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Scelte delle donne e immaginario maschile nella Resistenza




Un sesso [costituisce] un problema sociale [1]



La Resistenza ha occupato ed occupa un ampio spazio nella storiografia e nella memoria, particolarmente arricchito dagli studi critici che, soprattutto a partire dall’ultimo quarto del secolo scorso, furono «volti a scomporre l’unità agiografica della Resistenza nelle sue diverse e talvolta contrastanti componenti» [2].

Da un punto di vista di genere, per circa 30 anni dalla Liberazione, a livello storiografico e politico (istituzionale e non), vi è stata una sostanziale assenza di analisi sull’apporto femminile reale alla Resistenza, con la conseguenza che le donne che vi parteciparono furono relegate ad un ruolo subalterno. Donne che, pur avendo rivelato le loro eccezionali doti durante la guerra partigiana, furono poi risospinte alla tradizionale condizione subalterna. Sia Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, sia Anna Teresa Iaccheo, pongono il problema storiografico di una tendenza, affermatasi in Italia, ad esaltare la Resistenza «al maschile», trascurando «l’altra metà del cielo» [3], salvo ricordarla «in fin di orazione come generico riconoscimento di un “prezioso” contributo alla lotta» [4]. Proprio il volume di Bruzzone e Farina, insieme a quello di Bianca Guidetti Serra [5], entrambi editi nella seconda metà degli anni Settanta, segnano l’avvio di un filone di studi «di genere» della Resistenza (sulla cui nascita sarebbe interessante studiare quanto abbia inciso l’esplosione del movimento femminista nel nostro Paese), filone poi affermatosi e rafforzatosi dagli anni ’90 del secolo scorso fino ad oggi [6].

Lo studio della partecipazione femminile alla Resistenza, quindi, non è più «tutto da fare», come lamentavano Bruzzone e Farina nel saggio già citato, ma ciò non toglie che i dati riguardanti le donne partigiane siano ancora non completamente attendibili. Essi hanno scontato criteri di riconoscimento e di premiazioni puramente militari, non prendendo in considerazione i «modi diversi», ma non per questo meno importanti, con cui le donne parteciparono ad essa. A ciò va aggiunto che alla fine della lotta armata la stragrande maggioranza delle donne non si fece avanti per ritirare medaglie e riconoscimenti. Sempre secondo Bruzzone e Farina il calcolo è sicuramente molto al di sotto della realtà. I dati raccolti da Ada Gobetti nel 1953 sul Piemonte [7] ci dicono che su un totale di 5.598 partigiani e 600 civili caduti, 98 furono le partigiane cadute, 185 le deportate e 36 le civili uccise. Alcune stime più recenti della partecipazione femminile alla Resistenza su tutto il territorio nazionale [8] fanno comunque emergere dati significativi che, anche solo presi dal punto di vista esclusivamente numerico, evidenziano come la Resistenza non si sarebbe potuta sviluppare senza l’apporto delle donne [9]:


• 70.000 donne organizzate nei Gruppi di Difesa della Donna;

• 35.000 donne partigiane, che operavano come combattenti;

• 20.000 donne con funzioni di supporto;

• 4.563 arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti;

• 2.900 giustiziate o uccise in combattimento;

• 2.750 deportate in Germania nei lager nazisti;

• 1.700 donne ferite;

• 623 fucilate e cadute;

• 512 commissarie di guerra.


Infine, le donne insignite della Medaglia d’oro al valor militare furono 19, delle quali 15 alla memoria e 4 in vita[10].


Come giustamente ricorda la Iaccheo nel saggio citato, «le donne della Resistenza non sono come gli uomini della Resistenza». Il tema delle scelte – e delle motivazioni di queste – di fronte allo sconvolgimento della guerra voluta dal regime fascista, ripropone in specifico un nodo tuttora irrisolto: quello di riconoscere alle donne, in sede storica e politica, la possibilità e la volontà di uscire da destini preordinati e di mettere in discussione il monopolio maschile del libero arbitrio. La donna come vittima impotente degli eventi storici, che nel romanzo di Elsa Morante La Storia [11], uno dei capolavori della letteratura italiana del Novecento, ha come protagonista Ida Ramundo, maestra elementare che subisce, in un crescendo di sofferenza ed angoscia, la morte del marito, lo stupro da parte di un soldato tedesco, il bombardamento e la distruzione della casa, la morte del giovane figlio primogenito (ex partigiano) e, colpo di grazia, quella del piccolo Useppe, nato dalla violenza subita dal soldato tedesco e malato di epilessia, che la conduce alla follia.

Se, come scrisse Marc Bloch, la storia è scienza degli uomini che agiscono e si relazionano nel tempo e nello spazio [12], ecco che proprio per questo andrebbe aggiunto vicino al termine «uomini» quello «donne». Già la Iaccheo ha affermato la necessità di una ricerca che abbia come soggetti le donne, una storia della Resistenza al femminile, che ovviamente non può escludere gli uomini (mentre spesso succede il contrario), ma che anzi introduca la dimensione del rapporto fra i generi, intesi non come eventi naturali, ma come legami sociali.[13]


La scelta della militanza antifascista – e poi resistenziale – maturò, soprattutto tra le donne, lentamente: come hanno raccontato alcune partigiane intervistate da Liliana Cavani nel suo famoso film-documentario del 1965, Le donne nella Resistenza, fu un lento processo che dalla guerra all’Etiopia del 1935, passando per le «leggi razziali» del 1938, arrivò fino alla dichiarazione di guerra alla Francia del settembre 1940, quando molte donne «hanno sentito che non potevano aderire ad una dittatura, ad una forma di governo che imponeva loro di prendere degli atteggiamenti che erano contrari a quello che era il loro profondo contesto morale»[14]. Chi aveva amici o amiche ebrei/e e non comprendeva perché dovesse rifiutare le loro amicizie, chi aveva avuto fratelli morti in Russia o ritornati in condizioni penose e per questo rifiutava la tessera del fascio, chi ancora non tollerava l’invasione straniera nazista ed aveva assistito ai Tedeschi che avevano sparato sulle donne accorse alla stazione per impedire la partenza dei treni piombati verso i campi di concentramento e di sterminio...Esperienze, estrazioni sociali, età diverse, ma stesso punto di arrivo: voler contribuire a fermare la barbarie che era in atto.

Per le donne originarie della campagna questa maturazione di coscienza avvenne principalmente all’interno del contesto familiare, quel contesto, misto di ritualità millenarie, determinazione a difendere quel poco che si ha ed esplosioni di ribellione e violenza tanto spontanee quanto devastanti, rappresentato splendidamente da Bernardo Bertolucci nell’Atto I del suo film Novecento (1976), nella scena in cui alcune famiglie contadine, donne in testa a cantare Sebben che siamo donne, si attestano a difesa della cascina che la guardia regia deve sgomberare su richiesta degli agrari della zona.

Regina Borello, operaia e militante antifascista alla Riv di Torino, proveniva da una famiglia antifascista di contadini dell’alta Langa. Il papà fu ricercato politico e poi arrestato, la mamma non meno combattiva: «Mia mamma [...] è una che quando le dici: “Mamma c’è sciopero” lei ti dice: “Va a mai cun le man vöide, mal ca vada pia na pera, pia an bastun, pia quai cosa an man”» [15].


In un misto fra vita familiare ed esperienze di fabbrica e sindacale affondano invece le scelte di molte donne di città, come nel caso di Rosanna Rolando (nome di battaglia «Alba Rossa»), rappresentante del Pci nel Cln e militante dei Gruppi di Difesa della Donna, o in quello di Nelia Benissone Costa («Vittoria»), responsabile organizzativa e militare del Pci torinese ed anch’essa militante dei Gdd, influì la militanza antifascista paterna [16]. Per Lucia Bianciotto, militante comunista ed antifascista, confinata a Ponza ed a Ventotene, staffetta partigiana e militante dei Gruppi di Difesa della Donna a Milano, Reggio Emilia e Novara, l’incontro col marito, operaio edile comunista che si interessava alle sue condizioni di lavoro e che le faceva leggere Il tallone di ferro di Jack London o La madre di Gorkij, fu «l’origine che ha cambiato la mia vita nel senso che mentre prima ero un po’ irritata dal suo modo di parlare poi ho capito che era un uomo che si occupava veramente di cose serie, che non viveva solamente così ma cercava di analizzare la situazione» [17]. Chi portò Rita Comoglio, staffetta dell’XI Divisione Garibaldi a Caraglio, «sulla strada del partito» fu il fratello Gildo, operaio alla Lancia, che partecipò all’occupazione del 1920 e che fu poi esule in Francia.

Angela Bassino, medaglia d’argento al valor militare, militante dei Gruppi di Difesa della Donna, ebbe invece nella mamma (anch’essa dei Gdd) il punto di riferimento: operaia presso il cotonificio Poma, partecipò al primo sciopero delle tessili di Torino, nel 1902[18]. Elsa Olivi (nome di battaglia «Helsinki»), comandante di una volante partigiana nella Brigata «Franco Abrami» della divisione «Valtoce» (Novara-Verbania), era nata da famiglia operaia ed antifascista ed ebbe un’educazione, diciamo così, «implicita» [19]. Spesso, infatti, sulla scelta antifascista e resistenziale pesarono i ricordi di episodi di violenze fasciste subite dai familiari o di danni alle proprietà, come raccontato da Renata Viganò nel romanzo LAgnese va a morire [20], nel quale la protagonista, Agnese, entra nella Resistenza dopo l’uccisione del marito da parte dei nazisti e dopo che un soldato tedesco uccide «per gioco» il suo gatto. In Teresa Cirio, militante del Pci e dei Gruppi di Difesa della Donna, montò l’odio nei confronti del fascismo a seguito di una perquisizione subita quando si trovava, bambina, sola in casa [21]. Al papà di Anna Bechis, anch’essa poi militante dei Gdd e del Pci (aveva all’epoca 12 anni), i fascisti fecero bere un’intera bottiglia di olio di ricino e bruciarono la cooperativa di Volpiano, di cui era vicepresidente [22].

Edda Scaratti, giovanissima staffetta partigiana «saltuaria» che operava a Torino nella zona di Vanchiglietta a Torino, perse tre zii: il primo, di fede anarchica, «scomparso» a 45 anni, probabilmente ucciso dai fascisti; il secondo, morto nel campo di concentramento di Dachau perché militare fatto prigioniero dai nazisti a Spalato dopo l’8 settembre; il terzo, anch’egli anarchico, morì a seguito dei pestaggi subiti dai fascisti[23]. Ancora, a Germana Boldrini, partigiana diciassettenne che diede il via all’attacco nella battaglia di Bologna del 7 novembre 1944, il coraggio di impegnarsi nella Resistenza venne dalle violenze subite in famiglia e dalla volontà di vendicare il padre che era stato fucilato [24].


L’estrazione operaia, il lavoro in fabbrica, la ribellione ai soprusi dei padroni fu un altro forte movente per la scelta resistenziale. Lea Baravalle, figlia di braccianti e staffetta partigiana, appena finite le scuole elementari (1926-’27) andò a lavorare in una filanda e lì maturò la propria avversione per le ingiustizie e le prepotenze [25]. Anche Edera Felici, dei Gruppi di Difesa della Donna, pur non avendo contatti organizzati alle spalle trovò nella fabbrica il primo luogo di impegno e di propaganda politica, così come Vera Di Palo, militante dei Gruppi di Difesa e delle SAP a Torino[26].

A volte l’insofferenza verso il regime e l’avversione al fascismo e a Mussolini, maturava sui banchi di scuola. Cesarina Carletti, staffetta e combattente partigiana, pur essendo figlia di operai, era riuscita a frequentare il liceo: «Dovevo iscrivermi alle giovani italiane; sono arrivate le domandine sul banco; ho preso i libri e sono tornata a casa» [27]. Al contrario, per Tersilla Fenoglio Oppedisano (nome di battaglia «Trottolina»), staffetta presso il Comando del Raggruppamento garibaldino delle Langhe, fu proprio l’educazione fascista ricevuta, attraverso i sette anni di collegio, a provocare la ribellione di fronte all’occupazione tedesca[28].

La scelta di incorporarsi nella Resistenza fu presa anche in considerazione dell’esempio che veniva dato dai partigiani. Rosa Franca Gallina, staffetta, quando sentì parlare dei partigiani:


«è stato appunto nel ’43, dopo l’8 settembre. […] Nei primi mesi del ’44 […] un piccolo gruppo di partigiani cominciava a formarsi dalla parte delle Langhe, […] e allora i miei fratelli hanno deciso di partecipare anche loro […] e si sono legati a questa formazione GL. Sono andata su con loro e poi la domenica dopo sono andata subito a portargli la roba per il cambio e da allora, ecco, mi sono interessata» [29].


Stesso percorso quello di Lea Baravalle:

«Intanto cominciamo a sentire che su da Barge, Bagnolo ci sono le prime bande, dei “ribelli” dicono. Ribelli che non vogliono andare a fare il militare.

E io : - Fanno bene! Se potessi ci andrei anch’io!

E tutti dicevano che ero matta. Allora di donne non se ne parlava ancora.

[…]

Allora gli dico [al fratello partigiano]: “Senti, arrivati a questo punto, tu mi devi...Le prendono le donne nei partigiani?”

Lui dice: “Come no?”

“Allora mi devi mettere in contatto... io voglio andare a fare la partigiana.”

“Ma perché vuoi andare?”

“Ma proprio perché io ho perso ’sti fratelli, proprio perché è tutta la vita che soffriamo, e tutto questo si sente dire che è ingiustizia del fascismo...Io voglio dare il mio contributo.”

E lui mi ha fatto prendere i primi contatti con i partigiani» [30].


Accanto alle motivazioni – politiche e/o affettive – che sommariamente ho esposto in precedenza, rimanevano, o riemergevano quelle maggiormente legate ad un immaginario di genere. La Giornata internazionale della donna fu, ad esempio, la scintilla che mosse Delfina Carletti ad intraprendere la militanza sindacale e di partito a Caselette, in provincia di Torino:


«La prima cosa che abbiamo fatto, che mi ricordo, è l’8 marzo 1943. Eravamo ancora in pieno fascismo. La sottoscritta era un po’ una ribelle... Lavoravamo alla Superga, era una fabbrica di calzature. Eravamo in quattro sorelle alla Superga. Così, mi è venuto in mente: dato che alla Superga avevamo un direttore amministrativo e uno che guardava la parte tecnica, cioè la fabbrica, era un direttore di fabbrica... vediamo cosa mi dice. Vado su e dico: “Quel piccolo salottino che c’è sotto, me lo può prestare?”

Lui mi guarda e mi fa:

“Cosa ne farebbe lei?”

“Cosa ne farei? A giorni siamo all’8 marzo, è la festa della donna ed io voglio andare a comperare la mimosa.”

Questo qui si guarda in testa, era uno... questo qui si gratta in testa e mi fa:

“Ma cosa sarebbe questa festa?”

“Bisogna che la veda e si rende conto.”

Quando mi son sentita dire: “va bene così, faccia come le pare”, mi sembrava di aver toccato il cielo» [31].


La morale familiare e sessuale nella Resistenza

Claudio Pavone dedica, all’interno del suo «saggio sulla moralità nella Resistenza», alcune pagine alla questione [32], avvertendo sulla difficoltà di interpretare i «segni lasciati dai resistenti», definiti «scarsi» e «tenui». D’altronde, Bruzzone e Farina ricordano come raramente le antifasciste trovarono uomini che parlassero loro della specifica, «doppia» oppressione femminile, e ciò neanche in campo comunista: al terzo congresso dell’Internazionale Comunista (che si tenne a Mosca dal 22 giugno al 12 luglio 1921) l’esistenza di una «particolare questione femminile» era stata negata e tutto era stato rimandato all’instaurazione del Socialismo. [33]

La guerra aveva, comunque, fatto saltare la costruzione ideologica e propagandistica del fascismo basata sulla centralità e sulla sacralità della famiglia, visto che proprio le famiglie erano state sfasciate, distrutte, divise proprio dall’evento bellico e dai morti che aveva prodotto. Tanto che lo spirito di affrancamento dagli angusti orizzonti familiari aveva fatto breccia fra le militanti antifasciste, come testimonia questo brano, scritto da una resistente, in cui le donne vengono invitate energicamente ad uscire da «quel chiuso cerchio della cucina e delle pentole da secoli impostoci dalla sufficienza degli uomini» che proprio l’evento bellico aveva mandato per aria [34].

Al tempo stesso fu però la responsabilità di garantire la sopravvivenza del nucleo familiare (o di quello che spesso ne rimaneva) che mosse molte donne a mobilitarsi. Ha ricordato, infatti, Nelia Benissone Costa:


«[Nel 1943] le donne allora non avevano idee molto chiare. Erano scontente per la guerra, il freddo, i disagi. L’opera di propaganda si poteva fare meglio nelle code davanti ai negozi. […] Era tempo che le donne si organizzassero, perché su noi c’era forse il peso maggiore. Gli uomini, va bé, erano al fronte, ma noi, sotto i bombardamenti, dovevamo pensare a tirare avanti, al vitto, alla famiglia» [35].


Le numerose manifestazioni organizzate dai Gruppi di Difesa – spesso veri e propri assalti disarmati (raramente vi erano elementi delle Sap con funzioni di «scorta») ai docks, ai forni ed i negozi – trovarono degna rappresentazione in Roma Città Aperta, film del 1945 diretto da Roberto Rossellini e considerato il manifesto del neorealismo italiano. Successivamente alla scena dell’assalto al forno, si svolge un dialogo fra Pina (interpretata da Anna Magnani), l’animatrice ed organizzatrice delle manifestazioni, e l’«ingegner Giorgio Manfredi» (interpretato da Marcello Pagliero), uno dei capi della giunta militare del Comitato di Liberazione Nazionale. Pina è una donna non più giovanissima, con un figlio piccolo frutto – non è chiaro – di un precedente matrimonio o rapporto, nuovamente incinta e prossima al matrimonio (che vuole celebrare assolutamente in chiesa) con Francesco, antifascista impegnato in una tipografia clandestina del Pci. Nel dialogo emerge la necessità della sopravvivenza familiare come motore principe della partecipazione femminile agli assalti:


«Pina: “Stamattina abbiamo assaltato un forno.”

Manfredi: “Ah sì?”

Pina: “È il secondo della settimana...”

Manfredi: “Come vanno le donne?”

Pina: “Oddio...qualcuna lo sa perché lo fa, ma la maggior parte arruffano più sfilatini che possono...Qualcuna poi stamattina se so’ fregate ’n par de scarpe e ’na bilancia.”


Quindi, da una parte si auspicava «la ristrutturazione del millenario istituto della famiglia», auspicando, a Liberazione avvenuta (in una tipica concezione della politica dei «due tempi»), l’abolizione della prostituzione, politiche di tutela delle giovani, la repressione dell’adulterio, la concessione del divorzio; dall’altra si riproponevano figure «materne» di donne con lo scopo di conquistare la fiducia della popolazione [36].

Anche in tema di concezione del rapporto fra i sessi il clima della Resistenza era «di moralismo e di puritanesimo esasperato – ha ricordato Tersilla Fenoglio Oppedisano – che ha avuto il crollo dopo la Liberazione». [37] Un misto di misoginia e bigottismo che trapela da molti documenti ufficiali e da diari partigiani [38], in base al quale le donne, in particolare le comuniste (che per i loro compagni maschi non erano «donne», bensì appunto «comuniste») avrebbero dovuto «dare l’esempio» in termini di costume. Ciò perché le donne erano ritenute fragili fino al tradimento e pericolose se mostravano eccessiva simpatia per i partigiani; quindi di loro non bisognava fidarsi, perché predisposte alla degenerazione morale e a fare la spia. Come in precedenza ci corre in aiuto, nel comprendere questo ambiente anti-femminile, nuovamente il film Roma Città Aperta, questa volta nel dialogo in cui Marcello, il figlio di Pina, e una bambina che abita nello stesso appartamento (abitato da più famiglie) commentano l’attentato contro una cisterna tedesca a cui lo stesso Marcello ha partecipato:


«Marcello: “L’avemo fregati bene a quelli, eh!”

Bambina: “A me non mi ci portate mai, però!”

Marcello: “Ma che c’entra? Tu sei ’na donna.”

Bambina: “E perché? Le donne non possono fare eroismo?”

Marcello: “Sì, lo ponno pure fa’, ma...Romoletto dice che le donne...so’ sempre guai...”»


Quindi, anche in campo resistenziale è presente una forte diffidenza nei confronti della partecipazione femminile alla lotta partigiana, spesso accompagnata anche da una sorta di disprezzo nei confronti delle attività ritenute tipicamente femminili: ad esempio, nel suo diario Emanuele Artom annotò il rifiuto di un comandante partigiano, comunista, di lavare i piatti richiestogli da una compagna: «non faccio lavori da donna», fu la risposta.

Spesso i compagni venivano accusati di vero e proprio sabotaggio politico contro le donne, alle quali era spesso preclusa la partecipazione agli organismi dirigenti e che venivano confinate in compiti ritenuti di bassa «manovalanza» politica, come riconosciuto dallo stesso comandante Francesco Moranino, organizzatore e comandante delle formazioni garibaldine nel biellese e deputato alla Costituente [39].

Di contro, però, emersero anche posizioni opposte, tendenti a una rivoluzione della moralità e della concezione sessuale. Il Comando delle Sap, in risposta ad un rapporto che conteneva alcune delle summenzionate critiche anti-femminili, partendo dal presupposto che l’uso delle armi era assurto a simbolo di eguaglianza (fra uomini e donne) invitava ad abbandonare questi preconcetti, frutto «della nostra convenienza e della nostra arretratezza» [40]. Nelle discussioni all’interno del Fronte della Gioventù (l’organizzazione giovanile del Pci), nelle lettere di donne a «l’Unità», nelle dichiarazioni programmatiche di alcuni partiti antifascisti minori, si facevano strada posizioni che intendevano affrancare la donna dalla secolare condizione di «strumento di procreazione» o di «piacere», di «animale di lusso» [41]. Contro la mentalità tradizionale che imponeva che la donna se ne stesse a casa «a fare la calza», proprio «grazie» alla guerra ed alla partecipazione femminile alla Resistenza riemergeva, ha scritto Pavone, quella figura di «donna ribelle» figlia della Comune di Parigi che in Italia era comparsa nelle lotte delle operaie agli inizi del Novecento [42]. Teresa Noce fu una di queste:


«Quando discutevo con le donne, sia che fossero compagne di partito o appartenenti all’Udi, mi irritavo spesso, come mi irritavo con quelle che svolgevano lavoro sindacale. Infatti, tutte, anche le più decise, anche le più combattive, quando gli uomini non erano d’accordo finivano sempre per cedere. “Ma come – dicevo loro – siete capaci di tener testa ai padroni, di dire e di imporre le vostre ragioni in fabbrica, e tacete o cedete di fronte ai compagni? E questo, anche quando siete convinte di aver ragione voi?” […] Le donne, per conquistare l’emancipazione come donne e come lavoratrici, per prima cosa dovevano imparare a dire di no: dire di no ai maestri e ai genitori, dire di no ai padroni, dire di no al marito, dire di no ai compagni quando si era convinte di aver ragione. Bisognava battersi per le proprie opinioni, difenderle contro tutti e smettere di pensare che gli uomini, compagni o dirigenti, solo perché tali o perché di un gradino più in alto nella gerarchia, avessero sempre ragione» [43].

Conclusioni

Per concludere, si può affermare che se le necessità della guerra avevano aperto nuovi orizzonti ad un protagonismo politico attivo delle donne, la guerra stessa fu sostanzialmente una esperienza conservatrice da un punto di vista di genere. La fine del conflitto segnò la volontà maschile di riacquistare il monopolio della scena pubblica, ed in questo ci fu una sostanziale continuità fra fascismo e democrazia [44]. Anche nel dopoguerra tornò l’ossessione del controllo del corpo delle donne (d’altronde «argomentato» dalla riduzione della collaborazione politica delle donne fasciste a relazione sessuale), simboleggiato dal rito punitivo della tosatura dei capelli – pratica usata già in precedenza sia dai militari del regio esercito nei confronti dei renitenti alla leva, sia dai fascisti nei confronti delle donne che si accompagnavano ai partigiani, e poi ripresa dagli antifascisti per punire soprattutto le ausiliarie repubblicane [45] – in cui il potere si riappropriava del corpo delle donne.

«Controllare i corpi delle donne – come ha scritto Francesca Gori – e ridefinire i confini della loro mobilità e visibilità sembra mettere d’accordo tutti gli uomini della nazione – da sempre diffidenti nei confronti delle scelte autonome delle donne – e permettere di celebrare la ritrovata unità» [46].


Bibliografia [1] A. Reimer Myrdal, Nation and family. The Swedish Experiment in Democratic Family and Population Policy, New York-London 1941, pp. 398 e sgg., cit. in V. de Grazia, Il patriarcato fascista: come Mussolini governò le donne italiane (1922-1940), in G. Duby, M. Perrot (a cura di) Storia delle donne. Il Novecento, Editori Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 143. [2] C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Universale Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. X. [3] A. T. Iaccheo, Donne armate. Resistenza e terrorismo: testimoni dalla Storia, Mursia, Milano, 1994, p.16. [4] A. M. Bruzzone – R. Farina (a cura di), La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, La Pietra, Milano, 1976, p. 10. [5] B. Guidetti Serra, Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile, EinaUdi, Torino, 1977. Da precisare che già nel 1965 era stato edito dall’Unione Donne in Italia (UDI) il volume Mille volte no: testimonianze di donne nella Resistenza, curato da M. Alloisio. [6] A titolo d’esempio ricordo: A. Bravo – A. M. Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari, 1995; G. De Luna, Donne in oggetto: l’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Bollati Boringhieri, Torino, 1995; A. Gasco, La guerra alla guerra. Storie di donne a Torino e in Piemonte tra il 1940 e il 1945, Edizioni SEB 27, Torino, 2007; P. Gabrielli, Tempio di virilità. L’antifascismo, il genere la storia, Franco Angeli, Roma, 2008. [7] Citati in A. M. Bruzzone – R. Farina, La Resistenza taciuta, op. cit., p. 11. [8] C. Ravera, Breve storia del movimento femminile in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1981; pagina web dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia di Voghera (http://lombardia.anpi.it/voghera/donneresistenza/donneresistenza.htm). [9] A. M. Bruzzone – R. Farina (a cura di), La Resistenza taciuta, op. cit., p. 10. [10] C. Grementieri, Iris Versari medaglia d’oro al valor militare e la Resistenza delle donne: verità e leggenda, Vespignani Editore, Castrocaro Terme, 2004. Attualmente è vivente solo Paola Del Din (nome di battaglia “Renata”), partigiana della Brigata Osoppo che operò in Friuli Venezia Giulia. [11] E. Morante, La Storia, Einaudi, Torino, 1995. [12] M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino, Einaudi, 2009, pp. 19-39. [13] A. T. Iaccheo, Donne armate, op. cit., pp.10-13. [14] https://www.youtube.com/watch?v=j7p7v504j6M. [15] «Non andare mai con le mani vuote, mal che vada prendi una pietra, prendi un bastone, prendi qualcosa in mano», in B. Guidetti Serra, Compagne, op. cit., p. 569. [16] A. M. Bruzzone – R. Farina, La Resistenza taciuta, op. cit., pp. 17-33 e 32-62. [17] B. Guidetti Serra, Compagne, op. cit., pp. 321-322. [18] Ivi, p. 467. [19] A. M. Bruzzone – R. Farina, La Resistenza taciuta, op. cit., p. 120. [20] R. Viganò, LAgnese va a morire, EinaUdi, 2005. Dal romanzo è stata tratta anche una versione cinematografica diretta da Giuliano Montaldo (1976). [21] B. Guidetti Serra, Compagne, op. cit., p. 421. [22] Ivi, pp. 489-492. [23] Testimonianza resami il 22/06/2013. [24] L. Cavani, La donna nella Resistenza, cit. [25] B. Guidetti Serra, Compagne, op. cit., p. 539. [26] Ivi, pp. 526 e 630. [27] Ivi, p. 376. [28] A. M. Bruzzone – R. Farina, La Resistenza taciuta, op. cit., p. 145. [29] B. Guidetti Serra, Compagne, op. cit., pp. 614-615. [30] Ivi, pp. 543-544. [31] Testimonianza contenuta nel dvd Resistere per esistere, a cura del gruppo di ricerca dell’ANPI intercomunale di Alpignano e della sezione ANPI di Pianezza, 2006. [32] C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., pp. 541-548. [33] A. M. Bruzzone – R. Farina, La Resistenza taciuta, op. cit., p. 16. [34] «La Fiamma», marzo 1945, articolo Rivendicazione, in C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., p. 541. [35] A. M. Bruzzone – R. Farina, La Resistenza taciuta, op. cit., pp. 34-35. [36] Cfr. C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., pp. 542. [37] A. M. Bruzzone – R. Farina, La Resistenza taciuta, op. cit., p. 158. [38] Cfr. C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., pp. 544-546. [39] Cfr. C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., pp. 545-546. [40] Ivi, p. 545. [41] Ivi, p. 546-547. [42] Ivi, p. 547. [43] T. Noce, Rivoluzionaria professionale, Editrice Aurora, Milano, 2003, pp. 388-389. [44] F. Gori, I processi per collaborazionismo in Italia. Un’analisi di genere, in «Contemporanea», p. 671. [45] C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., p. 548. [46] F. Gori, I processi per collaborazionismo in Italia, cit., p. 672.

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