
Una disamina, accurata e critica, del ricco dibattito femminista sulla cura, per portare l’attenzione sul tema del lavoro, di cura e riproduttivo. E ragionando sul «lavoro», Del Re richiama, sulla scorta della riflessione della Pha (Plataforma de afectadas por la hipoteca) di Vallekas a Madrid[1], l’idea di un sindacalismo della vita «come diritto a vivere una vita sana».
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C’è la tendenza, nel dibattito contemporaneo (sul piano istituzione e a livello dei movimenti sociali e femministi[2]) a sovrapporre, o sostituire, il tema della «cura» a quello di riproduzione sociale, che io intendo come riproduzione dell’umano, dei corpi, della cultura, della relazione, dei saperi, delle capacità. Questa cosa mi spaventa perché mentre la riproduzione è sempre più integrata e compartecipe della produzione capitalistica di valore, quindi del profitto, si perde di vista il tema del «lavoro», del lavoro riproduttivo e di cura; il lavoro che si fa per riprodurre la vita, che è strettamente connesso a tutti i processi capitalistici di produzione di valore. Si usa qui indistintamente lavoro di riproduzione e lavoro di cura perché in questo percorso, il termine che maggiormente si impone è «lavoro».
Cura e lavoro di riproduzione
La riproduzione degli esseri umani dipende da un lavoro (salariato o meno) ed è strettamente connessa e interdipendente con tutti i processi capitalistici di produzione di valore (Alquati, 2021). Questo lavoro costituisce la base materiale della forma attuale neoliberista della produzione (come lo era nella precedente fase fordista) e contribuisce alla relativa possibilità di accumulazione e di profitto, permettendo il contenimento dei salari, anche se per le sue specifiche qualità di affection si è – da sempre – tentato di farlo passare per amore e dedizione: per questo lo si è pensato come incorporato nei ruoli da sempre attribuiti alle donne, tanto da incarnarne le identità sociali. Vi è sempre stata una sottovalutazione strutturale del lavoro di riproduzione resa più evidente quando questo entra nel mercato, nei servizi alla persona, ed è salariato. Il fatto che sia retribuito e spesso contrattualizzato (ma è difficile, per esempio, applicare il diritto del lavoro quando il luogo di lavoro è una casa privata) non lo pone al riparo dall’ampiezza e dalla qualità dei compiti che sono richiesti, spesso indefiniti e legati a forme di affettività implicite impossibili da regolamentare in un contratto. Anche nel lavoro svolto nei servizi pubblici medico-sanitari, di assistenza agli anziani, alla prima infanzia, per non parlare (ma è necessario includerli) di lavori molto distanti tra loro, ma correlati alla riproduzione, che vanno dai lavori di pulizia negli edifici pubblici (banche, scuole, ospedali, uffici in generale) per arrivare fino ai diversi settori dell’istruzione, dell’assistenza sociale, a tutti quei lavori che tengono in piedi una parvenza di Stato sociale, si sviluppano le stesse forme di sfruttamento, benché in situazioni gerarchicamente diverse e differenziate nei salari (Ilo, 2018; Del Re, 2020).
Cura è un etimo plurivoco. Spesso viene usato come traduzione della parola inglese care, che però ha un significato molto più complesso e comprende lemmi come attenzione, preoccupazione, assistenza, sollecitudine. Nonostante sia un vocabolo polisemico e particolarmente vago quando è dissociato dal termine «lavoro» è stato spesso attribuito in forma riduttiva alla cura assistenziale della malattia e della vecchiaia (Curi, 2017).
Lavoro di cura quindi nell’accezione più restrittiva, relativa solo alla malattia, alla cura di un corpo individualmente e patologicamente malato. Niente a che vedere con lo sviluppo sociale di un individuo, la sua integrazione culturale e psicologica nella società, con la prevenzione, con la cura dell’ambiente, con il lavoro di cura che serve a mantenere sani gli individui e a far vivere loro una vita degna.
Su altri piani si è presa in considerazione la care economy, un comparto produttivo basato sul lavoro di cura sottopagato, spesso precario, che ha minato l’esigibilità dei diritti sociali e la loro qualità e che si fonda su un’idea artefatta di benessere da acquistare attraverso le «aziende della cura» (The Care Collective, 2021). Alla crisi del welfare si è sopperito con il mercato e il profitto, tagliando i finanziamenti nei servizi e delegandoli al privato. Quando si interviene per implementare la care economy lo si fa per «permettere» alle donne dei paesi ricchi di entrare nel mercato del lavoro, creando stratificazioni gerarchizzate e razzializzate. Questo sta diventando un settore economico cruciale per il funzionamento delle nostre società e ne costituisce un’infrastruttura fondamentale fondata sul profitto.
C’è un’altra connotazione del termine cura che sembra importante ed è la cura come «resto» (Gruppo del mercoledì 2011, 2021). Secondo questa analisi non basta una buona politica pubblica di servizi sociali, e nemmeno un reddito sufficiente a monetizzare un welfare inclusivo, per risolvere quello che le autrici chiamano «resto», cioè la cura, intesa come responsabilità, attenzione alle relazioni, alla fragilità dei corpi, distinguendo tra «cura» e «lavoro di cura», rifiutando la cura come lavoro servile o residuale. Viene considerata fondamentale per le politiche la consapevolezza che il lavoro riproduttivo sia necessario, e questo ben prima della pandemia, ma non si indicano strade per valorizzarlo, per renderlo fondamentale nella costruzione di nuovi rapporti sociali. Se è vero che nella cura come «resto» sono impliciti empatia, affetto, disponibilità, responsabilità, è altrettanto visibile come questi elementi siano ormai richiesti in moltissimi rapporti di lavoro, in tutti i servizi alla persona, nel commercio fino al rapporto di lavoro all’interno delle aziende, diventando una componente essenziale del «fare lavoro». L’esempio che viene dato e che contraddice l’esistenza di un «resto» estraneo al lavoro di cura, è quello delle badanti, cui noi affidiamo i membri più fragili delle nostre famiglie, gli anziani, e a cui chiediamo questo «resto», non valorizzato né monetariamente né socialmente.
Forse è importante partire dall’idea di valutare socialmente il lavoro riproduttivo, con salari adeguati, contenendone i tempi infiniti, azzerandone la precarietà, creando le condizioni per le quali gli affetti e le relazioni possano essere liberi dai bisogni materiali gestiti dal mercato. Non tutti riescono ad essere buoni e buone, compassionevoli e disposti alla cura soprattutto in condizioni di lavoro stressante e precario (Pulcini, 2020), ma si possono costruire delle possibilità di attenzione alle relazioni, al benessere altrui, al rispetto della natura e del mondo, per liberare un resto che non si sottometta al mercato.
Noi siamo la cura
Di recente in alcuni dibattiti organizzati in seno al movimento femminista si attribuisce alle donne la titolarità e le competenze della cura (Assemblea della Magnolia 2021)[3]. Ma è un’idea della cura che ne rovescia la concezione come obbligo per il genere femminile, dettato dalla divisione capitalistica del lavoro, e fatto accettare come requisito naturale per le donne. Suggerisce l’assunzione positiva della competenza di cura delle donne: se esse non si sono mai ribellate alla loro condizione è perché posseggono «capacità» proprie fondamentali per la riproduzione della specie e del mondo. Il testo che ne è emerso non attribuisce alle donne la cura come destino ma la trasforma in progetto politico di cambiamento dei rapporti sociali ed economici nel mondo. Se produzione e riproduzione oggi non sono più separabili, non possono stare in un ordine gerarchico dove la seconda sia funzione della prima. Le donne dovrebbero assumere come propria l’esperienza della cura in piena autonomia, facendola diventare primaria, proprio ora che la complessità del mondo ha bisogno della dimensione della cura. Ma qui la cura è sempre «scarto», resto che non si sottomette al mercato, con una vicinanza alle teoriche del dono (Gilligan, 2014) valorizzante la gratuità delle prestazioni, confidando nel rovesciamento automatico che si produrrebbe nel mettere la cura al centro delle relazioni tra persone e al centro della politica.
In questo richiamo all’etica della cura che vede come protagoniste le caratteristiche tradizionali del femminile in un appello coinvolgente e carico di emozione, appaiono pochi progetti concreti, materiali per realizzare un mondo diverso e si è portati ad immaginare una specie di «società delle madri» in cui le virtù femminili salverebbero dalla morte e dal disordine (Morini, 2021b).
Manca l’evidenza della concretezza e della fatica del lavoro riproduttivo, lo sguardo sulle condizioni lavorative del prestare cura, le contraddizioni materiali in cui le donne si trovano a vivere quando ad esse è imposto un lavoro di cura spesso gratuito, sottovalutato, poco pagato, precario, condizionato da norme essenzialiste, connotato dalla scarsità di risorse e di tempo. In ogni caso questo cambio di prospettiva è interessante: esso impone la centralità del lavoro riproduttivo, che da marginale diventa fondamentale e scardina la primazìa della produzione di merci a favore della cura dei corpi e della natura. Sembra però importante che tutto ciò non venga genderizzato, ma valorizzato socialmente e materialmente.
What is care work?
L’opacità che ancora oggi circonda il lavoro di cura – non considerato lavoro, ma attività naturale delle donne, connessa alla maternità e al contesto familiare (Ammirati, Deiana 2019) – impone un’analisi precisa di cosa si tratti.
L’Eige (European institute for gender equality) nel report per Pechino (Beijing platform for action) cerca di dare una definizione puntuale del lavoro di cura partendo dalla necessità di servizi di cura professionali e accessibili, adeguati ai bisogni della popolazione. Per l’Eige il lavoro di cura include tutte le attività e le occupazioni che direttamente o indirettamente riguardano il processo di cura e comprende sia l’utilizzo di servizi alla persona che l’utilizzo di cure domestiche non pagate. Questa analisi riguarda principalmente forme di lavoro di cura individuali rispetto a quelle socializzate nel welfare.
Sia il lavoro di cura pagato e che quello gratuito consistono in due attività che frequentemente si sovrappongono nella pratica: cura diretta e indiretta. Le attività di cura dirette riguardano il face to face, la cura personale (spesso chiamato nutrimento – nurtruring o cura «relazionale»), come dar da mangiare ai bambini, nutrire un parente malato, aiutare persone anziane a fare il bagno, svolgere controlli della salute o insegnare ai bambini. Cura indiretta sono quelle attività come pulire, cucinare, fare le lavatrici e altri lavori domestici (chiamati anche «care non relazionale» o «lavoro domestico») che costituiscono le precondizioni per un lavoro di cura personale. Il lavoro di cura nei servizi del welfare è spesso garantito solo a chi ha già un lavoro (non si tratta quindi di welfare bensì di workfare) e supporta il lavoro salariato delle donne (e non delle persone) lasciando che nelle famiglie si attui un’attribuzione del lavoro di cura seguendo linee di genere.
Viene presa in considerazione anche una forma sottovalutata, se non ignorata, del lavoro di cura gratuito e non condiviso: riguarda l’organizzazione, la pianificazione, il far quadrare i conti (budgeting), la programmazione del lavoro domestico. La nozione di cura che si riferisce alla responsabilità delle donne non cambia quando si trasferisce ad altre donne fuori dalla famiglia e dalla casa. Questo lavoro dato individualmente a servizi esterni alla famiglia viene spesso assunto da donne straniere immigrate, che lavorano con paghe basse e con condizioni di lavoro precarie. Si evince chiaramente che l’esternalizzazione del fardello del lavoro domestico non pagato non è sufficiente se non è accompagnata da una rivalutazione monetaria del lavoro di cura e da maggiori investimenti nelle infrastrutture della cura.
Joan Tronto ci dice che per analizzare il lavoro di cura una prima distinzione da fare è tra cura e servizio, cioè tra un’assistenza che soddisfa i bisogni che una persona assistita non è in grado di soddisfare da sé, la cura, e un servizio che soddisfa i bisogni a cui l’assistito potrebbe provvedere autonomamente. Diventa quindi necessario chiarire il modo in cui i bisogni vengono definiti, e sulla base di questo, la posizione di coloro che forniscono assistenza e la posizione di coloro che ricevono assistenza. Inoltre, è necessario determinare la responsabilità dei soggetti a cui è attribuita la funzione di riproduzione.
Un’altra possibilità per analizzare il lavoro di cura è quella di disaggregarlo nelle sue componenti materiali. Una prima classificazione può essere fatta separando il lavoro domestico, il lavoro riproduttivo e il lavoro di cura (Del Re, 2018, 2020). Il lavoro domestico è quello che gli economisti chiamano il lavoro elementare, quello che serve per sopravvivere, cioè pulire, lavare, cucinare, fare la spesa, ecc. Il lavoro di riproduzione è il lavoro che serve a riprodurre la specie: non è solo fare figli, ma è crescerli, creare le condizioni indispensabili per la continuità della vita, la riproduzione della razza secondo Marx. Il lavoro di cura, invece, ha a che fare con le relazioni, con la continuità dei rapporti, con l’affetto, con l’attenzione, con il sesso. Non sono esattamente scindibili ovviamente, si intersecano e si sovrappongono, ma hanno caratteristiche peculiari e sono costituiti da compiti che possono essere attribuiti prevalentemente a soggetti diversi. Si tratta ora di vedere quanto di questo lavoro può entrare – salariato – nel mercato.
Il lavoro elementare è quello che si presta maggiormente alla mercificazione. Tradizionalmente non è mai stato in maniera esclusiva gratuito o scambiato per segno d’amore: nella storia più recente le classi abbienti e la borghesia hanno sempre assegnato alle domestiche il lavoro elementare. È genderizzato, razzializzato ed è stato usato dalle donne dei paesi ricchi per emanciparsi ed entrare nel mercato della produzione di merci scaricando su altre donne più povere la fatica senza compenso che la società attribuiva loro.
Più complessa invece è l’articolazione di quello che possiamo chiamare lavoro di riproduzione. Chiaramente ingloba il lavoro elementare, ma è anche un di più. Ha a che fare con le persone non in grado di riprodursi, vecchi, bambini, malati, ma anche persone che ritengono che il lavoro riproduttivo competa ad altri, per qualità naturali o per convenzioni sociali. È immesso nel mercato con forme contrattuali atipiche (per esempio le caregivers e si potrebbe considerare anche il matrimonio una forma contrattuale atipica del lavoro riproduttivo), riguarda lo sviluppo e la salute dell’umano nella sua interezza. I soggetti che si attivano sono molteplici e la loro composizione è gerarchizzata in termini di statuto e di salario.
Per quanto riguarda il lavoro di cura o affettivo è quello che sembra meno «lavoro», quello che non dovrebbe poter essere contrattualizzato (e si avvicina al «resto» di cui si diceva sopra). Per quanto riguarda il sesso pare evidente che può essere delegato al mercato, come nel caso delle sex workers, o le assistenti sessuali per i disabili (in Italia un nuovo mestiere?). Nei rapporti con le persone più fragili vengono richiesti (o si auspica che ci siano) partecipazione emotiva, sensibilità, tatto, devozione. Ed è un lavoro che dalle pieghe del privato, pur sembrando meno «lavoro», è stato travasato anche nel mercato, non solo nei servizi di cura del welfare, in cui si presume che con salari bassi e orari impossibili queste qualità vengano comunque dispensate, ma anche nella produzione di merci, sussunte dalla forma del lavoro richiesta dal mercato. Qualità che divengono condizione necessaria nei settori a prevalente occupazione femminile, ma che si stanno estendendo a tutte le forme di lavoro che implicano relazione, fino a richiedere adesione, partecipazione emotiva e affettiva e identificazione con la merce, l’azienda, il prodotto. Allora questo «resto» non è più disponibile come strategia esterna e contrapposta al mercato perché il mercato l’ha già sussunta.
Più semplicemente i lavori riproduttivi sono fondamentali perché tutto quello che ha a che fare con la conservazione e lo sviluppo del vivente permette che i corpi possano vivere e produrre.
Un aspetto comune è che questi lavori, per la loro natura stessa, sono indispensabili, non possono essere delocalizzati (anche se spesso sono esternalizzati) e non possono essere automatizzati, richiedono un contatto umano e/o un’attenzione particolare mirata caso per caso, e sono sottoposti alle politiche di austerità che peggiorano le condizioni lavorative. Il problema è come riconoscere il lavoro di riproduzione come lavoro socialmente necessario. Il tempo di vita non può esaurirsi tra cura e produzione. Né il tempo di lavoro liberato dall’ambito della cura può essere rivendicato per il lavoro salariato o viceversa, si ricadrebbe in una sopravvalutazione etica del lavoro.
La democrazia della cura
Con la nascita del capitalismo e dell’industrializzazione, la separazione tra produzione e riproduzione si è fatta più evidente e il lavoro domestico, la cura e la riproduzione della specie, sono stati attribuiti in misura preponderante alle donne. Una delle prime ipotesi di democratizzazione della cura, mantenendo le strutture sociali esistenti, prevede e auspica una condivisione di questi lavori tra maschi e femmine. Ma se la funzione di questa separazione e della gratuità del lavoro riproduttivo è stata quella di aumentare i profitti e tenere bassi i salari nel regime capitalista, condividere il lavoro di cura tra i sessi non serve a costruire una società migliore e diversa.
La proposta di un cambiamento radicale delle istituzioni politiche e sociali attuando una democrazia della cura (Tronto, 2013) riceve oggi molti consensi. Contrariamente all’idea neoliberista di un mondo fatto da individui astrattamente autonomi, la vita e le pratiche quotidiane ci dicono che siamo tutti dipendenti dalle cure di altri. Il problema politico è di impedire la costituzione di rapporti asimmetrici di dipendenza.
Per Tronto un passo fondamentale per l’affermazione e la condivisione sociale di un’etica della cura è quello di sostituire la nostra concezione di «interessi» con una concezione significativamente più ampia che si avvicina all’idea di «bisogni»: se l'interesse è un aspetto prevalentemente individualistico, il concetto di bisogno racchiude in sé una visione intersoggettiva delle relazioni che le rende politicamente rilevanti.
Ciò comporta una revisione della separazione tra vita pubblica e vita privata perché essa impedisce di dotare la cura della sua rilevanza politica come modalità effettiva di affermazione dei diritti oltre l’uguaglianza formale.
Si tratta, secondo Tronto, di valorizzare le professioni della cura e delle implicazioni derivanti dalla loro pratica, prendendo in considerazione anche le persone che dipendono dalle attività di cura (cioè tutti noi).
In relazione alla democrazia della cura che propone l’attuazione di progetti sostanziali e procedurali (AA.VV., 2020), vi sono sperimentazioni fattuali e proposte politiche articolate, come le comunità di cura.
Nel governo della società oggi la comunità di cura che è maggiormente presa in considerazione dalle politiche è la famiglia: ad essa, nella sua forma più tradizionale, è stata confidata la riproduzione degli individui, sia con il lavoro domestico gratuito delle «madri di famiglia» e delle caregivers famigliari, sia con l’esternalizzazione di alcuni compiti. Questa comunità è il principale destinatario degli aiuti economici che verranno dati attraverso le politiche di ricostruzione del welfare dopo la pandemia, spesso l’unico canale di accesso a forme di Welfare e reddito indiretto erogate per far fronte alla crisi, secondo il principio della sussidiarietà.
Ma costruire altre e differenti comunità di cura è anche un progetto per una società diversa, nella cui attuazione la cura possa essere «promiscua», cioè esistere al di fuori delle reti familiari e delle logiche di mercato (The Care Collective, 2021). Esistono molti esempi di comunità di cura non istituzionali, in cui alcune pratiche sociali sono messe al centro, nel tentativo di fondare un welfare comunitario su progetti specifici (asili comunitari, mense di quartiere, iniziative di mutuo soccorso, di contrasto alla solitudine e costruzione di reti di solidarietà) cercando di rinsaldare il concetto di comunità e di ascolto reciproco, oltre a sovvenire a bisogni particolari degli abitanti di un determinato territorio. Gli elementi che contraddistinguono queste iniziative sono il passaggio dalla concezione di servizio a quella dell’autogestione e il superamento del volontariato in forme di mutualismo. Ma autogestione e mutualismo, per quanto azioni pragmatiche che denotano capacità di resistenza in caso di necessità, sostituiscono gratuitamente la contrazione dello spazio del welfare pubblico, scaricando lo Stato e le classi dirigenti dalla responsabilità di affrontare i problemi della vita quotidiana.
Resta il nodo di un lavoro gratuito che viene riproposto, anche se in forma di sperimentazione, istituzionalizzando (ma come?) le pratiche di solidarietà e di condivisione sperimentate nel tempo e durante la pandemia senza le quali le persone più fragili e sole non sarebbero sopravvissute.
Sono iniziative che assumono l’idea dell’etica della cura come fondamento della pratica politica, ma non viene mai esplicitato il conflitto tra produzione e riproduzione e sostanzialmente si riduce la cura ad una versione indebolita, più un’invocazione al cambiamento e alla responsabilità che un percorso concreto di trasformazione.
Oltrepassando l’ideologia liberista che impone di aver cura di sé stessi, senza tener conto del lavoro di cura, del lavoro riproduttivo nascosto nelle pieghe dello sfruttamento capitalista, molte sensibilità si ingegnano a trovare obiettivi specifici di fronte all’emergere della consapevolezza collettiva della necessità di un qualificato lavoro di cura.
La campagna internazionale Care income now – ossia per l’istituzione di un reddito di cura – promossa dal Global women strike e dalla piattaforma Green new deal for Europe[4], parte dal ragionamento su come il lavoro di cura non retribuito vada considerato un contributo fondamentale al benessere socio-ecologico e per questo propone un reddito di cura. Esso ha lo scopo primario di livellare le disuguaglianze generate dalla mancata retribuzione di gran parte della cura domestica – indipendentemente da chi la svolge (Barca, 2020). Questa proposta richiama la storica campagna per il salario al lavoro domestico degli anni Settanta che esigeva, senza quantificarlo, un riconoscimento monetario di un lavoro da sempre contrabbandato per lavoro d’amore e attribuito dagli usi e costumi alle donne. Ma è un di più, perché si estende anche al lavoro nella sfera ambientale, spesso svolto in forma collettiva e auto-organizzata, stabilendo che anche questo lavoro venga pagato. Il reddito di cura ha però in sé molte contraddizioni. La prima è la confusione tra salario e reddito: il reddito paga il capitale e gli investimenti, il salario paga una parte del lavoro. È già difficile misurare come si dovrebbe pagare il salario per un lavoro di cura (paga oraria, qualità, quantità delle prestazioni?); con un reddito di cura ci sarebbe una redistribuzione di ricchezza ancora più indeterminata e generica e non è chiaro quali sarebbero le condizioni per erogarlo e neppure i soggetti che ne avrebbero diritto. Si torna alla difficoltà politica di definire cosa effettivamente paghi un salario nel lavoro di cura, se non si fa riferimento al mercato. Un’altra contraddizione è legata alla possibilità di rinforzare così la divisione dei ruoli e perciò una condizione di dipendenza (Morini, 2020). Anche la definizione quantitativa del reddito, che parte dal rifiuto della logica capitalista della valorizzazione del lavoro di cura attraverso il mercato, presenta delle insidie, perché un reddito inadeguato potrebbe dare luogo al permanere di una svalorizzazione di un lavoro cui si dovrebbe attribuire un grande valore sociale.
Un sindacalismo della vita
Un modo concreto e originale per affrontare le diverse tematiche del lavoro di cura è la proposta di un sindacalismo della vita che assume lo sciopero delle donne (dilagato sul piano globale e proposto dal movimento femminista transnazionale Nudm) come strumento di lotta e rivendica un reddito di autodeterminazione incondizionato con un welfare di qualità. Queste forme di lotta hanno fatto emergere la complessità delle forme di sfruttamento del lavoro, dei corpi e dei territori, mettendo in primo piano l’eterogeneità della forma lavoro, con componenti storicamente ignorate quando entra in campo il lavoro di cura (Gago, 2020). Le richieste emerse concernono investimenti nella riproduzione sociale, per la salute, la casa, la sicurezza ambientale, la scuola pubblica. Si chiede che venga riconosciuto il valore del lavoro di riproduzione sociale, socialmente necessario ma non sempre salariato.
I lavori per la riproduzione sociale sono i lavori più precari, sottopagati e sfruttati e la cui forza lavoro ha una forte connotazione di genere e di razza nella maggior parte del mondo (Borgia, Palermo, 2021).
Così il movimento femminista ha politicizzato la cura in modo radicale sottraendola all’immaginario di potere che la lega alle relazioni familiari, alle competenze mediche e a una serie di attività gratuite che spesso sostituiscono la responsabilità pubblica e l’intervento sociale dello Stato.
Il sindacalismo della vita, come prospettiva di sostenibilità della vita, come diritto a essere sani, a vivere una vita sana, dovrebbe aprire alla valorizzazione sociale ed economica di chi ha bisogno di cura e di chi cura, considerati bene comune, e affidati a una responsabilità pubblica. La cura in buona parte è lavoro, così speciale e importante che deve essere messo in cima alla lista dei cambiamenti da subito. Perché questo lavoro produca una buona cura bisogna programmare di investire socialmente per avere servizi veramente sostitutivi, salari adeguati e tempi di lavoro ridotti. Non basta pretendere che ci sia la cura, è necessario che la cura sia una buona cura. Per fare un esempio banale: per i bambini vi è una buona cura se un’assistente assiste quattro bambini; se ne ha dieci la cura è pessima. Pretendere servizi di qualità permette di pensare alla spesa pubblica come investimento, mentre garantire un reddito di autodeterminazione permette di attivare un tempo libero per la cura di sé, degli altri, del pianeta. Se noi implementiamo servizi adeguati, liberiamo tempo per quelle attività di cura volontarie e affettive per le quali serve tempo, disponibilità e desiderio. Non dobbiamo dimenticare che c’è qualcosa prima della cura: ed è trovare il tempo di avere cura, trovare il modo e gli strumenti, la disponibilità di avere cura. Partire dai salari per contrastare la povertà di chi lavora nel lavoro riproduttivo, ridurre il tempo di lavoro di cura perché questo lavoro abbia un senso e produca attenzione a tutti i corpi, assumere la necessità di un reddito incondizionato per chi non ha un salario, potrebbero essere i primi obiettivi attivabili da subito con conflitti portati avanti da un sindacalismo della vita che permetta l’avvio di una trasformazione sociale concreta per una effettiva società della cura.
Una versione rivista e ampliata del presente testo sarà pubblicata come A. Del Re, Cura e riproduzione sociale in C. Giorgi (a cura di), Welfare. Attualità e cambiamenti, Carocci, Roma forthcoming. Gli stessi temi sono stati anche al centro della lezione per il corso Crisi e riproduzione del capitale durante la «Machina Summer school», 2021.
Note [1] L. M. P. Tenhunen, M. Espinoza Minda, Hacia un sindicalismo de la vida, 7/03/2021 https://ctxt.es/es/20210301/Firmas/35268/pah-vallekas-feminismo-apoyo-mutuo-vivienda.htm [2] Il tema della «cura» è ormai al centro del dibattito femminista, sia in Italia che all’estero, come stanno a indicare molte recenti pubblicazioni e documenti (The Care Collective, 2021; Paolozzi, Leiss, 2021; Pulcini, 2020; Serughetti, 2020; Fraser, 2017; Magnolia, 2021; Morini, 2021). E non solo, nel dibattito politico l’uso del termine «cura» – proprio e improprio – a partire dal decreto Cura Italia - è particolarmente diffuso all’interno dei discorsi, proclami, proposte che fanno capo all’eccezionalità imposta dalla pandemia del Covid19. Il Piano nazionale di rilancio e resilienza del governo afferma che «Il lavoro di cura deve essere una questione di rilevanza pubblica mentre oggi nel nostro paese è lasciato sulle spalle delle famiglie e distribuito in modo diseguale fra i generi». [3] L’Assemblea della Magnolia è nata da un gruppo di associazioni femministe riunite sotto l’egida della Casa Internazionale delle Donne a Roma. [4] Si veda sul tema, l’intervista a Selma James pubblicata in questa stessa sezione della rivista https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-vera-teoria-%C3%A8-in-quello-che-fai [n.d.r.]
Letteratura di riferimento
AA.VV., Appello verso una democrazia della cura, «inGenere», 2/04/2020. http://www.ingenere.it
Alquati R., Sulla riproduzione della capacità umana vivente. L’industrializzazione della soggettività, DeriveApprodi, Roma 2021.
Ammirati A., Deiana E., Cittadinanza opaca, Ediesse, Roma 2019.
Assemblea della magnolia, Non c’è più tempo. Per il pianeta, per il nostro mondo, per le nostre vite. Noi siamo la cura,«il Manifesto», 7/02/2021.
Assemblea della magnolia, Appello 25 settembre 2021 Le donne in piazza Quale ripresa? La rivoluzione della cura è un’altra storia!, 8/07/2021.
Barca S., Appunti sul reddito di cura, in «il Manifesto», 7/05/2020.
Borgia C., Palermo G., Laboratorio pandemia. Genere, riproduzione, spazio domestico, 2021. https://www.machina-deriveapprodi.com/post/laboratorio-pandemia-genere-riproduzione-spazio-domestico
Botti C., Cura e differenza. Ripensare l’etica, LED Edizioni Universitarie, Roma 2018.
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Immagine: Cartolina non firmata, L’anno della donna continua, 1979
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Alisa Del Re Studiosa Senior dell’Ateneo patavino, ha insegnato Scienza della Politica dal 1968 al 2013 (anno della pensione) all’Università di Padova e per alcuni anni all’Università di Paris VIII (Parigi). Nel 2008 ha fondato il Centro interdipartimentale di ricerca: studi sulle politiche di genere (CIRSPG) che ha diretto fino al 2013. I suoi principali interessi di ricerca riguardano la cittadinanza sociale, le politiche famigliari, le trasformazioni socio-economiche e demografiche, la cittadinanza politica delle donne e i rapporti tra genere e politica locale.
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