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Sul gusto e i segni

Note di cultura materiale e arti cucinarie



Pubblichiamo un testo di Gianni-Emilio Simonetti contenuto nel suo Le figure del godimento. Cultura materiale e arti cucinarie pubblicato da DeriveApprodi nel 2008.

Queste erudite note sulla «commensalità», sul piacere della socialità del consumo di cibo, fanno da contrappunto a quanto la pandemia ha comportato in termini di limitazione, quando non di negazione, di questo piacere collettivo e del suo senso. Occorrerebbe infatti riflettere sul significato, e le sue conseguenze materiali, di questa privazione, cioè dell’esperienza fatta da molti di un forzato consumo in socialità limitata, se non addirittura in totale solitudine, del cibo.

Il testo è comprensivo di due appendici: una sulla genesi dei «banchetti politici militanti», l’altra sulla filmografia culinaria.


* * *


Le regole di un menu non sono in se stesse più o meno insignificanti delle regole del verso a cui un poeta si sottomette.


Mary Douglas



Il nostro cervello è una macchina insaziabile che divora in continuazione, elaborandoli, glucosio, segni e senso.

Nella modernità tra questi tre «alimenti» ce n’è uno che ha preso il sopravvento sugli altri due: sono i segni. Guardando alla tavola lo intuirono per primi i futuristi, senza rendersene appieno conto: la pastasciutta «assurda religione gastronomica italiana», una liturgia di segni, appunto.

Il fatto che negli atti alimentari tutto tende a trasformarsi in segno ha due esiti: che l’immaginazione diventi uno degli stimoli formativi del gusto. Che la coltivazione dei segni modifichi, ancora una volta, la relazione tra la sostanza delle cose e la cultura materiale che le alleva.

In questo modo, l’origine e la natura del «mangiato» finiscono per essere devalorizzati nei confronti degli aspetti formali che lo accompagnano e acquista un’importanza crescente l’arte di manipolare e comunicare questi aspetti. Non solo, si compie anche un’importante metamorfosi strategica, questi tratti formali avvolgono i segni con un valore etico derivato da quello estetico, così, capitola l’aspetto pratico che guida la phronêsis, la prudenza sensata, il gusto delle cose. Nella fattispecie lo si constata sul registro della qualità, dove da tempo i suoi parametri tradizionali appaiono superati ed è profondamente deteriorata la scala della loro importanza. Forma, colore e struttura sono ora sempre più essenziali alla formazione del gusto e all’innovazione cucinaria, ed esse si coniugano con le cerimonie conviviali dando vita a un vero e proprio teatro gourmand, capace di svaporare la sostanza del desiderio dentro la sua forma letterale, come nel caso della giovinetta tedesca Meret Oppenheim, servita a tavola in più di un’occasione ai suoi scapoli immaginari.

In ultima analisi il gusto, liberato dalla sua millenaria guerra contro la lesina, si è rivelato avido di metafore, immagini, figure retoriche, collocando le parole sopra i sapori e le sensazioni. La scena alimentare è ora il luogo dove i nuovi commensali non vedono che segni e gli affamati non vedono che cose, o per altri versi, questa nuova cucina semiotica rovescia ciò che a suo tempo aveva notato Claude Lévi-Strauss: essendo buona da pensare non può non essere buona da mangiare.

Sulle tavole della socialità questo eccesso della dimensione simbolica dilata la «significazione» e il senso e dà nuove dimensioni al gusto, soprattutto, fa lievitare la posizione della comunicazione a livello di espressione di questi. Così, la comunicazione del «mangiato» è diventata essenziale all’esperienza di colui che mangia ed essa si compensa a spese di ciò che un tempo era il cibo, direttamente nell’immaginario. Anche il sapore degli alimenti ha subìto una svolta, non è più separabile dal legame sociale che crea la commensalità. Un legame che si vincola al contesto attraverso il segno inscritto in una cornice metargomentativa, quella del senso gourmand.

Nella modernità il mondo del senso e dei sensi appare così sempre più intrecciato con il segno, tanto che ne deriva una pratica alimentare che fa della parola una «cuciniera» della sensibilità culturale, dove, scriveva Piero Camporesi, la res coquinaria si trasforma in una ermeneutica totalizzante della storia. Dentro questa cornice il teatro gourmand appare allora come un teatro dell’esperienza dello spazio alimentare e, al tempo stesso, di quella comunicazione che mette in «forma» l’alchimia del gusto tra ciò che in esso è frutto dell’estetica e ciò che gli deriva dalla dissoluzione dell’arsmagirica.

In questo teatro, al dunque, predomina il processo permanente della significazione dietro il quale si condensa l’identità del «mangiato» e il ruolo degli attori sociali, con il risultato di dare una forma alle parti variabili degli atti alimentari e di prefigurarli «all’ordine dell’interazione» (Erwin Goffmann) a cui appartengono. Questa forma – che comunica – ha per gli attori un carattere normativo, in pratica costituisce un modello canonico di organizzazione che la distingue dalla semplice consumazione alimentare, il luogo in cui, a cominciare dalle religioni, si ridefinisce la sovranità attraverso la trasgressione, l’au-delà de l’utilité, come osserva George Bataille. Di più, ha una funzione d’iniziazione per gli attori che per suo tramite si possono, con un neologismo barbarico, «performare», possono «vivere» la tavola e la sua liturgia. In questo modo è inevitabile una drammatizzazione degli atti alimentari che fa emergere le implicazioni sociali della recitazione, il ruolo degli attori e le loro competenze. Mettersi a tavola significa mettersi in forma, perché è colui che mangia che ne vive la retorica. L’immaginario alimentare, del resto, non si limita alla «gustazione» e al piacere orale, ma attraverso essi tende a rivelare una serie di valori, un’identità, il ruolo dell’alterità, le vie che conducono alla simbolizzazione della scena alimentare, scena che, nel suo significato primario, fu portata alla luce da Lévi-Strauss con la formula totalizzante del triangolo culinario.

Appare chiaro ora come il «commensare» rappresenti, in tutte le epoche e in tutte le culture, una delle configurazioni più vitali del legame sociale, tanto che il suo significato rituale e simbolico tracima sempre ben oltre il bisogno, dando vita alla liturgia della commensalità, che possiamo intendere come l’apice materiale delle forme della convivialità, alla lettera, un’obbligazione pubblica. Al centro della commensalità c’è la tavola, nelle sue diverse configurazioni simboliche, come un oggetto inscritto in un ambiente e attrezzato a significare uno scopo, come riflesso della natura e della qualità dei cibi, come luogo d’incontro e di scambio.

Paradossalmente il problema, sul piano simbolico, non è mai il mangiare, ma il saper mangiare nel «nome del padre». Solo a questa condizione la commensalità è nomos, nutre, aggrega e crea coesione, così come, allo stesso tempo, la comunità che la esprime si forma, si ritrova e si riconosce, esterna la sua unità, i suoi legami, la sua capacità di trasformarsi, di aprirsi, di proteggersi e di divertirsi. Verticalizzandosi, poi, la commensalità manifesta la gerarchia, l’ordine, i ruoli, i ranghi, le forme del potere, le posizioni amicali e familiari, il distacco e, insieme, il bello, il gusto, la capacità di cogliere le nuances del sublime ed esprimere gli stili di vita. La commensalità è unificante e trascendente, esprime la follia festiva e struttura le forme sociali, rivela le libertà di dicembre e l’interdetto. Diventa la Calicut delle passioni e garantisce la stabilità delle relazioni umane, così come, allo stesso tempo, può rivelare la crisi di tutto ciò, diventare un’anomalia sul sentiero della sofferenza e dell’impotenza. Annunciare la fine di ogni tradizione e la glaciazione della scena alimentare, per usare un’efficace espressione di Jean-Paul Aron, rivelare l’asepsi delle pratiche cucinarie, i nomadismi del consumo, le crisi identitarie, i radicamenti reazionari a un territorio, la necessità di sensazioni forti o smemoranti.

La funzione simbolica del cibo appartiene anche al mondo animale, dove è facile vedere come spesso esso sia preso in comune e diviso. Tra gli insetti sociali è un legame biologico che serve a costruire la loro società. Negli uccelli è un legame maternale condiviso. Tra i mammiferi che vivono in gruppi è uno strumento che gerarchizza la società, sottolinea le differenze sessuali.

Tra gli uomini si stima che il fenomeno della simbolizzazione alimentare sia comparso circa cinquecentomila anni fa. Questa data corrisponde grossomodo a quando la preparazione del cibo ha cominciato a svolgersi intorno a un fuoco e si è diffuso il suo consumo in gruppo [1].

Elementi che hanno favorito l’evolversi di una radice funzionale della convivialità e, di conseguenza, il nascere di luoghi privilegiati da adattare alla cucina e all’incontro. A causa delle dinamiche sociali è facile immaginare che la scelta degli alimenti, che non poteva essere indifferente, ha prodotto da subito le prime ineguaglianze o, se si preferisce, la formazione delle prime élite. L’ineguaglianza, poi, ha agito da volano sui processi di simbolizzazione, accentuandoli. Come ha osservato Lévi-Strauss, l’umanizzazione corre parallela alla cucina del simbolico. In altri termini, da subito il «banchetto» è apparso carico di contenuti magici e diffuse l’abitudine di dividere con le divinità gli animali uccisi: un modo ambiguo di ritorno a Edipo. Abitudine che, possiamo immaginare, si è andata rafforzando in presenza di avvenimenti eccezionali come sono le nascite o le morti.

Questa cucina del simbolico ha due livelli. Il primo è quello dell’incorporazione, vale a dire, dell’ingestione di valori positivi o negativi legati al cibo. Il secondo è quello in cui il valore simbolico degli alimenti si costituisce in una forma di legame tra coloro che mangiano insieme, perché la commensalità si manifesta sia come azione del cibo sull’individuo che come condizionamento delle scelte alimentari. La cucina di maiale nel medioevo europeo ha espresso la funzione di simbolo distintivo nei confronti del mondo islamico e degli ebrei; così come il vino ha marcato il distacco dalle regioni del sidro e della fermentazione dei cereali. Dentro questa dimensione le pratiche conviviali sono una vera rappresentazione del cum vivere, anche ai suoi livelli più materiali. Ci sono molte culture in cui condividere un pasto significa contrarre un legame o un impegno, ma ciò che unisce può anche separare, a cominciare dagli dei. I greci offrivano loro le ossa lunghe, il grasso, che brucia bene e le viscere. I romani uno spezzatino di avanzi. Nel symposion i primi coltivavano l’arte di bere, i secondi preferivano dividersi le carni. Alcune culture nel banchetto ricercavano, attraverso la possessione dionisiaca, l’erotismo, la profezia, la poesia. Altre, l’ascetismo e la legge, un’opposizione all’eros captativo in difesa dell’agape ablativa.

Bere nella stessa coppa ha significato per secoli stringere alleanze, annunciare la fratellanza, così come impegnarsi davanti agli dei. La commensalità spesso invita all’oblio, ma sa circondarsi di regole, rispettarle distingue il coltivato dal barbaro. I legami simbolici che essa crea sono possenti, ma possono essere disfatti, in un attimo, dalla perversione. Se il cibo abbonda, la tavola è il luogo della disponibilità. Se il bere abbonda, l’ebbrezza favorisce la confidenza o la congiura. Intorno alla tavola si stringono patti scellerati, si tradisce, soprattutto, si recita. Un tempo era lo spettacolo che la conteneva a misurare il potere della sua teatralità, oggi è essa stessa il luogo di un teatro gourmand che, in qualche modo, realizza l’invito di Jean-Jacques Rousseau a fare spettacolo con gli spettatori. La sua forma ha sempre deciso la cerimonia e i ruoli. Quella rotonda è con il pane e il vino il fondamento eucaristico del nostro immaginario, i fasti e le feste che la storia ha inventato, la dimensione del suo significato simbolico. Quando è a ferro di cavallo emargina sulle punte coloro a cui sono destinati i «bocconi amari», le interiora rovinate dal fiele, perché il gusto è anche un evento sociale attraverso il quale si costituisce l’identità, peccato che molto spesso a questo punto la tavola diventi un altare e le strutturazioni metonimiche affondino con l’evidenza ogni forma di godimento.


Appendice: I banchetti politici

Dai soupers fraternels della Rivoluzione Francese alle agape riformiste del 1848, lunga e impervia è la strada per il castello della socialità e dintorni! Nato come abbraccio tra disperati, divenuto poi uno strumento di rappresentanza politica, il banchetto militante è qualcosa che esprime, contraddicendosi, la sociabilità e il potere, una volta travolta l’antica ragione di incontro conviviale tra eruditi ed affermato il principio di una commensalità tra citoyens, eredi, da una parte, dell’ideale aristocratico della sapienza tra pari, dall’altra, dell’ascetismo del cenaculum cristiano. Infatti, se l’opulenza spinge verso la fraternità, l’eguaglianza rivoluzionaria si presenta come l’altra faccia della commensalità. In mezzo c’è la stagione, mai tramontata, dei cafés révolutionnaires, come quello brussellese «dalle mille colonne», ai cui tavoli Auguste Blanqui ha scritto le sue istruzioni per una sollevazione armata.

Agli occhi degli affamati i banchetti riformisti non si sottraggono a un oscuro sospetto, di associare la riflessione sulla politeia all’arte di masticare, facendo dei propos de table una filosofia spiccia delle forme di democrazia e del servizio alla carta un nuovo ordine politico. Questo sospetto è legittimato dall’incertezza di una hestiasis che, un tempo, era la culla della coscienza di una storia collettiva o, più semplicemente, di un’etica conviviale condivisa.

Nel corso dell’Ottocento, tuttavia, questi banchetti, difendendo le politiche riformiste, acquistano un titolo di democraticità e appaiono alla pubblica opinione come una variante antiautoritaria di un’agitazione legale, molto diversa dalle agape delle società segrete. Dopo i fuochi del 1848, proibite le associazioni politiche fondate per abbattere l’ordine costituito, sono gli avvenimenti della vita corrente a giustificare, legittimare e teatralizzare la volontà di deliberazione popolare. A Parigi si fonda addirittura un «Comitato per i banchetti» presso un editore repubblicano di almanacchi profetici e pittoreschi, Pagnerre. Costui aveva intuito che un altro spettacolo andava contrapposto alle assemblee parlamentari, la commedia di una rappresentanza egualitaria e diretta.

Il primo banchetto repubblicano si tenne nel luglio 1847, in un sabato di luna nuova, tra le aiuole di un giardino di Montmartre. Vi parteciparono circa duecento persone distribuite tra una dozzina di tavoli. I cibi, arrivati freddi a tavola, furono riscaldati dall’entusiasmo. I canti rivoluzionari di un’orchestrina finirono coperti dagli schiamazzi e dalle risate dei commensali. Questi banchetti incendiarono la Francia e la Savoia, se ne organizzarono più di settanta in sei mesi. La parola d’ordine che campeggiava sui menù era una sola: À la souveraineté du peuple. Da essi furono deliberatamente omessi i brindisi all’autorità. La borghesia cominciò presto a dare segni d’impazienza, non tollerava una classe operaia che le si rivoltasse contro, dei professionisti che la tradissero, degli studenti che la irridessero. Il 22 febbraio 1848, in un martedì parigino freddo e piovoso, Louis- Philippe, incautamente, nega l’autorizzazione all’ennesimo banchetto riformista, scoppia un’insurrezione che da lì a poco darà vita alla Seconda Repubblica. La leggenda è nata, sono bastati 17.000 coperti per rovesciare un potere costituito. I tedeschi imitano, senza successo, la ricetta, le altre nazioni stanno a guardare, dappertutto volano le tavole apparecchiate. Intanto lo «strumento» si è perfezionato. La scenografia di questi banchetti diventa una vera e propria rappresentazione di un’etica. In essi non c’è magia, né deboscia, la sessualità è «forclusa», non si offre niente ai defunti, tuttavia i commensali apprendono, sotto lo sguardo benevolo di decine di busti di Marianna, la difficile arte di stare a tavola, di contenersi. Si addestrano, tra un brindisi e l’altro, all’arte oratoria. Il piacere è bandito, una pulsione regolatrice li travolge, bicchiere alla mano. Non ci sono capricci, quello che si paga è francamente poco, ma come notano i cronisti, si rischia una frustrazione da lesina. Nascono così i patronati e si esalta la libéralité citoyenne. I commensali sono ristretti ai soli elettori, alle donne e ai bambini la drammaturgia riserva una semplice funzione allegorica, tutt’al più cantano la Marsigliese, gli occhi bassi, non devono tradire la purezza dei valori repubblicani, anche se, molto presto, saranno i seni scoperti di una puttana del Marais a guidare quegli uomini alla lotta.

Nei banchetti riformisti la circolazione del cibo sulla tavola fa gustare meglio la varietà, il servizio alla russa, con le sue porzioni anonime, trasforma tutti in convitati. A queste tavole gli appetiti s’intrecciano con i programmi, anche a costo di rivelare quello che sarà compreso mezzo secolo più avanti, il primato della parola sul gusto, il potere dello spettacolo sulla parola. Si consacra l’autonomia, ma si mortifica il piacere, Jean-Paul Aron parlerà di un festino di parole, quelle che si masticano non sono da meno di quelle che si dicono. Esse sono nutrimento e decoro, tanto basta per illudere i più di appartenere a una nuova aristocrazia. Del resto, se è la cucina a fondare la cultura, perché negare alla commensalità il potere delle metafore? (Alla fine saranno i pasticceri di Parigi a celebrare le barricate del 1848 con un pane dolce che prese il nome di pavé du Marais).


Note

[1] Il fuoco ha fatto di più e di meglio che nutrire il corpo, ha creato le circostanze per incontrare l’altro da noi e ha inventato lo spirito.


Immagine: omaggio a Gianni Sassi, dalla copertina della rivista «La Gola: mensile del cibo e delle tecniche di vita materiale», n. 7, maggio 1983.



Filmografia culinaria


Di seguito una lista di film suddivisi in grandi temi. Alcuni sono dedicati dall’inizio alla fine al tema del cibo, altri contengono semplicemente scene legate al tema. Questo elenco è una selezione: quale film non contiene una scena di pasto, da Le Déjeuner de bébé (Il pranzo del bambino) dei fratelli Lumière del 1895? Filmare la gastronomia


Theodor hiemeis, oder wie man ehemalige hofkoch wird, Hans-Jiirgen Syber- berg, 1972 (la follia alimentare di re Ludwig II è vista attraverso le memorie del suo cuoco Theodor Hiernis).

Le Festin de Babette, Gabriel Axel, 1987 (in una piccola comunità danese nello Jutland, Babette, ex chef del Café Anglais a Parigi nel 1860, organizza un pasto indimenticabile, una vittoria della gastronomia sul puritanesimo).

Eat Drink Man Woman, Ang Lee, 1994 (Mr. Chu, il più grande cuoco di Taipei, salvato dall’agueusia trasmettendo il suo sapere; scene impressionanti di preparazione di cibo cinese).

The Big Nigth – Being Close to God, Stanley Tucci, 1996 (un ristorante italiano negli Stati Uniti).

Dinner Rush, Bob Giraldi, 2000 (un ristoratore di New York alla moda e la nuova cucina).


Ch’ere Martha, Sandra Nettelbeck, 2001 (la nuova cucina vista da una regista tedesca).

Tortilla Soup, Maria Ripoll, 2001 (preparazione di un pasto messicano da parte di uno chef messicano-americano che vive a Los Angeles).


Cuochi o ristoranti come elementi centrali


L’Auberge rouge, Camille de Morlhon (1910), Jean Epstein (1923), Claude Autant-Lara (1951) (adattamento del romanzo di Balzac).


La Cuisine au beurre, Gilles Grangier, 1963 (burro contro olio, con Fernandel e Bourvil).


Le Grand Restaurant, Jacques Besnard, 1966 (Septime, interpretato da Louis de Funès, è il tirannico capo di un ristorante gourmet).


Le Gout du saké, Ozu, 1968 (durante una festa in cui incontra i suoi amici per bere sake,

Hirayama, un vedovo, viene spinto a sposare sua figlia).


La Grande Cuisine, Ted Kotcheff, 1978 (misteriosi omicidi di grandi chef).


Garçon, Claude Sautet, 1983 (Yves Montand, un ragazzo di una grande serie parigina).


Tampopo, Juzo Itami, 1985 (la ricerca del proprietario di un ristorante giapponese per la migliore ricetta di noodle del paese).


Le Festin chinois, Tsui Hark, 1995 (la preparazione di un banchetto ispirato a una festa imperiale, una vera sfida culinaria).

Au Petit Marguery, Laurent Bénégui, 1995 (l’ultima notte di un ristorante parigino).


Les Mille et Une Recettes du cuisinier amoureux, Nana Dzhordzhadze, 1997 (un cuoco francese si trasferisce in Georgia e si innamora di una principessa).


Cuisine américaine, Jean-Yves Pitoun, 1997 (un giovane cuoco americano arriva a Digione per diventare chef).


Woman on Top, Fina Torres, 1999 (l’arte della cucina brasiliana come metafora dell’amore).


Vatel, Roland Joffé, 2000 (la storia del famoso chef Vatel – interpretato da Gérard Depardieu – che si suicidò nel 1671 perché pensava che fosse troppo tardi per preparare in tempo una cena per Luigi XIV).


La ricostruzione storica dei banchetti


La Kermesse héroique, Jacques Feyder, 1935 (all’inizio del XV secolo, l’arrivo dei conquistatori spagnoli in una città delle Fiandre: le donne organizzano una festa per gli invasori).


Les Visiteurs du soir, Marcel Carnè, 1942 (con la rievocazione di banchetti medievali, in un film ispirato a Les Très riches heures du due de Berry).


Le Souper, Édouard Molinaro, 1992 (l’incontro nel 1815 tra Talleyrand e Fouché a cena, per decidere il destino della nazione).


Gohatto, Nafashi Oshima, 1999 (film giapponese ambientato in una scuola di samurai alla fine del XIX secolo).


Gli ingredienti: cavolo, ma soprattutto cioccolato


La Traversée de Paris, Claude Autant-Lara, 1956 (per l’importanza del maiale).


La Soupe aux choux, Jean Girault, 1981 (zuppa di cavoli come cemento di un incontro con un extraterrestre).


Merci pour le chocolat, Claude Chabrol, 2000 (suspense in Svizzera, con Isabelle Huppert nel ruolo di Mikka, PDgère dei cioccolatini Muller).


Le Chocolat, Lasse Hallstròm, 2001 (1959, l’installazione di una fabbrica di cioccolato in un piccolo villaggio: il cioccolato guarisce l’anima).


Charlie and the Chocolate Factory, Tim Burton, 2005 (dal libro di Roald Dahl, La visita di Charlie alla fabbrica di cioccolato Wonka).


Intorno al tavolo: dal pasto di famiglia alla commensalità estesa


Tom Jones, Toy Richardson, 1963 (Inghilterra del XVII secolo: truculenza e baldoria, festa e libertinaggio).


Il fascino discreto della borghesia, Bunuel, 1972 (o il pasto perennemente rimandato).

Fanny e Alexander, Ingmar Bergman, 1982 (i pasti strutturano la storia della famiglia Ekdahl).


The People of Dublin, John Huston, 1987 (il capodanno della famiglia e l’emergere dei ricordi e del non detto).


Lunga vita alla signora, Ermanno Olmi, 1987 (la satira dell’alta società italiana attraverso la messa in scena di una cena).


Frankie and Johny, Garry Marshall, 1991 (l’incontro di Frankie e Johnny, che lavorano nello stesso ristorante).


Mon diner avec André, Louis Malie, 1991 (due amici si incontrano in un ristorante e parlano delle loro vite).


Spezie della passione, Alfonso Arau, 1992 (il desiderio d’amore si esprime attraverso surrogati culinari e i piatti emblematici della cucina messicana diventano i simboli di una vita accettata e rifiutata allo stesso tempo).


The Age of Innocence, Martin Scorcese, 1993 (una serie di cene nell’alta società newyorkese di fine Ottocento).


Un air de famille, Cédric Klapisch, 1996 (una cena di compleanno nel bistrot gestito da uno dei membri della famiglia si trasforma in un regolamento di conti).


Soul Food, George Tillman Jr. 1997 (la cena domenicale di una famiglia nera americana).


Le Dìner de cons, Francis Veber, 1998 (chi porterà a tavola l’ospite più stupido?).


Festen, Thomas Vinterberg, 1998 (il pasto di famiglia e lo svelamento dell’incesto del padre).


Il matrimonio, 2000, Pavel Longuine (intorno a un buffet di nozze).


Kitchen Stories, Bent Hamer, 2003 (la routine degli uomini single nella loro cucina).


Antropofagia e altre perversioni


Anche se non specificamente dedicati all'antropofagia, alla coprofagia o ad altre perversioni, questi film ne contengono una o più scene.


Aimez-vous les femmes, Roman Polanski, 1964 (una donna come possibile pasto).


Como Era Gostoso o Meu Francis, Nelson Pereira dos Santos, 1971 (antropofagia).


Soylent Green, Richard Fleischer, 1973 (antropofagia).

La Grande Bouffe, Marco Ferreri, 1973 (dove si passa dalla cena all’orgia suicida).


Le Fantôme de la liberté, Luis Bunuel, 1974 (sedersi a tavola su un water e mangiare nel water come nuova regola di comportamento sociale).


Salò o le 120 giornate di Sodoma, Pier Paolo Pasolini, 1975 (coprofagia).

Diner, Barry Levinson, 1982 (il cibo come oggetto sessuale).


Il cuoco, il ladro, sua moglie e il suo amante, Peter Greenaway, 1989 (antropofagia).


Delicatessen, Jean-Pierre Jeunet, Marc Caro, 1991 (antropofagia).


Il silenzio degli innocenti, Jonathan Demme, 1991 (antropofagia).


American Pie, Paul Weitz, 1999 (cibo come oggetto sessuale).


Hannibal, Ridley Scott, 2001 (antropofagia).


The Green Butchers, Anders-Thomas Jensen, 2004 (antropofagia).

Nuova cucina, Fruit Chan, 2006 (ravioli cinesi molto speciali sostituiscono l’Acqua della Giovinezza).


Cibo spazzatura e il suo contrario


L’Aile ou la cuisse, Claude Zidi, 1976 (gastronomia contro cibo industriale).


Le Bonheur est dans le pré, Étienne Chatiliez, 1995 (il buon cibo contro il cibo spazzatura).


Super Size Me, Morgan Spurlock, 2004 (sperimentale: come la frequentazione di ristoranti fast-food porta all’aumento di peso).


E anche


Citiamo anche Voici le temps des assassins di Julien Duvivier, 1956 (per i locali gastronomici e le vedute del mercato delle Halles), 2001, L’odyssée de l’espace, di Stanley Kubrick, 1968 (come mangiare in assenza di gravità), The Matrix, di Andy e Larry Wachowsky, 1999 (l’alimentazione della fantascienza), Ben Hur, William Wyler, 1959 (la scoperta di pratiche straniere legate al mangiare, in particolare i rutti), Une affaire de gout, Bernard Rapp, 2000 (un industriale assume un «assaggiatore», ma anche, perché i loro titoli giocano sulla metafora culinaria o semplicemente sulla menzione di un alimento, Fragole e cioccolato, di Tomas Gutierrez (1993), Fragole selvatiche, di Ingmar Bergman (1957), Riso amaro, di Guiseppe de Santis (1949), Il macellaio, di Claude Chabrol (1970), Cucina e dipendenze, di Philippe Muyl (1993), Il profumo della papaya verde, di Tran Anh Hung (1993).








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