I presupposti extra-atmosferici di un discorso non inattuale sull’ecologia
Susanna Crespi, 40 anni, 1997
Neoliberismo extra-atmosferico
L’attuale fase d’espansione del neoliberismo nello spazio, o per meglio dire nella dimensione extraatmosferica, eredita legittimamente quanto gli proviene dal periodo pioneristico della Conquista dello spazio e da quello subito successivo, di sedimentazione, consumatosi nell’esosfera all’epoca dello Shuttle e delle basi orbitanti, prima tra tutte, con la sovietica MIR.
Ciò nonostante, l’attualità si differenzia profondamente dalle fasi che l’hanno preceduta tanto da avvertire l’esigenza di autoaccertarsi assumendo un proprio nome: New space economy, che nella specificità statunitense diviene il NewSpace.
Ratificato all’inizio del Secolo XXI dalla presidenza Obama mediante il Commercial space launch competitiveness act (2015) [i], il NewSpace trova nella Iss (Stazione spaziale internazionale), nella sua proposta cosmopolita tardo illuminista, la prima vittima simbolica, riassorbendo sotto l’egida delle bandiere delle singole nazioni la legislazione e la forza militare che garantiranno le contrapposte libere imprese multiplanetarie.
Nove anni prima dell’insediamento della presidenza Obama ha inizio un processo, perlopiù allora accolto tra le curiosità tecnologiche, d’ascesa delle aziende private nel settore aerospaziale, di cui il Commercial space launch, prima, e le politiche extraatmosferiche volute della presidenza Trump [ii], dopo, sono solo la ufficializzazione: la presa in carico territoriale.
L’attuale fase di New space economy interessa nazioni di quasi tutti i continenti e, oltre l’America, sono implicate Cina (il vero antagonista al NewSpace), Emirati arabi uniti, Giappone, Israele, Australia e, con pesi diversi, molti stati europei. Se l’entrata in scena degli imprenditori privati nella nuova corsa allo spazio riguarda per il momento quasi esclusivamente gli Stati Uniti, nelle altre nazioni interessate sono gli enti spaziali nazionali a recepire lo scandire del tempo dalle priorità della via statunitense allo spazio, con l’eccezione della Cina che, come spesso avviene, sembra avere piani identici ma completamente diversi. In Europa, l’Esa (Agenzia spaziale europea) dapprima scettica e arroccata sulle priorità commerciali e scientifiche della messa in orbita di satelliti e di invio di sonde automatiche all’indirizzo dei corpi celesti, sta iniziando a ponderare un allargamento dello spettro commerciale all’estrattivismo spaziale (asteroid mining) [iii] e alla creazione di colonie lunari e marziane.
La punta dell’iceberg del NewSpace è saldamente presidiata da SpaceX e Blue Origin (dagli eroi della new economy delle reti Elon Musk e Jeff Bezos), ma sotto e attorno ad esse si è sviluppata una massa di startup impegnate nella progettazione del supporto vitale per il nascituro capitale variabile multiplanetario: la forza lavoro specializzata. Le più grandi tra queste, come ad esempio la Planetary resource, condividono con i giganti la strategia commerciale e la visione circa la necessità di percorrere la strada, dopo aver definitivamente colonizzato la Luna, della terraformazione dei pianeti gemelli della Terra: primo tra tutti Marte.
L’esigenza di produrre colonie umane da foraggiare mediante supporto vitale sta divenendo quindi la exit strategy che il capitale terrestre adotterà per uscire dal circolo vizioso di una prolungata crescita (e di una sopravvivenza, quindi) vincolata alla seduzione di beni accessori e alla loro prematura deteriorabilità fisica e psicologica.
I terrestri, ora un immenso e in parte inutile esercito di riserva permanente, torneranno ad essere quantitativamente necessari per popolare colonie umane extraatmosferiche, che tanto Musk quanto Bezos sembrano già oggi in grado di quantificare in termini di unità umane da alienare dal pianeta d’origine.
Le ragioni di un AltRight umanista (non più costretta a lasciare indietro qualcuno giacché può renderlo produttivo su un altro pianeta o su un asteroide miniera) si conciliano finalmente con i dogmi dell’accelerazione ascensionale orientata verso la Singolarità tecnologica prevedibilmente cosmica (forse intravedibile nei ragionamenti di Nick Bostrom sul rischio esistenziale applicato allo sviluppo di una civiltà spaziale [iv]). Alla base di tutto ciò è quindi anche possibile iniziare a scorgere una vocazione, una visione filantropica, che con i riflettori del nuovo ordine mondiale illumina, a mo’ di un’aura, gli imprenditori e gli ideologi accelerazionisti del neoliberismo coloniale e minerario spaziale.
Foucaultianamente, finirà quindi l’epoca dei supplizi pubblici terrestri, del corpo inutile e per questo martoriato, lasciato annegare, brutalmente respinto, stragificato, che lascerà nuovamente spazio al corpo esiliato, deportato, chiuso in un angusto eso-habitat artificiale [v], virtualmente disponibile a vendere la propria forza lavoro, o più semplicemente la sua capacità d’occupare spazio restando in vita, su un mercato dall’estensione stavolta multiplanetaria.
Ma non immediatamente.
Zona abitabile
Le implicazioni di questa new economy viaggiano infatti su due diverse scale temporali. Per grandi linee, da una parte ci sono i tempi della maturità dello sviluppo tecnologico legati a questioni circa la normalizzazione del raggiungimento della velocità di fuga, della messa in orbita, delle lunghe permanenze durante il viaggio interplanetario, nonché la definizione delle tecniche e della messa in sicurezza degli insediamenti su grandi e piccoli corpi celesti da sfruttare minerariamente e come storaggio scorie, ancora più tardi da terraformare per essere definitivamente abitati.
Dall’altra parte ci sono i tempi in cui tali processi vengono collaudati approssimandoli sperimentalmente alla maturità, in cui la forza lavoro viene formata, resa psicofisicamente adeguata e, direttamente connessa a quest’ultima questione, in cui le nuove strutture economiche modellano l’ambiente terrestre per prepararlo alla transizione e all’ampliamento dello spazio lavorativo e di vita.
Parlo di due scale di tempo giacché per assistere a un compimento, a una sedimentazione, di questa new economy occorreranno ancora molti decenni, dato l’ordine di grandezza delle difficoltà e delle soluzioni implicate. Diversa invece sarà la percezione dei tempi di collaudo e adeguamento, i cui effetti siamo già noi e lo spazio che contestualmente occupiamo.
Ogni radicale innovazione dell’apparato tecnologico, almeno inizialmente, tende a poggiare su strutture preesistenti ben radicate e sperimentate, e anche in questo caso la New space economy non fa eccezione, integrando virtuosamente le trasformazioni ambientali, i cambiamenti climatici potremo definirli, i drastici mutamenti di paesaggio, introdotti dalle strategie, dalle necessità e dalle ricette economiche precedenti. A questa struttura preesistente e al suo contemporaneo perfezionamento da parte della new economy emergente è stato dato il nome di Antropocene [vi].
Il concetto di Antropocene non è connesso dai suoi più attenti indagatori all’emergere di un diverso tipo di economia, se non in generale alle attività produttive umane. Anzi, gran parte del dibattito ha ruotato attorno all’eventualità di considerare validi gli indicatori storici e preistorici, o solo quelli moderni. Tuttavia, si tratta di una definizione che, seppur con altre finalità, colleziona molte delle caratteristiche compatibili con la sedimentazione della New space economy, in questa sua fase di collaudo. L’ Antropocene è quindi definibile come lo stato in cui il pianeta Terra si presta a interpretare il ruolo di primo (e per il momento unico) corpo celeste del Sistema solare all’interno di un’economia che è già vocazionalmente multiplanetaria [vii].
Per fare ciò la Terra così come la conosciamo è destinata a scomparire allineandosi alle condizioni ambientali medie del nuovo e complessivo territorio da cui estrarre plusvalore, che s’identifica con la cosiddetta Zona abitabile.
L’immagine precedente illustra la collocazione e l’ampiezza della Zona abitabile che s’estende da Venere a Marte e che trova nella Terra, ancora per il momento, il suo habitat ideale, la zona di comfort per i terrestri (la fonte è NASA). Nella parte inferiore dell’immagine sono rappresentati alcuni esopianeti [viii] inseriti rispettivamente nella propria Zona abitabile che, da sistema a sistema, muta in base alle caratteristiche della stella e alla distanza, nonché al modo, in cui i pianeti orbitano intorno a essa. È questo il punto da cui partirò per una riflessione non inattuale sul significato di ecologia e sulla necessità del suo superamento.
La fine dell’ecologia L’idea di fondo è quella che se gli esseri viventi sono entità biopolitiche [ix], biopolitico è ancor prima lo spazio che trasformano (come lo trasformano) e il pianeta su cui dimorano (in quali condizioni ci vivono). Detto ciò, a essere sottoposto a revisione non sarà il concetto di ecosistema (perché sempre mutevole), ma quello di ecologia inteso come l’idea (più o meno stabile), la percezione, che l’essere umano ha di ciò che le sue relazioni sono (o dovrebbero essere) riguardo lo spazio in cui è contenuto. Questa fissità è sempre un’illusione e lo è ancor più nel momento in cui lo spazio occupato dagli esseri umani inizia a trascendere i limiti della biosfera avventurandosi in circostanze totalmente inedite e fortemente ostili. Un altro modo di dire la stessa cosa è che l’ecologia è un’illusione giacché illusorio è pensare di poter stabilire, una volta per tutte, cosa sia l’essere umano (non ponderandolo nel meccanismo di riproduzione della vita che esso stesso mutevolmente s’è dato) come ente che stabilisce a sua volta quale è il suo posto nello spazio che occupa. Il cambio di prospettiva dovrebbe essere questo: se il tipo di spazio occupato dagli esseri umani determinasse le condizioni ultime del sistema di produzione, ne prescrivesse il destino, l’assimilazione del globo terrestre da parte di un unico modo di produzione non potrebbe che rappresentare lo stadio finale, la saturazione, del capitalismo. Un sistema in questo stato mostrerebbe oggi la corda in condizioni di quasi totale globalizzazione. Ma la sua salute pare tutt’altro che appesa a un filo, il che mi spinge a ritenere che il rapporto sia inverso, cioè che sia il sistema di riproduzione della vita umana a definire di volta in volta il tipo e l’ampiezza dello spazio occupabile. Una ecologia non inattuale dovrebbe quindi misurarsi con questa visione quantitativa che integra perfettamente la prospettiva originaria delle grandi migrazioni compresa quella ipotetica dell’Out of Africa. È certo controintuitiva l’idea che l’ecosistema sia un’entità gelatinosa più ampia dello stesso pianeta Terra, capace d’inglobarlo all’interno di una sorta di sfera (un insieme, sarebbe il caso di dire) il cui raggio è funzione del sistema di produzione. Ancora meno intuitivo è immaginare la sfera che inizia a espandersi fino a inglobare pianeti alieni come Venere e Marte; ma nonostante ciò questa è un’immagine realistica di quanto sta già accadendo. Abbandonare l’idea che l’ecologia rappresenti una immagine realistica del nostro rapporto con l’ambiente non è poi tanto difficile. In uno scritto molto interessante, lo storico delle scienze Peder Anker ricostruisce la storia della concezione contemporanea di ecologia chiarendo come l’ambito da cui essa emerge sia quello dei sistemi militari e della ricerca spaziale [x]. Originariamente l’ecologia rappresenta quell’ecosistema artificiale in grado di replicare le condizioni minime di sopravvivenza per gli esseri umani; condizioni molto arbitrarie e variabili, a cui, in fin dei conti, è più il corpo ad adeguarsi che viceversa. Sapere ciò ci servirà parecchio nell’ambito di quanto sosterrò, ma innanzitutto ci occorre per sbarazzarci delle remore a maltrattare l’ecologia.
Per prima cosa vorrei proporre una definizione più dinamica d'ecologia, intendendola come una descrizione ampiamente mutevole circa la biosfera, intenta a raccontare le trasformazioni (a prescindere dalla natura di queste)che la caratterizzano.
L'ambientalismo (concetto connesso) lo intendo invece come una barricata, uno strumento politico necessario per mettere un punto sui mutamenti del sistema di produzione (e sulla loro velocità) che siamo disposti ad accettare, con cui siamo disposti a colluderci.
Ancora, intendo l'ambientalismo come il riferimento mnemonico, il modello, di ecosistema dedotto da un ciclo produttivo precedente, rispetto a quello in cui il termine viene polemicamente brandito.
Un buon esempio è quello proposto dal mondo agricolo. Per molti il ritorno alla natura coincide, almeno in parte, con il mondo agricolo, che come bene sappiamo (e sanno meglio di noi i paleobotanici) nulla ha a che fare con la spontanea colonizzazione vegetale della superficie terrestre. Si tratta invece di un modo di produzione che se generalizzato può ricalcare quello che precede la industrializzazione massificata: il feudalesimo. Riferirsi a esso è un’operazione non troppo dissimile al fissare un punto di ripristino (più o meno arbitrario) nel sistema operativo del proprio pc: una condizione tutt'altro che primigenia, ma che possiamo convenzionalmente intendere come tale. Una sorta di: fin lì tutto bene.
Mi sono servite molte più parole per spiegare ambientalismo che ecologia. Tra l'altro così posta la questione pare, per il primo, viziata da un giudizio, da una valutazione. Negativa nello specifico.
Non è affatto così.
Ritengo l'ambientalismo una cornice resistenziale necessaria, atta a ridimensionare le urgenze-precedenze del capitale mediante i tempi (imposti o negoziati) di mutamento delle biologie in esso residenti: non più di così, non oltre, non con questa prescia.
Anche qui il ragionamento può essere facilmente frainteso, immaginando che stia evocando l'impossibilità di non adattarsi o la necessità acritica di farlo in relazione ai mutamenti del modo di produzione.
Anche in questo caso non è così.
Intendo l'adattamento come la mancata opportunità di una svolta radicale nella storia dei processi produttivi: l'assenza di discontinuità per il venir meno di un processo definibile come rivoluzionario.
Terraformare Terra
Posta la differenza avverto ora l'esigenza di abbandonare definitivamente il termine ecologia perché ancora statico, troppo situato, ed eccessivamente implicato con l'ambientalismo, che si trascina dietro tutte le caratteristiche partigiane appena descritte: un fare e disfare (seppur necessario) nella direzione di un’inesistente immagine primigenia del mondo.
Propongo di utilizzare al suo posto il più cinico terraformazione che potrebbe essere preliminarmente spiegato utilizzando esattamente la definizione che di ecologia ho dato poche righe sopra.
Vorrei però proporre anche un avanzamento mutando in modo più preciso la definizione: l'insieme delle pratiche atte a trasformare lo spazio occupato in una direzione che è quella dell'umano, che è a sua volta biopoliticamente determinata.
Ciò che tra l'altro m'interessa di questa definizione è la circolarità mutevole che essa introduce: modo di produzione1 → corpo → ecosistema → modo di produzione2. Lo schema può apparire deterministico, ma si tratta di una semplificazione esplicativa: il modo di produzione (mdp) modella il corpo che modella l’ecosistema dando vita a un nuovo mdp.
L'unica relazione che necessita di essere rapidamente spiegata è l'ultima.
L’ecosistema corrente (mdp2) predispone la condizione precedente (mdp1) a essere interpretata nel ruolo ideale di punto di ripristino, ecosistema originario. In questo modo mdp2 si rappresenta come mutamento negoziabile, più facilmente (apparentemente) controllabile, forse (sempre apparentemente) reversibile, rispetto ad una non troppo lontana origine.
Tale negoziazione è, all’atto pratico, l’ambientalismo con le sue rivendicazioni.
Così posta la questione azzera completamente la concezione di mondo naturale. Esiste sempre un modello precedente più o meno esplicito di ecosistema primigenio, in una regressione infinita di cui si è perduto il conto.
La sostituzione di ecologia con terraformazione può addirittura disfarsi di tutto il dibattito sull'Antropocene, in fondo impegnato a scolpire un solco nella roccia tra mondo naturale e ambiente plasmato dagli esseri umani. Quale non lo è? E chi più ha ricordo, o idea di come poteva essere quando l’uomo non lo trasformava?
È forse quella della paleontologia un’immagine (un modello) del mondo accertata una volta per tutte? Niente affatto. Le incertezze che caratterizzano il resoconto storico si decuplicano in quello preistorico.
Ecco allora la definizione sintetica rivista nuovamente: la terraformazione è la condizione via via variabile d'abitabilità per un corpo via via biopoliticamente determinato.
Il concetto di terraformazione (e la sua definizione sintetica) sostituito a quello di ecologia, mi serve come strumento d’analisi e di descrizione dell’ambiente antropizzato indipendente dal circoscritto spazio occupato dalla biosfera terrestre. Indipendente non significa che al pianeta Terra non sia applicabile: anzi, l’idea è proprio quella che la terraformazione di un pianeta alieno sia la generalizzazione di un processo che sulla Terra è in corso sin dal momento dell’apparizione dei primi protoantropi.
Ancora, esso è utile per rafforzare l’idea di assenza di discontinuità tra le strategie intraprese dalla Space economy e tutte le economie che l’hanno preceduta, così da dimostrare la fondatezza di questo nuovo ciclo del capitale, da taluni osservatori ancora inteso come un salto nel buio o una mera manovra spettacolare-elusiva di un capitalismo ormai morente.
Infine, il medesimo concetto aiuta a chiarire come dal punto di vista dei processi di colonizzazione (differenze ambientali insite, a parte) i pianeti siano tra loro divenuti totalmente fungibili.
Note [i] Commercial space launch competitiveness act: https://www.congress.gov/bill/114th-congress/house-bill/2262/text [ii] Si tratta principalmente di cinque direttive sulla politica spaziale degli Stati Uniti denominate Space policy directives e redatte tra il 2017 e il 2020: https://www.space.commerce.gov/policy/national-space-council-directives/ [iii] Planetary Resources - The Market Problem and Radical Solution: https://www.youtube.com/watch?v=VLouRKHknOU [iv] N. Bostrom, Existential Risk Prevention as Global Priority, https://www.existential-risk.org/concept.html [v] Quelli della Bigelow aerospace, ad esempio: https://bigelowaerospace.com/ [vi] G. Pellegrino – M. Di Paola, Nell’Antropocene, Roma, 2018, DeriveApprodi. [vii] Questa è di fatto la proposta che giunge dal versante liberale laddove esso s’interroga su una possibile legislazione spaziale. Si veda: M. Kovic, Rules in space. If we don’t invent a legal framework for space colonisation the consequences could be catastrophic: the time to act is now, «Aeon», 2018, https://aeon.co/essays/we-urgently-need-a-legal-framework-for-space-colonisation. [viii] Pianeti che orbitano attorno a stelle che non sono il nostro sole. [ix] Intendo qui biopolitico il corpo che è l’esplicito risultato di pratiche politiche ed economiche. [x] Anker P., The Ecological Colonization of Space, 2005: https://www.academia.edu/26440263/The_Ecological_Colonization_of_Space
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