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Sul capitalismo digitale. Intervista a Federico Chicchi




La prima intervista che ho avuto modo di condurre con Federico Chicchi, otto anni fa, ha riguardato le dimensioni generali e gli aspetti specifici dei cosiddetti «processi di soggettivazione» nel passaggio dal capitalismo industriale a quello neoliberale (vedi Sui processi di soggettivazione in Sudcomune. Biopolitica inchieste soggettivazioni, n. 0/2015, qui scaricabile: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-rivista-sudcomune). Mentre l’intervista che pubblichiamo oggi riguarda i principali cambiamenti nell’esercizio di potere nel capitalismo neoliberale, dalla fase «dall’imprenditore di se stesso» alla fase attuale della cosiddetta «governamentalità algoritmica». È una lettura importante, che ci aiuta a comprendere la matrice delle psicopatologie cui le soggettività sono sottoposte nel capitalismo digitale.



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Nel tuo ultimo libro scritto con Anna Simone, Il soggetto imprevisto (Meltemi, 2022), scrivi che nella società della prestazione la produzione di soggettività ruotava intorno alle forme dell’impresa, mentre oggi ruota intorno ai dispositivi della “governamentalità algoritmica” che inducono alla quantificazione del sé, ossia: «alla contabilizzazione di ogni emozione, di ogni gesto, di ogni espressione sociale che i dispositivi algoritmici riescono a catturare e valorizzare economicamente». Ci descrivi i termini principali di tale governamentalità?


Non è una domanda facile perché in essa si accavallano vari aspetti, proverò comunque a dare una risposta sintetica. Questo testo nasce all’interno di quello che Anna Simone ed io assumiamo come la crisi del modello capitalistico che per molto tempo ha insistito sulle nostre vite e dato forma alle pratiche sociali ed economiche della società contemporanea. In altri termini è un libro che nasce in seno alla crisi dei neoliberalismi, uso il plurale perché, com’è noto, il paradigma neoliberale si declina in modo molto differente a seconda del contesto territoriale in cui prende forma. Bisogna innanzitutto dire che la crisi di questo modello non è sintomatica della crisi del sistema capitalistico tout court ma significativa di un’ulteriore trasformazione del capitalismo neoliberale. Se questa è una trasformazione che porterà al suo definitivo tramonto al momento non ci è possibile saperlo. In tal senso, se il neoliberalismo degli ultimi anni del ‘900 e dei primi due decenni del nuovo secolo ha basato il suo funzionamento sulla determinazione di una soggettività basata sulla assunzione delle forme dell’impresa, sull’imprenditore di se stesso, oggi, dopo la pandemia da Covid 19, questo soggetto che si sarebbe dovuto imporre e generalizzare come qualità sociale fondamentale è entrato in crisi. Bisogna aggiungere che ciò che è accaduto con la pandemia non può essere circoscritto solo agli elementi sanitari o di salute pubblica ma ha avuto degli effetti molto significativi anche sui processi complessivi di organizzazione della vita sociale. Questo è il contesto dentro cui si è mossa la nostra interrogazione sul mondo capitalistico contemporaneo, un contesto di crisi del modello in cui l’imprenditore di se stesso era il fulcro plasmando un soggetto molto differente dal cittadino della società industriale, dal lavoratore salariato di fabbrica, un soggetto per il quale il rischio e le prestazioni sono fondamentali cosi come la competitività e la capacità di agire in modo efficace sul mercato: un soggetto che deve diventare imprenditore di se stesso pur non avendo la proprietà dei mezzi di produzione, che deve diventare capitale umano ed essere in grado di valorizzare la sua produzione intangibile. Per essere più precisi, possiamo datare l’inizio della crisi del capitalismo neoliberale già prima della pandemia, considerando però che quest’ultima ha accelerato ed esasperato i cambiamenti in corso facendo sì che il capitalismo delle piattaforme divenisse egemone su altre forme di capitalismo old style. In fin dei conti il successo del neoliberalismo si basava sulla promessa di liberazione dalla subordinazione del lavoro salariato, una promessa secondo cui tutti potevamo aspirare al successo, tutti potevamo diventare capitalisti, tutti imprenditori, tutti ricchi, bastava crederci, essere scaltri, capaci di competere. Ma quando la precarietà ha iniziato a generalizzarsi e a mordere le nostre vite, e siamo a nel primo decennio del nuovo secolo, l’imprenditore di se stesso si è scoperto sempre più fragile e povero. Poi con la pandemia, con l’arrivo del soggetto imprevisto, le condizioni di fragilità sociale sono addirittura aumentate: si va incontro alla morte e ci si rende conto dell’incapacità del sistema di garantire sanità, trasporti e tutta una serie di servizi essenziali che davamo per scontati. Nel libro sosteniamo che per un momento si è palesata la possibilità di scorgere una strada nuova rispetto a quella neoliberale. Purtroppo, però questa si è rivelata essere in breve tempo una falsa opportunità. La crisi del neoliberismo è stata affrontata attraverso la reintroduzione di forme di sovranità e di disciplina in quel meccanismo di alternanza che già Deleuze e Guattari avevano quarant’anni fa definito come de-territorializzazione e ri-territorializzazione [1]. In questa fase il capitalismo neoliberale si riterritorializza, certo non torna al passato, al patriarcato così come l’abbiamo già conosciuto, ma accanto al formarsi di una forma di inedito potere basato sugli algoritmi e sulla de-territorializzazione vengono reintrodotte alcune prassi di tipo disciplinare e questo processo espone il modello a nuove turbolenze e contraddizioni interne come ad esempio, purtroppo, la guerra. Basti anche pensare a cosa è accaduto a Capitol Hill negli USA (e ora anche in Brasile), che possiamo considerare come un punto privilegiato di osservazione di questa crisi del capitalismo neoliberale che, da un lato, insegue una dinamica di codificazione di tipo trumpiano o bolsonariano, da un altro, invece, insegue una dinamica di deterritorializzazione trascinata dagli interessi delle grandi imprese digitali della Silicon Valley. Siamo in un momento in cui il grande capitale deve riorganizzarsi e questo lo espone a una crisi interna molto dura, che emerge sotto numerosi aspetti: distruzione dell’ambiente e richieste di giustizia climatica, crescita delle disuguaglianze sociali, guerre, nuove forme d’imperialismo, migrazioni, eccetera. In questo stato di cose, va aggiunto, è comunque possibile rintracciare delle tendenze in atto proprio analizzando i processi di riorganizzazione digitale delle attività produttive e sociali: la platformization, da questo punto di vista, è il nucleo non solo tecnologico sul quale si tenta di ricostruire il tema della soggettività dentro la crisi dell’imprenditore di se stesso, crisi che prefigura una modalità di esercizio del potere radicalmente nuova che, riprendendo un concetto coniato da una filosofa politica belga, definiamo di governamentalità algoritmica [2].


Effettivamente le “piattaforme digitali” nella vostra interpretazione assumono una importanza peculiare. Scrivete che entrano in modo invasivo nelle nostre vite e, in generale, che riescono ad alterare profondamente il modo in cui valori e gli interessi pubblici sono definiti, legittimati e praticati. Insomma, delle formidabili macchine del potere o, meglio, una sorta di “ecosistema” nel quale siamo tutti immersi e che riesce a influenzare la decisione politica e il dibattito pubblico. Direi, con mie parole povere, che sono il contesto tecnologico che consente la digitalizzazione dell’intera nostra vita. Nel libro vengono declinate come dispositivi digitali per il governo delle città, dei rapporti di lavoro, delle prestazioni lavorative. Puoi illustrarci, in sintesi, questo aspetto?


Prima di tutto va detto che non dobbiamo intendere le piattaforme solo come un dispositivo tecnico o anche semplicemente come un modello di business. Voglio dire che le piattaforme non sono solo efficienti nel collegare utenti con bisogni simili e nel fare incontrare domanda e offerta. In un certo senso, la piattaforma agisce sul mercato sostituendo e alterando il modo in cui prima le imprese agivano sul mercato; fare impresa un tempo significava dotarsi di risorse in modo da poter governare l’incertezza dei mercati competitivi, fare impresa significava separare l’azione economica dalla viva contingenza del mercato affinché si riuscisse a seguire una direzione finalizzata al raggiungimento di determinati obiettivi di produzione e profitto. Questo, in particolare era quello che sosteneva Ronald Coase - importante economista inglese, naturalizzato statunitense, padre dell’approccio neo istituzionalizza e vincitore del premio Nobel dell’economia nel 1991- già prima della Seconda guerra mondiale [3].

Con le piattaforme questa tipica funzione dell’impresa viene meno, per tutta una serie di ragioni. Una delle principali è che le piattaforme non esercitano il loro comando in modo gerarchico e direttamente disciplinare, come avveniva e avviene nelle imprese “tradizionali”; coloro che lavorano nelle piattaforme non sono sottoposti a gerarchie stabili e fissate una volta per tutte, pertanto i lavoratori di piattaforma non possono essere considerati salariati nel senso stretto del termine perché il modo in cui entrano in rapporto con i loro datori di lavoro è caratterizzato per lo più da nomadicità, instabilità e intermittenza. I lavoratori possono, ad esempio, operare per più piattaforme contemporaneamente e in alcuni casi, vedi Uber o la maggior parte delle piattaforme di food delivery, sono loro i proprietari del mezzo di lavoro (nel caso citato, del mezzo di trasporto utilizzato per lavorare). Insomma, le piattaforme non possono essere descritte attraverso le tradizionali categorie economiche perché agiscono in modo totalmente nuovo e riscrivono in modo nuovo le regole di funzionamento della competizione economica. Per restare sulla tematica specifica del rapporto di lavoro, ad esempio, tutta una serie di tutele solitamente previste nei contratti dei dipendenti salariati, per un lavoratore delle piattaforme, non esistono: se un rider si fa male quando porta una pizza a un cliente, sono fatti suoi. In questo frangente risulta essere un lavoratore autonomo a tutti gli effetti, che si assume delle responsabilità e dei rischi. Il problema è che allo stesso tempo la piattaforma non si limita a organizzare la comunicazione tra il pizzaiolo ed il rider, di quest’ultimo ne misura al contrario continuamente l’efficienza, la velocità, valuta la qualità del servizio in base ai feedback degli utenti finali, valuta la disponibilità a farsi reperire nei picchi di domanda, e così via; in altre parole, se vuole portare le pizze, il rider deve sottostare all’algoritmo ed alle sue regole di organizzazione del servizio. Tutto questo mostra l’esistenza di inedite e per certi versi paradossali forme di subordinazione che soppiantano (anche se non del tutto, ovviamente) quelle precedenti e che spesso possono essere, rispetto all’esecuzione dei compiti, anche più stringenti di prima. Tutto questo mostra il definirsi di una situazione in cui il rapporto capitale-lavoro si scompone e ricompone in maniera nuova e paradossale [4]. Basti pensare che ci sono, anche in Italia, tribunali che riconoscendo la deformazione introdotta sul mercato del lavoro dalle piattaforme hanno intimato alle stesse di internalizzare i lavoratori come dipendenti. L’indifferenza verso tale sentenza – al netto di una piattaforma importante come Just Eat che si è in parte adeguata – evidenzia che è problematico rendere effettiva tale internalizzazione.

Bisogna a questo punto aggiungere, per tornare alla tua domanda, che questa gestione per lo più arbitraria della forza lavoro si realizza dentro una generale trasformazione dei modi di percepire, di sentire e di vivere i contesti territoriali, una generale trasformazione che vede la nascita dei cosiddetti «ecosistemi digitali». Le piattaforme, in tal senso, istituiscono lo spazio in cui è possibile esprimere i propri desideri, sentire (e confondere) la propria vita di lavoratori con quella degli utenti delle piattaforme. La città stessa, la sua morfologia, viene rimodellata dalle piattaforme. A Bologna, ad esempio, AirBnB ha praticamente monopolizzato il mercato degli affitti delle case private e gli studenti oggi non trovavano più alloggio perché le case vengono vincolate ad affitti brevi che sono profittevoli per la piattaforma e molto più redditizie per chi affitta. Bologna, così, e diventata più turistica, più smart city, una città da consumare… che ha smarrito la sua vocazione territoriale ed è diventata sempre più dipendente dalle piattaforme. In questi casi, quando si vengono a creare delle dipendenze di fatto, si parla di ecosistema: utilizzo google maps per orientarmi, uber per muovermi, booking per alloggiare, glovo per mangiare, visa electron per acquistare beni e servizi, eccetera, eccetera.


Nel vostro libro, tra gli altri, c’è un ulteriore concetto particolarmente importante, quello di «macchine asignificanti». Cosa intendete di preciso?


Su questo occorre fare una piccola premessa: personalmente credo che questo concetto, sul quale la letteratura sul capitalismo digitale ha poco insistito, rappresenti invece quella chiave di volta per capire le profonde trasformazioni contemporanee. Per meglio intenderlo dobbiamo tenere a mente quanto detto sulla governamentalità algoritmica e cioè, semplifico, che si tratta di un modo nuovo di esercitare il potere rispetto a quanto accadeva nelle società disciplinari, a partire dal fatto che tale esercizio di potere non si basa più su di un “regime di verità”. Provo a spiegarmi meglio: nelle società disciplinari l’esercizio del potere, per quanto violento potesse essere, presupponeva una giustificazione più o meno ideologica, mentre oggi, nella governamentalità algoritmica, l’esercizio del potere si giustifica da se, non ha bisogno di un apparato ideologico che lo legittimi perché l’algoritmo, ovvero l’intelligenza artificiale che lo fa funzionare, è capace di determinare immediatamente ciò che è vero e ciò che è falso e questo avviene non più sulla base di criteri morali o ideologici ma semplicemente in quanto “funziona”, perché è efficace. Per giungere a tale risultato il potere algoritmico opera attraverso tecniche di predizione, profilazione e prelazione. È l’algoritmo che, senza che noi ce ne possiamo rendere conto, ci suggerisce cosa e come desiderare. La soggettività si costruisce dentro questo meccanismo che non ha bisogno più di essere giustificato perché, diciamo così è capace di offrirti quello che tu credi di volere. Detto ciò, dobbiamo subito aggiungere che questo processo nella pratica non è senza “recalcitranze” (altro concetto proposto da Antoinette Rouvroy), recalcitranze capaci di evidenziare la possibilità di far da ostacolo al potere algoritmico. Queste recalcitranze - come, ad esempio, i corpi che si ammalano, le psicopatologie che aumentano, eccetera - sono i cosiddetti sintomi dissidenti, che segnalano che c’è qualcosa che non va, che esistono dei limiti al funzionamento della governamentalità algoritmica. Ad esempio, durante la pandemia, per tornare al nostro soggetto imprevisto, lo si è visto con chiarezza. Quando ci hanno chiesto di usare il green pass, ad esempio, non tutti lo hanno accettato, perché interpretato come una forma invasiva di tracciabilità. Questo per dire che l’algoritmo non riesce ancora a superare le barriere sociali che si trova davanti ed è, piuttosto, pieno di contraddizioni interne. In tal senso mi sento di dire che c’è ancora spazio per fare politica, a patto però di intendere precisamente cosa è questo nuovo potere dell’algoritmo, e che questo non funziona esclusivamente per assoggettamento - l’assoggettamento è il modo in cui i corpi vengono modellati attraverso la disciplina, la retorica e l’ideologia - ma anche e soprattutto per asservimento [5], perché si tratta di pratiche che non hanno un significato e che semplicemente funzionando ci portano ad assumere posture (anche inconsapevoli), ci portano a fare attività, azioni dettate in modo inconsapevole dal potere digitale, e che riescono anche ad alterare il nostro modo di percepire e di sentire, che ci inducono a trascinare e consegnare tutta la nostra vita privata, tutta la nostra intimità dentro la macchina digitale e finanziaria.


Mi ha sempre colpito il tema della predizione dell’algoritmo. Potremmo considerare questa predizione come il vero che sarà domani?


In effetti non ho ancora parlato di come cambia la temporalità al tempo delle piattaforme e degli algoritmi. Questo è punto molto importante. Oggi non viviamo più la temporalità del profitto immediato. Come militanti oltre che come studiosi, abbiamo sempre vissuto un tempo e siamo stati abituati a pensare il profitto come un elemento fondamentale per capire i rapporti di forza e le dinamiche politiche e produttive del capitalismo; ma in realtà, oggi, il meccanismo predittivo dell’algoritmo introduce uno scatto in avanti alterando la concezione della temporalità cui eravamo abituati (e con buona pace di Kant). Il problema per il capitale non è più il profitto immediato ma il riuscire a costruzione degli ecosistemi dove sia semplice poi ottenere rendimenti futuri. Provo a spiegarmi meglio. Noi sappiamo che il capitale è un rapporto sociale che per protrarsi nel tempo ha bisogno di crescere continuamente, non può stare fermo, deve rivoluzionare di continuo di mezzi di produzione affinché possa passare da una fase (x) ad una fase (x+1), affinché ci sia un delta tra una fase precedente del ciclo economico ed una fase successiva. Questa trasformazione continua, cui siamo costretti noi tutti, capitalisti compresi, riguarda il processo economico ma anche lo spazio e il tempo. Lo spazio perché il capitalismo mira ad estendere i propri confini: deve portare “dentro” ciò che prima era “fuori”. Il tempo perché è direttamente connesso alla creazione di plusvalore[6]. In questi ultimi decenni abbiamo avuto modo di osservare che, relativamente allo spazio, viene meno la separazione tra la sfera della produzione e quella della riproduzione sociale. In altri termini, tutte quelle attività di cura, di attenzione alla vita, all’ambiente, eccetera - che nella società industriale non erano coinvolte direttamente nel processo di valorizzazione capitalistica (che stavano “fuori”) - attualmente sono diventate anch’esse produttive di valore proprio grazie alle tecnologie digitali, che creano le condizioni affinché le attività di cooperazione sociale prima spontanee, ora organizzate dalle piattaforme, vengano assorbite dal sistema capitalistico. Per quanto riguarda invece le trasformazioni temporali, invece, bisogna dire che non viviamo più nel tempo della realizzazione immediata del profitto, quanto piuttosto nel tempo della “assettizzazione”, cioè il tempo necessario per ottenere degli “asset” interni ad un ecosistema digitale. In questi termini, ad esempio, un autore importante come Carlo Vercellone parla del “divenire rendita del profitto”. Oggi, dal punto di vista capitalistico, è sempre più importante realizzare delle rendite nel tempo che dei profitti nell’immediato[7]. Se guardiamo alla storia di Amazon, che oggi è un vero e proprio impero, ad esempio, notiamo che per almeno dieci anni non ha fatto profitti pur investendo grandi cifre. Tali investimenti servivano a porre le basi per diventare un vero e proprio ecosistema, in grado di penetrare facilmente, modificandola, nella vita di tutti noi. Insomma, in questo processo il tempo si dilata (il tempo della rendita non è quello del profitto!) e noi viviamo in questo tempo dilatato sospeso tra un credito e un debito, viviamo una temporalità che si organizza sempre di più sotto forma di potenzialità, viviamo dentro un eterno rimando in avanti che dal punto di vista psicopatologico conduce ad una situazione per la quale è sempre più difficile sentire la vita: la vita sfugge sempre in avanti e non ci resta altro che rincorrerla e questo ci porta inevitabilmente a stare male. È questa una nuova e se vogliamo più profonda forma di alienazione.


Queste tue ultime battute mi fanno venire in mente la strofa di una canzone, per cosi dire “manichea”, di Franco Battiato, il “Re del mondo”: «più diventa tutto inutile e più credi che sia vero e il giorno della fine non ti servirà l’inglese e sulle biciclette verso casa la vita ci sfiorò ma il re del mondo ci tiene prigionerò il cuore»…


Potente. In merito ricordo una conversazione di tanto tempo fa con Christian Marazzi che, grazie al suo genio straordinario, mi disse che era venuto il momento di ricostruire un idea nuova di stanzialità. Che avesse tanti anni fa già intuito tale questione? Questa stanzialità da agognare non può essere ovviamente il tempo che fu del mondo contadino, ma in ogni caso c’è un tempo delle relazioni, della vita, degli affetti, della cura che va ricostruito altrimenti finiamo per essere sempre estraniati, dislocati, rispetto al contesto che viviamo e questa condizione finisce per rendere davvero complicato costituire forme di militanza politica effettivamente capaci di contrastare il funzionamento di questo meccanismo perverso: rischiamo infatti di essere sempre in ritardo rispetto al funzionamento della macchina algoritmica.


Una ultima domanda, che mi viene in mente dalla nostra discussione: è plausibile secondo te sostenere che la cosiddetta egemonia delle piattaforme digitale non sia altro che la risposta al fatto che, in epoca di globalizzazione, è avvenuta una sorta di riappropriazione (in altre sedi dibattuta) del capitale fisso da parte della forza lavoro? Detto altrimenti, una reazione al fatto che nell’economia della conoscenza i mezzi di produzione (il sapere) non sono più separabili dai lavoratori?

E’ una ottima intuizione che non sviluppiamo nel testo ma che sarebbe molto interessante riprendere e provare a sviluppare (il postoperaismo in passato ha già lavorato a lungo su tale ipotesi). Provo a reinterpretare: c’è stata una fase, che noi abbiamo chiamato di capitalismo cognitivo, nella quale si è andata configurando una forza sociale cooperativa che sembrava poter trovare uno spazio di autodeterminazione e autorganizzazione al di la del ricatto del capitale, che storicamente fino a quel momento era stato indiscutibilmente il proprietario dei mezzi di produzione. Sembrava cioè, che negli anni ’90 e nei primi anni duemila, ci potesse essere quello che alcuni autori hanno chiamato “cooperazione sociale autonoma”, in grado di determinarsi a prescindere dal capitale perché aveva un sapere, un general intellect nel senso marxiano del concetto[8]. Quanto dici è molto interessante perché, in un certo senso, si potrebbe pensare che le piattaforme siano un modo per rompere questo incantesimo, per intrappolare di nuovo le nostre vite nel rapporto sociale capitalistico. In altri termini, la logica della piattaformizzazione potrebbe essere letta come una reazione del capitale per rimettere in gioco quel potere che sembrava essere stato ormai scalfito. Mi convince ancora di più questa tua riflessione se penso al modo stesso in cui le piattaforme si sono determinate, perché all’inizio è stato il momento del peer to peer, della sharing economy, che possono essere considerate l’esca che ci offriva la speranza di un nuovo orizzonte, di una società più giusta e meno iniqua, mentre in realtà si è rivelata una trappola che ha favorito la riorganizzazione capitalistica. Nessuno oggi, peraltro, mette in discussione il fatto che la sharing economy sia stata per lo più divorata, parassitata, metabolizzata e reinterpretata dal capitalismo delle piattaforme. Anche il movimento del free software si è andato spegnendo metabolizzato in gran parte dentro le multinazionali del digitale. Molti sono gli esempi possibili a riguardo. Quindi, per tornare alla tua domanda, si, penso che il capitalismo delle piattaforme possa anche essere interpretato come una risposta a quelle che erano emerse come contraddizioni e impasse del capitalismo cognitivo. Del resto noi sappiamo ormai da tempo che il capitalismo funziona sempre in modo molto efficiente, ma sempre come una risposta ad un’azione conflittuale (ad una critica) che gli viene rivolta contro.



Note [1] Vedi G. Deleuze e F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (vol. 2), Castelvecchi, Verona 1980. [2] Si veda in primo luogo: Rouvroy A. e Berns T., Gouvernementalité algorithmique et perspectives d’émancipation. Le disparate comme condition d’individuation par la relation?. Réseaux, 177, 2013/1, pp. 163-196. Inoltre, Antoinette Rouvroy, Human Genes and Neoliberal Governance: A Foucauldian Critique, Routledge Cavendish 2007. Vedi anche, tra gli altri, A. Rouvroy e B. Stiegler, “Il regime di verità digitale. Dalla governamentalità algoritmica a un nuovo Stato di diritto”, in La deleuziana - rivista online di filosofia, n.3/2016. http://www.ladeleuziana.org/wp-content/uploads/2016/12/Rouvroy-Stiegler.pdf [3] Ronald Coase, “The nature of the firm”, in Economica, New Series, n.16/1937. https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/j.1468-0335.1937.tb00002.x . Vedi anche, di particolare interesse, “The problem of social cost”, in The Journal of law & economics, vol. III, 1960 (https://web.archive.org/web/20050331232727/http://www.sfu.ca/~allen/CoaseJLE1960.pdf) [4] Vedi, su questi temi, tra gli altri, Antonio Casilli, Schiavi del Clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo?, Feltrinelli 2020. [5] Su questi temi sono fondamentali i lavori di Maurizio Lazzarato. [6] Che la crescita continua sia necessaria alla sopravvivenza del modo di produzione capitalistico è stato ampiamente dimostrato da Karl Marx. Ci limitiamo qui a ricordare il capitolo sulla trasformazione del denaro in capitale (Capitale. Critica dell’economia politica, Libro 1, Cap. 4) e i suggestivi passi del Manifesto del Partito Comunista secondo cui «La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l'insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutata conservazione dell'antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca borghese da tutte le precedenti. Tutte le stabili e arrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall'età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa». [7] Carlo Vercellone, Crisi della legge del valore e divenire rendita del profitto. Appunti sulla crisi sistemica del capitalismo cognitivo, in A. Fumagalli, S. Mezzadra (a cura di), Crisi dell’economia globale. Mercato finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, Ombre corte, 2009; Vedi anche, “Il ritorno del rentier”, in Posse, autunno 2006 (articolo ripreso in Lessico Marxiano, Manifestolibri, 2008) e “Digital labour e big data nel capitalismo delle piattaforme: un nuovo estrattivismo?”, in Effimera (a cura di), L’enigma del valore. Il digital labour e la nuova rivoluzione tecnologica, 2019 (http://effimera.org/wp-content/uploads/2020/06/Lenigma_del_valore_Effimera_ebook-3.pdf) [8] Sul tema della cooperazione sociale autonoma vedi in particolare i lavori di Antonio Negri; in ultimo M. Hardt, A. Negri, Assemblea, Ponte alle grazie, 2018. Sul concetto di “general intellect” vedi K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Vol. II, La Nuova Italia, 1969. pagg. 387 - 411 (http://www.antiper.org/archive/materiali/marx-frammento.pdf).



Immagine: Tulio Restrepo.

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