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Strategie e sguardi decentrati

Utopian Display. Geopolitiche curatoriali


Khaled Houran, Picasso in Palestine Curated by Charels Esche installation view, 2011


La curatela non è una scienza, ma un’entità organica. Cresce, si gonfia di contributi esterni, si svuota di significati e cambia pelle. È una pratica mutevole nel tempo storico e, come tale, va continuamente fotografata. Ma l’obiettivo non è uno solo: sono tanti i dagherrotipi che inquadrano e altrettanti gli arti che li avviano. Proprio in questa direzione si muove Utopian Display [Quodlibet, 2019], una raccolta di saggi fondamentali che fotografa per mano di curatori internazionali le dinamiche sottese ai centri di produzione e circolazione della cultura. Il curatore del libro Marco Scotini parla di geografia del potere, perché come un paesaggio la dimensione finanziaria è oggi più che mai sfondo alacre dell’arte. In un contesto in cui il numero di Biennali aggiornato al 2019 ammonta a 270, il potere di fondazioni e musei privati fagocita le istituzioni pubbliche e il valore delle opere d’arte dipende quasi esclusivamente da operazioni economiche neoliberiste, è urgente decostruire, con sguardo critico e decentrato, la roccia madre del Sistema dell’Arte. Un variegato apparato di casi studio e contro-mostre ha come obiettivo, a detta di Scotini, quello di «riportare alla luce memorie collettive di archivi ribelli, di corpi disobbedienti, di ruoli sociali e repressi, di libri interdetti, di esposizioni rimosse».

I protagonisti del libro mostrano diversi approcci e molteplici strategie per indagare e riscrivere memorie ai margini della società. In che modo? Innanzitutto attraverso il linguaggio. Non un linguaggio sterile, ma foucaultianamente creatore di realtà. Per Pierre Bal-Blanc è vettorialista la classe che controlla le forze attraverso le quali l’informazione circola; Vasif Kortun denomina il museo dominante brandizzato, «in quanto spazio collocabile nel settore del tempo libero e del turismo», mentre Gerardo Mosquera parla di autoesotismo come fenomeno tipico nei paesi coloniali, dove gli artisti, in un processo passivo, mercificano la propria minoranza culturale in scacco al sistema-cultura egemonico. In Utopian Display il linguaggio curatoriale è frutto di appropriazioni, tropi, prestiti da altre discipline. L’arte come rete di significati che connette campi d’indagine apparentemente distanti, ma al contempo discute l’invasione di sfere che dovrebbero essere avulse ai luoghi di produzione artistica come la finanza e l’estrazione di profitto. Una cosa è certa. L’arte, come fa notare Tina Sherwell, non necessita di un mercato: è sempre esistita in condizioni difficili, «l’indomani di una guerra, nell’instabilità e nell’assenza di infrastrutture artistiche». Al contempo, però, è impossibile, o quasi, immaginare un sistema culturale alieno alle geopolitiche finanziarie. Laddove per Geeta Kapur le Biennali sono «un miscuglio di spettacolo statale, egemonia culturale, interessi di mercato e commercio turistico, il loro proliferare nei paesi del Terzo Mondo ha permesso di spostare il tiro oltre il mirino egemonico». L’esposizione Magiciens de la Terre ha confermato lo sguardo attrattivo occidentale verso i feticci tribali alimentando la coppia binaria indigeno-avanguardia, ma sempre secondo Kapur ha anche costituito il tentativo democratico di attribuire valore sia spirituale sia concettuale a una miriade di atti culturali-creativi: «ha contemporaneizzato le opere ‘sacre’ dei margini insieme con quelle dichiaratamente secolari dell’Occidente».

Ogni analisi sulle pratiche curatoriali comporta riflessioni innanzitutto sul ruolo e la struttura dei luoghi che ne permettono l’allestimento e la circolazione. Se Anselm Franke intravede nel museo moderno i privilegi del capitalismo borghese e suggerisce la necessità per uno spazio espositivo e di ricerca di farsi «autoriflessivo» e «antropologico», Bal-Blanc colloca l’industria creativa in una dimensione ancora più definitiva e capillare: il biopotere. Il critico francese sposa la profetica previsione di Rosalind Krauss secondo cui il museo nell’era biopolitica «ha a che fare con i mercati di massa più che con i mercati dell’arte». In questo senso risulta incisivo il quesito di Kortun: è corretto attribuire l’origine della mercificazione artistica alla privatizzazione del settore culturale oppure le condizioni attuali hanno lo stesso impatto sia sul pubblico sia sul privato?


Per Kortun l’istituzione deve essere una «piccola flotta di barche indipendenti, piuttosto che una nave madre». Tale approccio è anche funzionale alla sottoscrizione di identità transitorie e non nazionalistiche. Gerardo Mosquera, tuttavia, ci mette in guardia sulla pericolosa deriva di questa direzione, che rischia di tessere «un labirinto di indeterminatezza che limita la possibilità di una diversificazione socialmente e culturalmente attiva». Mosquera intravede questo rischio nella (auto)-rappresentazione culturale dell’America Latina, in cui si aggira lo spettro postmoderno di un’eterogeneità priva di coordinate. Una serie di cliché ibridi, nati da una nevrosi identitaria dovuta alla decolonizzazione dell’area, propongono un’identità così plurale e sfaccettata. Ancora una volta, in Utopian Display il linguaggio forgia fondamentali enunciati e molti autori preferiscono parlare di Arte in America Latina, piuttosto che Arte Latino-Americana.

Il contemporaneo, sostiene Simon Njami, abbraccia un campo d’investigazione che va ben oltre i confini territoriali, e naviga nelle acque della psicoanalisi. Perciò, il processo di decolonizzazione richiede nella psiche del decolonizzato di «disimparare a vedersi come uno schema immutabile definito dallo sguardo dell’altro». Nel caso dell’Africa, Njami osserva come la condizione sine qua non di questo nuovo sguardo passava negli anni Sessanta innanzitutto per una decostruzione del cliché di negritudine servile/feroce, per edificare un’Africanità forte e radiosa. Nei decenni successivi, invece, gli artisti e intellettuali africani sono andati oltre a questa prima fase naïve, inaugurando ricerche basate sul proprio Io e forgiando, o comunque riempiendo di significato, concetti come identità, alterità, nomadismo e meticciato. Biennali tra cui Dakar, Bamako e Johannesburg hanno contribuito all’emancipazione linguistica e intellettuale della Nuova Africa. Con Documenta 11 Okwui Enwezor ha rimarcato come nessuna discussione sull’arte radicale possa avvenire senza riferimento ai parametri politici dell’antagonismo e della redenzione conseguenti al processo di decolonizzazione. L’arte, dunque, è intesa come piattaforma discorsiva atta a indagare fenomeni sociali e politici attivi nei processi identitari, che in Utopian Display* emergono dall’analisi di una serie di «contro-mostre». Gli autori del libro dimostrano la necessità di portare sotto i riflettori politici esperienze ai margini del sistema di rappresentazione dominante. Divengono sempre più necessari documenti e materiali d’archivio comunemente declassati a memoria di serie B, così come il bacino di strumenti curatoriali deve allargare le sue canoniche prospettive a nuovi formati discorsivi. Ne deriva, come sottolinea Rasha Salti, una responsabilità da parte dei curatori nel difendere una contro-storia, attraverso la salvaguardia di memorie offuscate da una narrativa lineare e continua. Non è esente anche il discorso dei pubblici, tenendo conto che quelli «abbandonati» sono la stragrande maggioranza. Ciò che accade maggiormente è che il pubblico locale sia rappresentato da una comunità ristretta, «una classe acculturata», mentre il grande pubblico si riconosca in giostre espositive che appiattiscono qualsivoglia differenza identitaria dell’artista e spirito critico del fruitore. D’altronde, come fa notare il collettivo croato Whw, le opere d’arte non parlano una lingua globale, e al «curatore mondano» che mastica fluentemente inglese e viaggia con flessibilità senza mai approfondire, si deve opporre un «curatore preparato», un intellettuale gramsciano che ponga le basi collettive affinché le masse governino la cultura.


*Scotini Marco (a cura di), Utopia Display. Geopolitiche Curatoriali, Quodlibet, Macerata, 2019, pp. 224, 20 euro.

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