Riproponiamo un testo scritto da Mario Tronti nel 1991 (pubblicato nella raccolta Cenni di castella, Edizioni Cadmo 2001), in occasione della traduzione italiana di Der Nomos Der Erde di Carl Schmitt. Nomos è parola greca che designa la prima occupazione di terra con relativa suddivisione e distribuzione originaria dello spazio, è pertanto la forma immediata nella quale si rende spazialmente visibile l’ordinamento politico e sociale di un popolo. Dopo il 1918, con la fine dello jus publicum europaeum, si ha un mutamento di significato della guerra: nella misura in cui il nemico torna a essere equiparato a un criminale, la guerra viene trasformata in azione di polizia contro i turbatori della pace. Oggi, per guardarsi da ogni attualità, come suggeriva lo stesso Schmitt, è dunque fondamentale ripercorrere insieme a Tronti queste genealogie, che ci conducono a confrontarci con la radice delle questioni.
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Schmitt, estate 1950, prefazione a Der Nomos der Erde: «Io mi guardo da ogni attualità... Preferisco pertanto interrompermi in qualche punto, pur di non incorrere in un falso sospetto». Del resto, sono gli esperti a lamentare «la babele linguistica del nostro tempo, la rozzezza della lotta ideologica, la dissoluzione e contaminazione perfino dei concetti più comuni e correnti della nostra odierna sfera pubblica». Non resta allora altro da fare che attraversare l’enorme quantità di materiale, cercare di esporre oggettivamente le idee, pur con «un problema dell’esposizione» che diventa particolarmente arduo, evitare polemiche e soprattutto «non mancare la grandezza del tema».
La grandezza del tema del nomos non è stata mancata da questo grande libro. E ha ragione Emanuele Castrucci, insieme a Franco Volpi curatore di questa tanto attesa traduzione italiana, a sottolineare che tra la Verfassungslehre (1928) e Der Nomos der Erde (1950) passa in due decenni un’intera epoca nel modo di pensare la tradizione giuridico-politica europea. Merito di Carl Schmitt è di aver guidato questo percorso teorico verso la fondazione di un nuovo pensiero globale intorno agli ordinamenti elementari della concreta esistenza umana. Il discorso su terraferma e mare libero, su occupazioni di terra e occupazioni di mare, su ordinamento da una parte e orientamento/localizzazione/radicamento in un territorio dall’altra, è forse più attuale per gli anni Novanta che per gli anni Cinquanta. Così magari Schmitt, suo malgrado, non può guardarsi dall’attualità. Alla fine del millennio, e per i caratteri di questa fine, non dovrebbe ripartire la ricerca intorno all’idea di un nuovo nomos della terra?
Ma cos’è nomos? È parola greca che designa la prima occupazione di terra con relativa suddivisione e distribuzione originaria dello spazio. Viene da nemein, che significa tanto dividere quanto pascolare, quanto ancora misurare. Nomos è pertanto «la forma immediata nella quale si rende spazialmente visibile l’ordinamento politico e sociale di un popolo, la prima misurazione e divisione del pascolo, vale a dire l’occupazione di terra e l’ordinamento concreto che in essa è contenuto e da essa deriva». Con le parole di Kant: la legge che ripartisce il mio e il tuo sul territorio. Secondo una significativa espressione inglese: il radical title. Misura, ordinamento, forma: per innalzare una parte della terra a campo di forza. Il passo di Pindaro (fr.169) sul nomos basileus è solo la prima delle numerose denominazioni del nomos come re, sovrano, despota e tiranno. Si tratta, come è noto, del furto di buoi compiuto da Eracle, che fa di costui, attraverso questo fatto violento, un creatore di diritto. Posizione di una imposizione, forza normativa del fattuale.
Nomos dunque non è «legge». Il concetto di legalità – dice Schmitt – indica più soltanto un modo di funzionamento della burocrazia statale, quello dello Stato legislativo centralistico, il cui correttivo, divenuto piuttosto inefficace, è il concetto di legittimità. Nella parola Gesetz (legge) c’è una rigorosa «mediatezza». Il nomos, invece, «nel suo significato originario, indica proprio la piena immediatezza di una forza giuridica non mediata da leggi». Evento storico costitutivo, atto della legittimità che conferisce senso alla legalità. Ordo ordinans originario, che solo una mentalità giuridica positivistica può ridurre a meccanismo di funzionamento della legge. Occupazione di terra, fondazione di città, colonizzazione: questi processi costitutivi non sono cosa di ogni giorno, ma non sono nemmeno archeologia del passato.
«Finché la storia universale non sarà conclusa [...] finché le situazioni non saranno fissate e cristallizzate per sempre, finché – in altre parole – uomini e popoli avranno ancora un futuro e non solo un passato, allora nelle forme sempre nuove dell’apparire degli eventi, nella storia del mondo sorgerà un nuovo nomos». Essenziale a ogni epoca storica è il processo fondamentale della suddivisione dello spazio: combinazione di ordinamento e localizzazione. In questo senso si parla di nomos della terra. «Poiché alla base di ogni nuovo periodo e di ogni nuova epoca della coesistenza tra i popoli, tra gli imperi, i paesi, i detentori del potere e le forze del potere di ogni specie, vi sono nuove delimitazioni e nuovi ordinamenti spaziali della terra».
Schmitt innesta il diritto sulla geopolitica. È questo il senso del suo percorso teorico dagli anni Venti agli anni Cinquanta. In mezzo c’è una concreta esperienza personale e un concreto passaggio di storia del mondo. Nessuna forma di pensiero è, come quella di Schmitt, così legata all’occasione del tempo. Un giurista, come egli amava soprattutto definirsi, che si trova ad attraversare due guerre mondiali, è costretto a porsi il problema politico della guerra. Vista da Nomos della terra tutta l’opera di Schmitt può leggersi come una narrazione storica del rapporto tra il diritto e la guerra. La sua idea della politica, «il criterio del politico», è la teoria che ne consegue. In questo libro l’ammirazione per il capolavoro dello jus publicum europaeum raggiunge il culmine. La guerra giusta, la guerra condotta ex justa causa, che arrivava a prevedere la possibilità di una aggressione giusta, è dottrina medievale, situabile nel quadro di una respublica christiana, sul presupposto cioè di una autorità giuridica internazionale esercitata dalla potestas spiritualis della Chiesa.
Il diritto internazionale europeo caratteristico dell’epoca interstatale che va dal XVI al XX secolo rompe con questa tradizione. Il punto di riferimento formale diventa l’eguale sovranità degli Stati. Anziché dalla justa causa si parte dallo justus hostis. È legittima ogni guerra tra Stati condotta tra sovrani con eguali diritti. «Mediante questa formalizzazione giuridica si rese possibile una razionalizzazione e una umanizzazione, cioè una limitazione della guerra». Alberico Gentile è il grande giurista della grande svolta. E diventa moto tipico dell’epoca il suo grido di battaglia: Silete theologi in munere alieno!
Ma la rivoluzione vera partiva dalla conquista territoriale di un nuovo mondo: quali titoli giuridici per la scoperta e l’occupazione delle nuove terre. E dei nuovi mari. Si trattava di tornare a tracciare le linee di ripartizione dell’intero globo terrestre. Dalle linee di divisione ispano-portoghesi, le rayas, alle linee di amicizia franco-inglesi, le amity lines, c’è anche un percorso teorico, di riflessione e discussione: da Francisco de Vitoria, più avanzato, secondo Sschmitt, di Grozio e Pufendorf, a Baltasar Ayala, all’olandese Bynkershoek a Vattel. Fino a Kant, specchio di ambiguità come filosofo del diritto (e forse non solo!), perché nella prospettiva della pace perpetua e sotto la riscoperta del concetto di Hostis injustus sancisce in realtà, a fine Settecento, l’esito di quel processo: gli Stati – riassume Schmitt – stanno gli uni di fronte agli altri nello stato di natura quali persone morali equiparate e ognuno di essi ha il medesimo diritto alla guerra.
Ma, ecco: è un errore assai diffuso quello di parlare di anarchia a proposito del Medioevo, perché lì la faida e il diritto di resistenza funzionavano come istituzioni giuridiche, secondo quanto ci ha insegnato Otto Brunner. Altrettanto inesatto sarebbe chiamare anarchia l’ordinamento giuridico internazionale tra il XVII e il XX secolo solo perché esso ammetteva la guerra. «Le guerre intestatali europee tra il 1815 è il 1914 furono in realtà processi ordinati, limitati da grandi potenze neutrali, pienamente giuridici, a confronto dei quali le moderne misure di polizia e di ristabilimento dell’ordine pubblico contro i suoi perturbatori possono essere terribili azioni di annientamento». Si trattava di un ordinato misurarsi delle forze, di fronte a testimoni, in uno spazio delimitato: possibile in quanto l’avversario veniva riconosciuto come nemico ed equiparato a justus hostis. La dissoluzione di questo jus publicum europaeum si ha tra il 1890 e il 1918. L’ultimo atto Schmitt lo vede negli Atti del Congo, dall’omonima Conferenza del 1884-85, sotto la direzione dell’ultimo grande statista del diritto internazionale europeo, Bismarck. Poi, la lunga ombra viene dall’occidente. Con la crescita di potere degli Stati Uniti, emerge il loro caratteristico oscillare, il loro non saper decidersi «tra il chiaro isolamento [...] e l’intervento universalistico-umanitario in tutto il globo».
Ciò che subentrava alla destituzione dell’Europa da centro della terra, nel diritto internazionale, non era un «sistema» di Stati, ma una compresenza confusa di relazioni fattuali, priva di dimensione spaziale e di connessione spirituale; «un caos senza alcuna struttura, che non era più capace di alcuna limitazione comune della guerra». E infatti vennero le due «grandi guerre», la guerra civile europea sullo spazio-mondo.
Con la fine dello jus publicum europaeum si ha un mutamento di significato della guerra. Questa data non dal 1914 ma dal 1918. La Prima guerra mondiale iniziò come una guerra statale europea di vecchio stile. Fu quella pace, dal Trattato di Versailles al protocollo di Ginevra, a cambiare l’idea della guerra. Dietro c’erano due grandi condizioni, ambedue in fondo legate a un nuovo concetto di spazio. Una era la formula, americana, da Jefferson a Wilson, dell’emisfero occidentale. Il nuovo Ovest avanzava l’idea di essere il vero Occidente: e questo non contro la vecchia Asia, o l’Africa, ma contro l’Europa. In fondo si tratta della pretesa dell’America di essere la vera Europa. L’altra è la trasformazione dell’immagine del teatro di guerra. All’esercito di terra e alla marina tradizionali, proprio delle due superfici separate della terra e del mare, si aggiunge un terzo genere di arma, l’aeronautica militare. Nasce un nuovo tipo di uso della forza e quindi un tipo di guerra completamente nuovo, che cambia il concetto stesso di nemico: non più guerra di preda tra belligeranti riconosciuti, ma guerra di annientamento totale dell’avversario. Non c’è più né teatro di guerra né spettatori. Si torna alla discriminazione e alla assolutizzazione del nemico quale criminale. Si torna a prima del XVII secolo, alle guerre di religione. Il potenziamento dei mezzi tecnici di annientamento e la discriminazione giuridica e morale del nemico, innescano una logica parimenti distruttiva. Per giustificare questo, ritorna l’idea della guerra giusta e del nemico ingiusto. «Nella misura in cui oggi la guerra viene trasformata in azione di polizia contro turbatori della pace, criminali ed elementi nocivi, deve anche essere potenziata la giustificazione dei metodi di questo police bombing. Si è così costretti a spingere la discriminazione dell’avversario in dimensioni abissali».
Immagine: Thomas Berra
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