuttosto imbarazzante e che qualcuno tra i suoi autori, collaboratori, nonché lettori, potrebbe impermalirsi o peggio ancora offendersi, arrivando persino alla drastica conclusione di ritenere opportuno abbandonarla. Stando così le cose mi accontenterei del fatto che queste note – assolutamente sincere – possa leggerla almeno Lei, che so persona intelligente e sensibile, in modo che abbia occasione di riflettere sul senso di ciò che sta facendo e sulla qualità della pasta di cui son fatte le persone che, in un modo o nell’altro, La circondano.

Pur non conoscendoLa a fondo ammetto di provare nei suoi riguardi un curioso sentimento che non so spiegarmi appieno; forse un misto tra simpatia e istinto di protezione, quella protezione che le persone come me, per necessità fatte esperte dagli intrighi e dagli affanni della vita, provano per quei propri simili di cui intuiscono un modo d’essere insieme generoso e ingenuo.

Per sgombrare il campo da possibili equivoci e svelerò subito la mia reale identità che da lungo tempo, e a dire il vero con mio stesso rinnovato stupore, riesco a mantenere facilmente celata pur aggirandomi con disinvoltura in quegli ambienti che in buona parte costituiscono il riferimento dell’iniziativa editoriale di cui Lei è responsabile. Lo avrà senz’altro intuito, sì, sono un giovane funzionario dei Servizi Informativi infiltrato in quegli ambienti cosiddetti «di movimento». Con una punta di orgoglio professionale, che spero Lei non voglia intendere come segno rivelatore di una vacua vanità, credo di poter affermare d’essere quel che comunemente si definisce un insospettabile, una persona cioè che, paradossalmente, gode della più completa stima di tutti coloro che con scrupoloso zelo si ritrova a controllare. In sostanza Le sto qui dicendo che già da tempo mi dedico alla vigilanza sistematica di quanto fate, o, sarebbe meglio dire, tentate di fare.

Le confesso che da quando ho ricevuto questo incarico mi ritrovo spesso a pensare con rimpianto ai bei tempi in cui ero addetto al controllo di quei luoghi chiamati «centri sociali», luoghi di per sé scarsamente ariosi nonché, per le finalità del nostro Ufficio, del tutto insignificanti. Luoghi forse saliti agli onori della cronaca più per miopia di funzionari statali rozzi e sciocchi che per meriti propri. Comunque sia un’ammissione la devo fare: mi divertivo per davvero. Serate a scolare litri di birra, a ricevere e passare fraternamente spinelli in un clima soporifero e insieme caldo e familiare anche se a volte disturbato da ragazzini abbrutiti in compagnia di stupidi cani pulciosi. E poi quegli sfoghi chiassosi, dilettanteschi ma così carichi di energia vitale che un po’ presuntuosamente vengono definiti «concerti». Non ho vergogna di confessare che più di una volta mi è capitato di divertimi come un matto a ballare, a saltare, a sgomitare e una mia foto in quel periodo finì addirittura sulle pagine culturali del quotidiano comunista «il manifesto».

Il mio lavoro in quel contesto non era affatto difficile poiché praticamente, di rilevante, non accadeva quasi nulla. Tra l’altro ho potuto constatare che la beata ingenuità di questa gente era tale da convincerli che la funzione repressiva era effettiva solo nei casi in cui si manifestava nella forma esplicita della visibilità. Non ravvisando col colpo d’occhio la presenza fisica del «nemico» arrivavano bellamente a illudersi d’essere addirittura da lui temuti. Ciò che non sospettavano minimamente era il fatto che il loro «nemico» più non si manifestava fisicamente e più dimostrava di svolger bene il proprio compito che, prima di reprimere brutalmente, è sempre quello di prevenire scientificamente controllando per sapere dove vi è vero pericolo e dove vi è invece solo velleità impotente e insignificante ai fini del reale mantenimento dell’ordine esistente delle cose. Neanche lontanamente si immaginavano infatti quale era la quantità e la qualità dell’armamentario in uso alle strutture addette al loro controllo. Ciò di cui non si rendevano minimamente conto era che il lasciar loro passare alcune piccole trasgressioni, fraintese con spirito trionfalista come conquiste di chissà quale maggiore libertà, o era scelta calcolata come il danno minore in una determinata situazione o era scelta calcolata di strumentalizzazione in rapporto a giochi di potere di cui costoro non sapevano neppure lontanamente intravedere la complessità e gli intrighi.

Comunque, al di là di tutto ciò, per essere ben accetto da queste persone bastava confermar loro l’assoluta seriosità con cui si prendevano sul serio. Bastava non incrinare l’autorappresentazione ideale che si erano fatte di se stesse e che l’informazione ufficiale per calcolato interesse confermava loro tramite i suoi rodati canali. Bastava avere la misurata accortezza di non scalfire in alcun modo la sensibilissima pelle che rivestiva quella loro difficile e precaria identità. Bastava capire che, per dato costitutivo o per necessità, queste persone non erano avvezze al metodo dell’ironia e dell’autoironia, men che meno poi a quello della critica e dell’autocritica.

Consapevole di tutto ciò mi limitavo a prendere svogliatamente nota di qualche proposito sinistro quanto fallace pronunciato a margine delle poche, stanche e perlopiù inutili riunioni. La verità era che per riempire i fogli delle note informative dovevo dar fondo a tutta la mia fantasia. Nonostante ciò i miei superiori mi guardavano sempre più perplessi, talvolta sospettosi. Il guaio stava nel fatto che, volente o nolente, quella era la realtà. Anche a sforzarsi non succedeva nulla che potesse in qualche modo seriamente interessare i delicati compiti di un Ufficio come il nostro. Alla fine, per non sentirmi così ingrato e per dare una minima soddisfazione a coloro i quali, in fondo, mi davano il pane quotidiano, ho pensato bene che mi conveniva inventar qualcosa di più suggestivo e colorito. Se non proprio dei fatti almeno qualche loro presupposto. È stato così che, del tutto casualmente, in una delle mie note informative ho tirato in ballo la sua rivista. Da lì è nato il mio incarico attuale. Lo vede Direttore come a volte nella vita, casualmente, una cosa tira l’altra?

È stato così che mi sono ritrovato preposto a controllarvi. Da lì sono nati i miei crucci e le mie ansie poiché, per mèglio svolgere il lavoro, mi era fatto obbligo di dover innanzitutto capire cosa dicevate sui quei vostri fogli. Non ho mai maledetto abbastanza questo incarico. Ricordo notti insonni passate a leggere e rileggere articoli incomprensibili, a decrittare quel linguaggio oscuro e astratto di cui spesso mi sfuggiva il senso. Peggio degli esami universitari più duri, peggio dei corsi di formazione che ho dovuto sostenere quando ho fatto ingresso nei Servizi. Insomma il peggio del peggio. In più, come già sospettavo, senza alcuna sensata ragione. Fortuna vuole che io sono uno che le cose se le deve fare le fa bene, ci metto costanza, dedizione, metodo. D’altronde ero così anche da bambino. Infatti alla fine ci sono riuscito: ho imparato talmente bene quella vostra lingua inutile che ora sono in grado di farne sfoggio disinvolto riscontrando il beneplacito degli astanti. Ma Le dirò di più: sono finito addirittura col figurare a pieno titolo nella celestiale casta dei vostri intellettuali. E siamo al punto, dato che mi ritengo così in grado di svelarLe cosa credo di aver capito di questa mia nuova congenere.

Comincerò dicendo che occorre innanzitutto dividerli in due categorie: quelli di «prima schiera» e quelli di «seconda schiera».

Gli intellettuali di «prima schiera», gli intellettuali in senso proprio, o vivono appartati in ambiti domestici da dove di tanto in tanto lanciano rancorosi messaggi in bottiglia, o vivono asserragliati in noiose riviste da mille copie tirate, trecento vendute, cento lette e, quando va di lusso, cinquanta capite (tra queste Direttore – e spero che non me ne vorrà – purtroppo c’è da mettere in conto anche la sua). Buona parte del tempo questi intellettuali più «impegnati» lo passano a difendere istericamente il loro orticello convinti che ciò gli conferisca l’ambìto status di produttori di una cultura se non rivoluzionaria almeno «all’altezza dei tempi». Senza timore di esagerare posso riferirLe che vivono alquanto male perché spesso in preda a una vera e propria paranoia causata dalla paura di non vedere riconfermata la presenza del loro pubblico, una platea peraltro tanto minuscola da collimare quasi con l’insignificanza. A conti fatti quel che costoro esprimono, al di là di teorizzazioni alquanto approssimative, azzardate e confuse, sono i velenosi sentimenti della vanità, della supponenza, dell’arroganza, della presunzione, della gelosia, dell’invidia, dell’alterigia, della competitività, del settarismo. Dico questo perché mi è capitato spesso di avere con alcuni di loro lunghe conversazioni notturne in pizzeria o più semplicemente davanti a un semplice bicchiere di vino sempre da riempire. Quante volte mi è toccato dispensare consolatorie pacche sulle spalle e consigli suggeriti con alito affettuoso nel tentativo di mettere un qualche freno al loro sentimento di disperazione derivato dall’accumulo delle frustrazioni subite. Mai come in quelle circostanze mi sono reso conto del vero dramma che alberga nell’animo degli intellettuali rivoluzionari incompresi.

Vengono poi gli intellettuali di «seconda schiera», la cosiddetta «nuova leva», gli inconsapevoli piccoli bricoleurs del postmoderno, i gagliardi quanto fragili giovanotti forgiati in approssimativi gruppi di studio dove hanno frettolosamente letto dieci libri, ne hanno magari sfogliati altri dieci convincendosi di aver così capito tutto del meglio del pensiero rivoluzionario. Ansiosi di gettarsi nell’arena dell’azione costoro si ritrovano a pasticciare con gioiosa goliardia attorno a cose effimere e autoreferenziali che, appunto a sé e a pochi altri che li contornano, vanno spacciando per ardite «sperimentazioni» all’altezza delle mutazioni sociali in corso. Una maniera come un’altra per ammazzare simpaticamente il tempo e gli studi giovanili nell’attesa d’essere poi, con tutta probabilità, ricondotti docilmente da papà sulla più savia via della gestione della bottega di famiglia.

In queste ardite «sperimentazioni» sono confluiti anche una parte di coloro che passando lunghi anni nei cosiddetti «centri sociali» divenendo «esperti» dell’organizzazione del tempo libero «alternativo», si sono convinti di aver maturato «sul campo» una formazione da raffinati operatori culturali. In realtà questi autoconvinti assertori di uno stile di vita «altro» – rappresentazione vivente e prova provata di critica radicalissima alla cultura, alla moralità e alle regole della società attuale – quando odono in lontananza il tintinnio dello scodellare della pappa della mamma si precipitano a tavola con la velocità del fulmine non disdegnando in seguito sane pennichelle in comodi letti benevolmente garantiti dalle loro famiglie non di rado appartenenti a ceppi benestanti. Ormai a cavallo dei fatidici trent’anni, disperatamente alla ricerca di pretesti in grado di prolungare quanto più possibile le vantaggiose condizioni offerte dallo status adolescenziale, resi sempre più insofferenti dall’irrespirabile clima di alienazione di quei luoghi chiusi in cui hanno trascorso praticamente la loro non proprio spensierata giovinezza, hanno recentemente deciso di aprirsi al mondo percorrendolo, secondo la moda del momento, con uno spirito da «deriva», con scorribande «nomadiche» nonché «psicogeografiche», certi di poterlo contaminare con quei micidiali «virus della sovversione» che si sprigionerebbero dalle loro soggettività irriducibili all’ordine dell’esistente. A vederli all’opera sembrano quei bambini che i genitori portano di tanto in tanto al luna park: vengono presi tutti dalla stessa agitata euforia alla vista delle ultime macchinette sprizzanti luci e rumorini offerte dal sempre fiorito mercato del divertimento. Così l’approccio «ludico» alla tecnologia informatica, di basso o bassissimo livello, viene proclamato come processo in atto di seria appropriazione degli strumenti più avanzati della comunicazione e della produzione della ricchezza sociale, un processo che, da qui a non si capisce quando, dovrebbe portare a dire agli odiati capitalisti sfruttatori: e adesso voi a cosa servite più? Da parte, please!

Dinamici e gioviali, gli intellettuali di «seconda schiera» bruciano il loro tempo più o meno in questo modo perché, avvertendo di non poterlo comprendere e controllare, ne hanno fondamentalmente una grande paura. Non a caso man mano che il sentimento dell’horror vacui accompagna l’uscita dalla giovinezza, il giovanilismo diventa sempre più la loro specializzazione. Seguendoli nella spasmodica ricerca di modi e luoghi adatti a stabilire rapporti con i nuovi adolescenti mi è capitato di ritrovarmi in affollati raduni dominati da un clima da discoteca riminese degradato e vagamente satanico. In queste occasioni, non so bene come e perché, seguendo gli usi in voga tra una buona parte dei presenti, mi sono ritrovato in gola anonime pasticche che contribuivano a determinare nella mia psiche uno stato alterato di lucida euforia che sottoposto alle sollecitazioni di una musica dai ritmi ossessivi mi faceva scatenare, come tutti gli altri presenti del resto, in una danza liberatoria che si protraeva per dodici o tredici ore. Esperienze che i miei superiori non potrebbero mai comprendere e che io, d’altra parte, mi sono sempre guardato bene dal riferirgli.

Ma torniamo a noi. Dalla cosiddetta «editoria alternativa», che dovrebbe fornire solido supporto materiale al diffondersi delle culture rivoluzionarie, ho potuto constatare che emergono in tutta evidenza i caratteri dell’occasionalità ideativa, del pressappochismo organizzativo, del dilettantismo volontaristico.

Certamente si assiste all’«autoproduzione» di libri e libriccini, di riviste e rivistine ma la maggior parte di questo materiale va poi disperso in un disordinato circuito distributivo costituito da «banchetti» esposti in occasione di feste, festival e convegnucoli vari, in improbabili «centri di documentazione», in piccole e precarie librerie sparse per l’Italia gestite tra mille difficoltà economiche da personaggi generosi, romantici e, per forza di cose, depressi. I contenuti di questi fogli spaziano dalla riproposizione di brani dell’ortodossia del pensiero rivoluzionario in tutte le sue salse alle tematiche più azzardate e deliranti che emergono da un dibattito caotico senza capo né coda. Insomma, secondo me, si tratta di roba utile solo a gratificare il piccolo narcisismo di chi la fa, per il tempo che la fa.

Mi rendo conto che a questo punto Lei avrà ravvisato, in talune mie espressioni, oltre che un tono saccente anche una concitata quanto impropria partecipazione emotiva condita da un velato sentimento di rancore che non dovrebbe confacersi a persona di fatto esterna ai sentimenti di questo vostro universo relazionale.

Eppure è più forte di me, va oltre i limiti di ciò che sarei tenuto per dovere registrare. Sì, lo dico fuori dai denti e oltre le mie competenze: in alcune circostanze provo un moto di indignazione verso chi si ammanta di un determinato ruolo solo per ricavarne un qualche miserabile privilegio di potere. Queste mentalità e queste pratiche dovrebbero appartenere strettamente a un universo che, come il mio, non ha alcuna pretesa di modificare il corso delle cose. Mi chiedo cioè: non dovrebbero queste persone essere più libere di me da simili retaggi? La verità è che in questo ambiente si coglie in tutto tondo il riprodursi della stessa contraddizione che in un recente passato ha prodotto flagelli inenarrabili. L’unico suo alibi ed effimero vantaggio è quello di sapere che questa contraddizione irrisolta per il momento non corre il rischio di essere sottoposta alle verifiche che quel passato aveva reso non più rinviabili. Il problema, per chi in questo ambiente si ritaglia forme di potere, mi pare in sostanza resti lo stesso di un tempo e, alla fine, quello di sempre: la paura di guardarsi allo specchio domandandosi se il proprio bisogno di potere è migliore di quello che dice di voler combattere.

È anche per questi motivi che credo Lei troverà più di una difficoltà nel trovarsi a decidere se pubblicare o meno questa lettera. Perché temo che per ostacolo concreto avrà soprattutto chi, identificandosi inevitabilmente in qualcuno dei passi di questo scritto, reagirà prevedibilmente con l’impeto di chi si sente ferito nell’orgoglio della propria identità; quella stessa identità che - con falsa coscienza - va sbandierando ai quattro venti di voler sottoporre a serrata e spietata critica.

Comprensibile è, d’altra parte, la sensazione di angoscia che attanaglia chiunque avvezzo a portare maschere si ritrovi tutto d’un tratto smascherato. Nulla è più pericoloso dello scompaginare il precario equilibrio dell’animo dei deboli poiché costoro troveranno in sé, come reazione obbligata, solo l’arma dell’aggressività.

Comincerà allora il rituale degli avvertimenti preventivi con finalità dissuasiva pronunciati con il mezzo tono del consiglio amichevole e il restante tono della minaccia velata riguardo probabili guai incombenti. Quello stesso rituale insomma che ha riprodotto nei secoli la mentalità che ha reso famosa in tutto il mondo la massima istituzione di potere del nostro paese: la mafia. Se infatti il destinatario di tali «consigli» non desisterà costoro passeranno alla pratica dell’orchestrazione dell’intrigo, ovvero daranno il via a quel fitto chiacchiericcio calunnioso praticato dietro le quinte e finalizzato a diffondere quanto possibile un sistematico discredito e isolamento. Se ciò ancora non basterà questa semina mirata ad ottenere un calcolato disprezzo verso di Lei avrà come raccolto un odio insensato presso la categoria degli stupidi che, come si sa, sempre abbondano in ogni dove, quegli individui che, resi inebetiti e terrorizzati dalla vita quotidiana, per dare un qualche sfogo alla loro disperazione sono sempre pronti a trasformarsi in squallidi terroristi di un minuto. A ben vedere il racket della politica, ammantata o meno dall’elemento antagonista, non è dissimile da qualsiasi altro racket. Il che equivale a ciò che diceva il poeta riferendosi ai politicanti di tutte le risme: «... Ma cosa si nasconde dietro le invereconde maschere? Il Male che dicono di combattere?... Toglieteceli davanti. Per sempre. Tutti quanti».

Eh sì, duole dirlo ma questo estremismo finge a se stesso di dilettarsi su chissà quale tavola imbandita mentre in realtà si arrabatta giorno e notte a raccattare avanzi dai cassonetti della propria miseria per prolungare le condizioni di una sopravvivenza senza progetto di un’alternativa sociale anche solo parzialmente credibile. Certo che la speranza è sempre lodevole ma tocca dire che il senso dell’esistenza che questo tipo di rivoluzionari hanno deciso di ritagliarsi nel presente ricorda l’efficacia che può avere uno spaventapasseri piazzato nell’aiuola spartitraffico di un’autostrada.

Come vede Direttore si tratta di un panorama piuttosto desolante e devo dire, per quel che egoisticamente mi riguarda, decisamente poco stimolante sia per la crescita della mia professionalità che della mia carriera. Infatti Le confido che sto seriamente meditando di avanzare formale richiesta di trasferimento ad altro incarico. L’avverarsi di questa eventualità però mi spiacerebbe perché in fondo, col tempo, a questi ambienti e alle persone che li frequentano mi ci ero abituato e, un poco, anche affezionato.

Per non rischiare di dilungarmi in eccesso vorrei concludere permettendomi di darLe alcuni consigli che spero non voglia intendere come irriguardosa invadenza confidenziale. Ovviamente Direttore io l’ho spiata, l’ho pedinata, ho ascoltato le sue conversazioni telefoniche, anche quelle più intime con Paola e con Cristina e ho fatto il resto che ero tenuto a fare da regolamento impostomi. Da tutto ciò ho tratto la convinzione che la rivista in oggetto per Lei non è altro che un hobby, un hobby, tra l’altro, sicuramente meno importante degli altri che Lei coltiva con maggior passione e che, come sappiamo entrambi, le danno ben altre soddisfazioni, cioè il polo e la barca a vela. Pur stando così le cose ho però il timore che non si renda appieno conto del rischio che sta correndo in cambio di quanto va esibendo con una punta di istrioneria nei salotti buoni di quello che poi in realtà è il suo vero ambiente naturale. Non sto dicendo che quegli avanzi di galera che affollano l’indice della sua rivista, quei personaggi irrimediabilmente falliti nelle aspirazioni, nella carriera come nella vita, possano costituire ormai un qualche serio pericolo per chicchessia, il loro semmai è un moto inerziale conseguente alla rivoluzione che hanno saputo fallire. Le dirò anzi che provo un certo struggimento nell’osservarli incamminati in modo così dimesso e inglorioso sul viale di un tramonto che non vogliono o non sanno o non possono accettare. No, il possibile pericolo non è tanto rappresentato da costoro quanto piuttosto da qualche giovanotto pericolosamente armato di una toga da giudice, qualcuno di quei personaggi invasati dall’orgoglio di appartenere a una corporazione il cui potere in questo momento è difficilmente arginabile. Sa com’è, l’ho già detto e dimostrato: nella vita una cosa tira l’altra e non si sa mai dove si va a finire.

Mi dia retta Direttore, se proprio vuole fare una rivista ne faccia magari una di nautica visto che l’argomento l’appassiona tanto. Magari potrei anche trovare il modo di aiutarla.

Ci pensi sopra, interroghi la sua coscienza e il suo buon senso.

Concludo qui sperando di averLe dato utili consigli e di non aver abusato troppo della sua cortese attenzione.

Ossequi a Lei e alla sua Signora,

un modesto ma sincero amico.

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