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Tempo ed esperienza



Dopo la pubblicazione del lemma «Tecnica», riproponiamo oggi la riflessione di Ubaldo Fadini su «Tempo ed esperienza», entrambe contenute nel Lessico postfordista (Feltrinelli, 2001). Si tratta, ci avverte l’autore nella sua introduzione, di «un’operazione rischiosa», in quanto tenta di analizzare i mutamenti di questi fondamentali concetti alla luce delle trasformazioni delle coordinate spazio-temporali, delle articolazioni del cooperare produttivo e dei circuiti informatici di quei decenni. Oggi possiamo dire che si tratta di un’operazione di grande importanza anche alla luce dei mutamenti dei vent'anni successivi.



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In un breve testo del 1933 – Esperienza e povertà –, riferendosi soprattutto alla generazione che nella Grande guerra imperialista aveva compiuto una delle «più mostruose esperienze della storia mondiale», Walter Benjamin sottolinea, con la consueta acutezza, come «le quotazioni dell’esperienza» siano precipitate. Il testo si apre con una favola, quella del vecchio che, sul letto di morte, dà a intendere ai figli che nella sua vigna è nascosto un tesoro. Loro non avevano che da scavare. Scavarono, ma del tesoro non trovarono traccia. Quando giunse l’autunno, la vigna produsse come nessun’altra. I figli allora si resero conto che il padre aveva loro lasciato un’esperienza: «non nell’oro sta la fortuna, ma nell’operosità».

La forma di esperienza di questa parabola appartiene ormai al passato: è inesorabilmente trascorso il tempo in cui si sapeva con certezza che cosa fosse l’esperienza. Una generazione travolta dalla contingenza radicale dei tempi, che era ritornata ammutolita dalle trincee, più povera di esperienza comunicabile, in quanto tutte le esperienze precedenti erano state smentite dalla guerra, dall’inflazione, dalla fame, dalla violenza del potere, «stava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui niente era rimasto immutato tranne le nuvole, e nel centro – in un campo di esplosioni e di correnti distruttrici – il minuto e fragile corpo umano».

Queste osservazioni di Benjamin hanno il merito di rinviare alla sfera corporea, alla dimensione di un corpo separato – e così reso «minuto e fragile» – dal suo stesso «spazio corporeo»: esso si ritrova collocato come semplice «cosa», in mezzo a un «campo di forze», che lo riduce a materiale per la produzione di merci o per la loro distruzione, con la guerra. Questa «povertà dell’esperienza» assume a sua singolare «misura» l’inquietudine del tempo; però, si determina all’interno di un contesto che ne può indicare anche le potenzialità conoscitive, così come la stessa ricerca filosofica le ha rappresentate, raffigurandole in positivo e in negativo (tra lo «slancio vitale» e la «deiezione»).

Corpo e tempo riacquistano così visibilità per una «umanità» che vive una «specie di nuova barbarie», da intendersi in senso positivo, poiché dalla povertà di esperienza il «barbaro» è indotto a ripartire da capo, a costruire in continuazione, senza guardare «né a destra né a sinistra». In questa prospettiva, sono da collocarsi tutti gli utensili, le tecnologie e le scienze, ciò che è in grado di produrre un avvenire a partire da un presente comunque scosso «dall’ebrezza della procreazione», dalla spinta insuperabile all’invenzione, all’innovazione. È il «barbaro» a ri-costruire il mondo, a creare nuovo essere, a trasformarlo e innovarlo.

Una teoria critica che si metta alla prova con la «rivoluzione informatica» che negli ultimi anni ha dato sostanza all’idea di una possibile liberazione dal lavoro salariato (e che in realtà sta massimizzando l’efficienza della produzione capitalistica, anche in «virtù» di una modificazione delle prestazioni lavorative che richiede forme originali di controllo gerarchico), può dire qualcosa di significativo proprio su ciò che «viene dopo» (la potenza creativa di avvenire espressa dal «lavoro vivo») rispetto al tempo definito dell’accumulo di «lavoro morto».

Il «barbaro» attraversa ancora un territorio che si può etichettare come «modernità», soprattutto quando quest’ultima viene riferita a quella «società artificiale» che non smette di complessificarsi, di diventare sempre più «astratta». In questo senso, è opportuno ricordare come carattere della «modernità» sia quello di non avere «fondo», di non possedere uno sfondo sul quale proiettare le dinamiche di autodefinizione dell’umano, all’interno proprio dei processi di artificializzazione della natura e della stessa società, con i conseguenti nuovi artefatti e nuove istituzioni. Se è vero che la modernità è soprattutto leggibile nei processi di trasformazione della «grande città», allora è possibile seguire Baudelaire quando afferma che la «città si trasforma più rapidamente del cuore di un uomo». Questo richiamo a Baudelaire, accompagnato dalla sensibilità benjaminiana, ha un significato preciso: la «perdita d’aureola» introduce al compito di colui che deve sopravvivere al «mobile caos» metropolitano con scarti e salti improvvisi, schivando l’imprevisto, riuscendo in una ricezione che deve essere insieme rapida e «distratta» (non «fissata») per rispondere positivamente agli shock di un’esperienza sempre più frastagliata e apparentemente sconnessa. Il «barbaro» è dunque un singolare essere virtuoso [1].

La riflessione di Simmel è sicuramente ancora utile per individuare il «fondo» psicologico dell’individuo metropolitano nella «intensificazione dell’agitazione nevrotica», dovuta alla variazione continua degli stimoli interni ed esterni. Come «creatura che distingue», l’essere umano è portato, dai ritmi frenetici della grande città, a reagire più con il «cervello» che con il «cuore» (con un «cervello» che ha sempre più bisogno di supporti «meccanici»). Le caratteristiche della singolare socializzazione metropolitana: intellettualismo, distanziamento, ordinata avversione rispetto all’altro, rispondono ai nuovi bisogni di sicurezza di una soggettività particolarmente esposta a rischi e possibilità nuove.

Mobilità e rischio sono parole-chiave, insieme a quella «magica» della flessibilità del nuovo capitalismo, che ha trasformato in profondità la dimensione del lavoro, con esiti, come ha sottolineato Richard Sennett, assolutamente negativi per ciò che concerne l’indirizzo e l’articolazione della vita personale. Nell’analisi del sociologo del «declino dell’uomo pubblico», si possono individuare ancora gli echi del discorso benjaminiano sulla «perdita d’esperienza». Il «capitalismo flessibile» sostituisce alla stabilità l’incertezza, la ricerca ossessiva dell’innovazione a tutti i costi, la mobilità più esasperata, andando così a intaccare il «senso di continuità dell’esistenza», quella personalità che è una «istituzione per un solo caso» (riprendendo la formulazione così incisiva di Arnold Gehlen), il legame di fiducia e quello con le generazioni precedenti. «Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale» sono drammatiche: esso «irradia infatti indifferenza nei confronti degli sforzi umani (come nei mercati in cui il vincitore prende tutto, dove il rapporto tra rischi corsi e remunerazione è minimo); irradia indifferenza organizzando l’assenza di fiducia, cioè uno stato in cui non c’è motivo di aver bisogno di qualcuno. E lo fa ristrutturando le aziende, rendendole luoghi in cui i dipendenti sono trattati come se fossero liberamente eliminabili. Pratiche di questo tipo diminuiscono in modo evidente e brutale l’impressione di contare in quanto persone, di essere necessari agli altri». Questa fenomenologia degli uomini «alla deriva» nel tempo del «capitalismo flessibile» è quanto mai ricca e stimolante, ed evidenzia come l’indifferenza pervada l’individuo anche nelle sue sfere più intime, negli strati più profondi della sua personalità, impedendo di fatto una «vita normale» (nel senso di «diversa» da quella imposta e celebrata dai riti dei «signori del regno della flessibilità»).

In questi termini viene dunque letto il passaggio da un modo di produzione fordista, centrato sull’operaio di fabbrica, a uno postfordista, teso allo sfruttamento sociale della forza-lavoro, da una cultura disciplinare (propria del fordismo), a una basata sull’affermazione del controllo sociale più sofisticato (vera e propria anima della cultura postfordista). È certo che in questo passaggio, all’interno della metamorfosi del modo di produzione, si danno blocchi, ostacoli, resistenze di corpi e popolazioni che vanno gestite e governate in senso «biopolitico». L’età postfordista richiede infatti un affinamento del controllo della mobilità territoriale, della stessa flessibilità «temporale» della forza-lavoro massificata: il «barbaro» è sicuramente poco rispettoso nei confronti del «virtuoso circuito della disciplina di fabbrica che si fa controllo sociale» (A. Negri); è ineducabile e quando la sua irrequietezza si fa pericolosa (perché povertà ed esclusione non sono facilmente sopportabili), allora scatta la punizione «tipica», esemplare rispetto alla «devianza» che non si piega alle «ragioni» del mercato.

In questa prospettiva può prendere corpo l’indicazione di Gilles Deleuze sul declinare della società disciplinare e sul formarsi di una società di controllo che ha come proprio spazio di potere quello della biopolitica. Alessandro De Giorgi ha insistito sulla possibilità di leggere la crisi della disciplina (come rapporto di controllo) in relazione alla crisi del fordismo, ipotizzando che le vicende della valorizzazione capitalistica comportino un cambiamento in quelle del controllo, e che il tramonto del paradigma fordista di organizzazione dei rapporti di lavoro annunci il venir meno del paradigma disciplinare di organizzazione dei rapporti di potere. Scrive De Giorgi, richiamando una qualifica che mi piace considerare sociale, collettiva, ricca in termini di capacità di cooperazione della figura singolare del «barbaro» benjaminiano: «Il controllo non si esercita più su singoli individui devianti (attuali o potenziali), quanto invece su soggetti sociali collettivi, che sono istituzionalmente trattati come gruppi produttori di rischio. I dispositivi del potere, utilizzando metodologie di quantificazione e trattamento del rischio di devianza che ricordano quelle assicurative, sembrano puntare alla gestione di intere categorie di individui. […] Da ciò deriva l’espressione controllo attuariale». Per queste strategie infatti, il rischio deve essere e può essere gestito solo per mezzo di «un intervento sull’ambiente, sui comportamenti esteriori dei gruppi sociali».

In Tempo e lavoro, Oskar Negt ha cercato, prendendo atto del contenuto «culturale» della forza-lavoro «viva», di dare sostanza al progetto di una liberazione del tempo dalla «morsa di uno scorrere temporale privo di significato e stabilito momento per momento» e dalla sua stessa «pura e semplice accelerazione». L’idea è quindi quella di uno sviluppo dell’attività umana coscientemente rivolto ad ampliare e approfondire lo spettro temporale, soprattutto «dei tempi desiderati e delle esperienze temporali», nelle loro «qualità espressive», «quali ad esempio il rallentamento e la perdita di tempo; il tempo per aspettare e quello per vivere; il tempo per le esperienze collettive e la noia; il tempo rivolto al futuro e quello dedicato alla rielaborazione del passato». Si potrebbe dire, utilizzando un’altra prospettiva di ricerca, che l’idea è quella della «prospezione creativa dell’a-venire», della «inquietudine del tempo», della sua riapertura [2].

Su un piano più propriamente antropologico, questo sviluppo della «attività vitale umana» può essere proficuamente raffigurato anche servendoci, pur con qualche cautela, della lettura che Pierre Lévy dà dell’intero tragitto della civilizzazione umana, laddove l’affermazione delle nuove tecnologie informatiche configura l’apertura di uno spazio antropologico originale, risultante dalla messa in comune (in un quadro comunque segnato dalle dinamiche di sovradeterminazione e di strumentalizzazione capitalistiche) dell’immaginazione e delle conoscenze umane. Le nuove tecnologie consentirebbero, in breve, una messa in relazione di soggetti «nomadi», non definibili in termini tradizionali, secondo prassi formative rigidamente determinate, a partire dalla rilevazione degli aspetti meno consueti o normati/normalizzati delle loro esperienze, che fornirebbero la materia prima per il delinearsi di una intelligenza collettiva più ricca e articolata, per il costituirsi di «collettivi intelligenti» radicalmente democratici. Lévy individua il formarsi di uno spazio antropologico di significazione, quello del «sapere», sulla base delle tecnologie informatiche, in grado di comporre le diverse temporalità individuali in modo tale da «creare una soggettività collettiva e far ripercuotere il tempo collettivo, emergente, sulle soggettività individuali». A differenza degli altri spazi antropologici che hanno contrassegnato il cammino dell’umanità, il cosiddetto «cyberspazio» sembra porsi come il luogo di espressione di «prossimità soggettive e distanze interiori», di pensiero collettivo che si può distendere evidenziando altre qualità d’essere, altri tempi (altre «fonti viventi»), rispetto alle «sincronizzazioni territoriali e mercantili».

Anche attraverso l’ottimismo di Lévy è possibile dunque rimandare a una sensibilità critica, tipica del marxismo più radicale, che coglie quella trasformazione del capitale costante sociale (si vedano i Grundrisse) che richiede una sua attivazione da parte del lavoro intellettuale, cioè di quel cervello e di quel corpo singolare che si pongono come l’unica forza produttiva/forza invenzione. A quest’ultima va riferita la lotta contro il principio dell’accelerazione del tempo proprio del dominio del «lavoro morto», a favore di un tempo per vivere, per amare.



Note [1] P. Virno, Mondanità. L’idea di «mondo» tra esperienza sensibile e sfera pubblica, manifestolibri, Roma 1994. [2] A. Negri, Kairòs, Alma Venus, Multitudo, manifestolibri, Roma 2000.



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Ubaldo Fadini insegna Filosofia morale presso l’Università di Firenze. Fa parte dei comitati di redazione e dei comitati scientifici di numerose riviste, tra cui «Aisthesis», «Iride», «Millepiani», «Officine filosofiche». Tra i suoi lavori più recenti: Velocità e attesa (2020), Attraverso Deleuze (2021), Eterotopie dell’umano (2022).



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