Pubblichiamo tre racconti sull'esperienza in carcere scritti da Lanfranco Caminiti.
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Al carcere speciale di Badu ’e Carros, in Sardegna, stavo in un cubicolo da solo e il mio vicino di cella si chiamava Salvatore. Eravamo al secondo piano, e sotto di me, a sinistra stavano i br Franceschini e Ognibene, e a destra c’erano i «comuni» – mi pare di ricordare Cochis, della banda Vallanzasca, Marco Medda e Pasquale Barra, che non ricordo se fosse già ’o animale, ma ne aveva ammazzati un bel po’ in galera, e che poi proprio in un cortile a Badu ’e Carros – ma io non c’ero più – ammazzerà brutalmente Francis Turatello.
Con Barra i rapporti furono questi qua: la prima volta che scesi all’aria, con Ugo, che era stato arrestato con me e con me poi trasferito in Sardegna dopo lo sciopero della fame a Napoli, ci portammo dietro una piccola scacchiera – per fare una partita. Ci sedemmo su dei gradini del cortile e iniziammo a disporre i pezzi. Stavamo per conto nostro. In un angolo del cortile, c’era un capannello – sentivo che parlottavano. Barra si staccò, si avvicinò e diede un calcio alla nostra scacchiera. Doveva essere estate, lui era a torso nudo, e sul suo torace spiccava il tatuaggio di una bara, a cui a ogni morto ammazzato aggiungeva una croce: ne aveva già un bel po’. Si mise a gambe larghe davanti a noi. Ugo mi guardò – non sapeva cosa fare. Io cominciai a raccogliere i pezzi e a disporli nuovamente sulla scacchiera. Barra stava lì, ma non sapeva neppure lui cosa fare – qualcuno dal capannello lo richiamò, non dovevano essere d’accordo, ma lui voleva insegnarci «come stavano le cose». Aveva fatto una guapperia inutile. Poi, venne Micio, mi pare, o qualcun altro dei comuni «politicizzati», di quelli che avevano fatto le rivolte, si erano avvicinati poi ai nap e ora erano tutti nei «Comitati di campo» delle Brigate rosse. Micio, o chi per lui, voleva quasi «scusare» il comportamento di Barra, l’uomo d’altronde era questo e di certo lui non gli sarebbe andato contro – ma pure noi, lì a starcene per conto nostro, non avevamo fatto bene. Ci invitò perciò a giocare una partitella – Ugo, che era imbranato, declinò, io accettai. Dovevamo essere quattro contro quattro, non ricordo con chi ero io, forse Franceschini, ma ricordo contro chi ero io: Pasquale Barra, che si era messo «in porta». Dalla mia porta – che era un angolo del cortile – arrivò una palla lunga: io ero proprio a ridosso di Barra, gli davo le spalle. Riuscii a stoppare la palla, e feci per girarmi, ma Barra mi venne addosso. Non provai a sfuggirgli, anzi. Mi girai e diedi un calcione – ma la palla non c’era più, e trovai il suo piede o la sua gamba. Si piegò, poi si rialzò di scatto, quasi venendomi addosso: «Ma voi mi volete tastare il polso?» – mi disse. Feci spallucce e la faccia più innocente del mondo: «È il calcio, che c’entra?» – e la cosa finì lì.
Questo per dire che io non avevo paura – non ho mai avuto paura delle guardie e non avevo paura degli altri detenuti: ero «pulito», mi battevo e non mi tiravo indietro – perché qualcuno avrebbe dovuto farmi male? c’erano delle regole, no? e invece: pagherò questa mia «innocenza» – ma sarà dopo.
Salvatore, il mio vicino di cella, era di quella «razza» lì, dei comuni che si erano politicizzati, e per quello stava negli «speciali» – non era uno «pesante», ma della sua giovane vita doveva averne passata più di metà in galera, come quasi tutti d’altronde. Loro, i comuni, erano cresciuti insieme, se così si può dire, nelle carceri, dai minorili in su, e avevano tutti i loro conti, per cose che erano accadute fuori e, più spesso, per cose che erano accadute dentro. Anche lì si formavano e consumavano le bande, le affiliazioni, i gruppi di potere, gli abbandoni, i tradimenti. Salvatore stava per conto suo – ma gravitava intorno al «Comitato». Dalle finestre delle celle, che erano adiacenti, ci passavamo talvolta delle cose – mettevamo un peso qualunque alla fine di una corda, di uno spago, e facendolo oscillare lo lanciavamo finché l’altro con una scopa riusciva a agganciarlo e tirarlo dentro: poteva essere un giornale o un sapone o un dentifricio. Questo era il nostro rapporto: lui mi si avvicinava, ma stava anche un po’ discosto. A un certo punto, non scese più all’aria. Mi pare iniziasse anche uno sciopero della fame – voleva andarsene da lì. Era una gara tutta sua: gli altri non dicevano nulla, io non chiesi nulla. Dopo qualche giorno iniziò a tagliarsi – era una cosa usuale, tra i detenuti: ce n’erano di quelli che avevano tutte le braccia segnate da tagli o il petto con cicatrici che andavano da una parte all’altra. Forse voleva andare in infermeria, forse stava giocando le sue carte. Ma non lo spostavano da lì – venivano, lo curavano, se ne andavano. Lui urlava. Rompeva le cose. Urlava. Certe volte di giorno, certe volte di notte. Nessuno di noi diceva niente, io non chiedevo niente. Poi, una notte che lui si era messo a urlare più forte, e a rompere ancora le poche cose rimaste – arrivò la squadretta. Sentii aprire la cella e irrompere le guardie. Cominciarono a pestarlo, a pestarlo, e a pestarlo. Ero sgomento. Non potevo essere solo io a sentire le sue urla soffocate – ma nessuno diceva niente, nessuno faceva niente. Forse, loro del «Comitato» sapevano delle cose che io non sapevo. Non dissi niente neanch’io, non feci niente neanch’io. Mi girai verso il muro – sentivo i colpi, e le sue grida. Lo lasciarono lì – e dopo qualche giorno lo portarono via. Non ne ho più saputo nulla.
Ancora me ne vergogno. Certe notti, sento ancora i colpi.
1 gennaio 2022
Quando incontrai Raffaele Cutolo, in un cortile di Poggioreale, ’o professore teneva un cappotto di cammello – era distinto, e ci teneva. Aveva saputo che stavo lì, di passaggio per il processo, e, incuriosito, aveva voluto incontrarmi – qualcuno mi portò l’ambasciata e io accettai. Cutolo fu gentile e io mi sentivo importante: lui era già Cutolo e io nessuno. Lui mi chiedeva, io misuravo le mie parole. Ero un rivoluzionario e volevo mettere sossopra il sud, una cosa romantica insomma – cos’altro avrei potuto dirgli? Lui, il sud lo conosceva bene – lo teneva in pugno. Era nelle carceri, il suo potere – e da lì aveva cominciato: la nuova camorra non era altro che questo, un patto fra detenuti, e il «fuori» era al servizio del «dentro» e il potere del «dentro» serviva a minacciare e asservire il «fuori». I «capi» del crimine è questo che portano nelle società criminali: l’organizzazione – così era stato per Lucky Luciano e così era stato per Luciano Liggio. E la macchina organizzativa non ammette resistenze. Cutolo, il suo genio organizzativo lo andava dipanando nelle carceri: garantire ai «suoi» detenuti una qualchecosa di soldi sulla libretta era un potente incentivo di affiliazione e fedeltà. E «fuori» chi poteva sottrarsi a pagare la mazzetta per i «fratelli in galera»? Poi, a un certo punto, mi salutò: aveva i suoi affari da sbrigare e io non rappresentavo un interesse più di tanto. Non avevo truppe, né dentro né fuori – e non potevo essere né una minaccia né un alleato. Si tolse i suoi occhiali a goccia e mi strinse la mano, congedandomi. Per me, d’altronde, andava bene così. Anch’io avevo i miei affari – a quel tempo ero riuscito a far entrare un seghetto, e fantasticavo sulla possibilità di segare le sbarre e calarci da qualche parte o andare per tetti. Ero cauto – la prima volta che all’infermeria del padiglione San Paolo, dove ero finito dopo lo sciopero della fame, da un finestrone che affacciava sull’ingresso, avevo notato che c’era un qualche sfasamento tra le guardie di cui si poteva profittare, ne avevo parlato con un giovane detenuto che si mostrava amicale: il risultato era stato che quello mi aveva cantato e così ero finito negli «speciali».
In quello stesso cortile dove avevo incontrato Cutolo, tempo dopo che stavo lì di transito, conobbi Tonino Cuomo – che se non ricordo male doveva essere il capozona di Castellammare della nuova camorra di Cutolo. Cuomo era intelligente e brillante, davvero diverso da quella masnada di «bravi» che circondava ’o professore. Mi colpì molto – aveva una sua «autonomia» e una sua «visione». E fu in quello stesso cortile che Pasquale Barra e Raffaele Catapano – due assassini di Cutolo – insieme a altri, bloccarono Cuomo e lo finirono a coltellate: la macchina organizzativa non ammetteva resistenze. Ne fui molto colpito – per lungo tempo fui quasi convinto che lo avessero ammazzato mentre io ero all’aria in un cortile adiacente, che avevo sentito le grida di Cuomo, la ferocia di Barra e Catapano, che avessi stretto le sbarre del cortile senza poter fare nulla se non ascoltare quella vita che finiva malamente, e di vedere nel corridoio antistante un paio di guardie che non si muovevano, magari già sapevano.
Ne sono ancora convinto – ma dev’essere solo un brutto incubo che affiora ogni tanto.
3 gennaio 2022
Piero aveva un maglione di cachemere bellissimo, blu, ampio, con il collo a barchetta – una cosa che solo lo guardavi e ti sentivi al caldo, protetto. Elegante. Io non avevo mai avuto un maglione di cachemere, troppo costosi. E quanto all’eleganza – tutt’al più adesso avrei potuto sfoggiarlo nell’ora d’aria al cortile di Rebibbia. Non che non ci tenessi – io quelli che stavano sempre in tuta non mi piacevano. Era una roba da carcerati, la divisa dei carcerati. Quando Fiora mi mandò, non ricordo dove, una tuta Adidas – che immaginava che forse mi erano rimaste giusto le braghe in quegli spostamenti improvvisi e punitivi – era azzurra, con le sue tre belle bande laterali in blu. Ma non avrei mai potuto indossarla – la diedi a Valerio, quando arrivò che lo avevano appena catturato e stava davvero senza niente: ne fu felice e la indossò per anni.
Mica solo al guardaroba ci tenevamo. Eravamo terroristi nei carceri speciali, mica frati trappisti. Quand’era giorno dei colloqui era tutto un prestarsi le cose – la giacca, le scarpe, la camicia. L’ultima cosa al mondo che potevamo volere era sembrare dei barboni.
Io non chiesi mai a Piero di prestarmi il suo maglione di cachemere – io gli chiesi di regalarmelo. Aveva anche un bel giubbotto di montone, ma mi interessava meno. Così, iniziai a fargli la corte. Lui non se lo toglieva mai – per cui ce l’avevo quasi sempre negli occhi. Ora che esci – gli dicevo – me lo lasci. Ero convinto che Piero sarebbe uscito – non c’era nessun «elemento probatorio» che lo legasse a Prima linea. Era anche partita una campagna di opinione a sua difesa – un poeta, un intellettuale. Scriveva poesie bellissime, Piero del Giudice.
È un regalo – mi diceva, non posso dartelo. Doveva essere un argomento definitivo, secondo lui – ma non secondo me. Beh, ma proprio per quello – insistevo io. Così, si perpetua il dono – è l’oggetto del dono, dei desideri e del dono, il segno della nostra generosità. Una volta la buttò in politica – ah, voi meridionali, sempre a chiedere, sempre a far le vittime. Figurarsi se poteva smontarmi.
Poi, a Piero arrivò davvero la scarcerazione. E mentre faceva lo zaino per andarsene e si metteva dentro tutte le sue cose – ecco, mi regalò il suo bellissimo maglione di cachemere, magari aveva pensato che gli avevo portato fortuna e dovevo essere compensato. Ero davvero contento – lo abbracciai, senza riuscire a dire nulla, buona fortuna, Piero.
Così, sfoggiai il «mio» maglione di cachemere blu, con il collo a barchetta, al passeggio di Rebibbia. Lo portai per mesi. Poi, bestia come sono, lo bucai con la sigaretta. Era un buco piccolo, ma per me un’ossessione. Ne parlavo con tutti – guarda, gli ho fatto un buco. Un giorno, Teodoro, uno dei brigatisti «minori» mi disse – ma te lo riparo io. Ma sei sicuro? Ma certo, sono bravo con l’ago, te lo rifaccio come nuovo, non si vedrà niente. Non so perché mi fidai – non mi ero mai fidato dei brigatisti. Quando stavo a Badu ’e Carros mi avevano lasciato senza lenzuola e Ognibene, uno dei brigatisti «maggiori», da sotto mi disse – non preoccuparti, te ne presto uno io. Me lo passò dalle sbarre. Giorni dopo mi disse che aveva i funghi – ma gran testadicazzo, e mi dai il lenzuolo tuo? Comunque, a Teodoro consegnai il maglione di Piero come una reliquia – d’altronde si stava allontanando dalle Br, forse potevo fidarmi. Il giorno dopo me lo riconsegnò tutto contento, sfidandomi – trova il buco. Beh il buco non c’era ma aveva fatto uno gnommero di filo, un’escrescenza che si vedeva peggio del buco. Ma checazzo hai fatto? Lo disfeci subito – ma ora il buco si era persino allargato. Non mi importava – snob come sono portavo con fierezza il mio buco.
passò qualche tempo e ci fu il compleanno di Paolo. Ci facevamo piccoli regali, in cella, un libro che si era finito di leggere, per dire. O magari ci si regalava un turno dei piatti o si cucinava qualcosa di «speciale». Non avevo nulla da dare a Paolo – che era tutto preso da Aristotele in quel periodo. La cosa più preziosa che avevo era il maglione di cachemere. A Paolo volevo tanto bene, e gliene volli ancora dopo, quando venne a trovarmi in Calabria appena uscito, e quando poi facemmo la rivista «Luogo comune». Gliene voglio ancora.
Così, gli regalai il maglione di cachemere di Piero, che gli avevano regalato e che lui aveva regalato a me, che io avevo bucato e che io avevo passato a Teodoro per riparare. Buon compleanno, Virno, fratello mio.
28 gennaio 2022
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Lanfranco Caminiti, tra i fondatori di DeriveApprodi, ha una biografia difficilmente sintetizzabile. Negli ultimi tre decenni si è occupato prevalentemente di scrittura. Ha infatti promosso giornali e riviste, scritto numerosi saggi e alcuni romanzi. Ma è anche giornalista, e sulla sua pagina facebook anima quitidianamente, con arguzia e acume, dibattiti affollati, intensi e appassionati, su svariati argomenti.
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